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Questo articolo, scritto da Huw Hopkins per The Basketball Writers e tradotto in italiano da Luca Rusnighi per Around the Game, è stato pubblicato in data 4 ottobre 2020.


La scorsa stagione NBA è stata l’ultima della carriera di Vince Carter.


Si parla spesso della sua clamorosa vittoria nella gara delle schiacciate, del suo ritorno a Toronto, di quel tiro sulla sirena a Dallas, delle tappe a Memphis, Phoenix, Orlando e dell’apprezzato ruolo di leader da lui assunto ad Atlanta e Sacramento con due team giovanissimi.

La sua mancanza di anelli al dito, però, non viene discussa altrettanto di frequente. Questo tipo di bilanci si fa normalmente al momento del ritiro di un giocatore, ma non sembra avere particolare importanza per Half Man, Half Amazing.

Carter ha raggiunto un traguardo storico e allo stesso tempo surreale: 22 campionati disputati, più di chiunque altro nella storia della NBA, della BAA e della ABA. Nessuno ha fatto altrettanto: quel record è solo suo.

Solo 7 atleti sono riusciti a durare vent’anni o più nella Lega, e Vince Carter è l’unico di questi a non aver vinto neanche un titolo. Va contro le probabilità, in effetti. L’NBA conta 30 squadre, e Carter è stato in campo per 22 stagioni. Da quando è stato scelto nel 1998, 9 franchigie si sono aggiudicate il campionato.

Com’è possibile che il giocatore più longevo nella storia della Lega, un pluri-All-Star, non sia riuscito a conquistare l’anello nemmeno una volta? Beh, ci sembra logico non contare i primi anni. La maggior parte dei team con una scelta alta al Draft è mediocre a dir poco. C’è una ragione per cui queste franchigie si ritrovano con la possibilità di selezionare uno dei migliori nomi sulla piazza – e Carter era senza dubbio uno dei migliori, anche se non al livello pronosticato da molti all’epoca.

Esemplare quasi unico nell’era dei fenomeni che dalla scuola superiore passavano direttamente al piano di sopra, Vince aveva fatto registrare 22 punti, 11.4 rimbalzi, 4.5 assist e 3.5 stoppate a partita alla Mainland High School, trasformandola nella miglior squadra liceale della Florida.

Invece di diventare professionista, aveva optato per andare al college – decisione applaudita da molti e talmente personale da risultare ineccepibile.


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A North Carolina non fece neanche il classico exploit di un anno – non solo perché voleva finire gli studi, ma anche perché ci mise un po’ a maturare in campo (7 punti, 3 rimbalzi e 1 assist di media da freshman).

Durante i primi tre anni a UNC migliorò in maniera costante e si costruì ottimi fondamentali, in una solida carriera a livello NCAA. La sua squadra vinse la ACC e partecipò alle Final Four diverse volte, seppur senza aggiudicarsi il titolo.

Le sue giocate al ferro, però, avevano fatto alzare parecchi sopraccigli a livello nazionale. E come non notarle, d’altronde?

Era un giocatore abbastanza versatile, cresciuto in maniera consistente durante il college. I suoi mezzi fisici ne facevano un buon difensore e nell’uno-contro-uno era semplicemente fenomenale.

Al Draft 1998, l’accordo tra Raptors e Warriors (che sceglievano con la numero 4 e 5) fece chiamare a questi ultimi il suo compagno ai Tar Heels, Antawn Jamison (al tempo reputato migliore di Carter).

Vince avrebbe aiutato i giovanissimi e inesperti Raptors a vendere biglietti e a fare un salto di qualità nella metà campo offensiva, cosa di cui avevano disperatamente bisogno. Le attese si rivelarono fondate quasi da subito: nell’annata 1999/00, i Raptors raggiunsero i Playoffs, seguiti da 47 vittorie la stagione successiva.

Ma il giorno di Gara 7 delle Semifinali di Conference contro Philadelphia, Carter presenziò alla sua cerimonia di laurea e raggiunse la squadra soltanto a poche ore dalla palla a due. Attirando, così, attenzioni e critiche di media e tifosi – che esplosero con il suo errore sulla sirena, che costò la stagione a Toronto.