Storia di come una sana colazione, cameratismo e pesi abbiano giocato un ruolo fondamentale nei 6 anelli dei Chicago Bulls nell’era Jordan.
Colazione: il pasto più importante della giornata
“Vieni a fare colazione, non puoi saltare il pasto più importante della giornata!”. Quante volte ce lo siamo sentito dire da mamme e nonne.
Le miracolose e incredibili proprietà della prima colazione ci sono sempre state paventate cosi, con allusioni a conseguenze catastrofiche che ci avrebbero colpito qualora avessimo saltato questo pasto. Nel dormiveglia, in ritardo per la scuola… si accetta l’assioma, la maggior parte delle volte ignorando che il messaggio in questione è stato sapientemente veicolato di generazione in generazione a quasi qualunque latitudine a partire da campagne pubblicitarie ben studiate per promuovere i cereali in fiocchi, inventati a fine ‘800.
Tuttavia, anche recentemente esperti nutrizionisti, critici culinari e accademici si pongono la domanda fatidica: è vero che la colazione è così importante?
Il professor Aaron E. Carroll della Indiana University School of Medicine ha demolito attraverso le pagine del New York Times la regola aurea della colazione. Trovando però immediatamente un antagonista che gli ha risposto a tono su altrettanto rinomata carta stampata d’oltreoceano.
Sul The Guardian il critico culinario Joshua David Stein ha, infatti, sostenuto che, al di là di quanto possa essere corroborato e provato da una ricerca scientifica, la colazione ci rende felici e “tentare di provare a confutare questa magia con i dati è come discutere la presenza del divino con una mappa delle autostrade. Sono due mondi differenti”, concludendo che ‘la magia è tutto quello che è la colazione’.
Chissà se tra il 1963 e il 1983, prima a Wallace e poi a Wilmington, la signora Deloris Peoples era consapevole dei poteri magici e benaugurali della colazione quando lottava per convincere l’irrequieto e iperattivo Michael Jeffrey a sedersi a tavola. E di quanto questo momento della giornata avrebbe poi giocato un ruolo fondamentale nella carriera del suo terzogenito.
The Breakfast Club: le origini
Se volessimo ricercare il momento esatto in cui è germogliato il Breakfast Club, esso non coincide con il primo allenamento all’alba svolto da Michael Jordan a casa sua insieme a Scottie Pippen nell’autunno del 1990, ma risale a qualche anno prima. Precisamente il 12 febbraio 1985, giorno in cui i Chicago Bulls ospitano i Detroit Pistons esattamente un giorno dopo il primo All-Star Game di MJ.
Michael aveva disputato una prima parte della sua stagione da rookie in maniera stellare; stagione poi chiusa con 28.2 punti a partita, 6.5 rimbalzi, 5.9 assist e 2.4 recuperi, e un maxi contratto con la Nike capace di far passare in secondo piano quelli con la Converse dei re della Lega di quei tempi, Magic Johnson e Isiah Thomas.
Ed è proprio quest’ultimo che, durante la partita delle stelle, orchestra un vero e proprio boicottaggio ai danni del rookie, votato per giocare da subito con i ‘grandi’. Il giovane MJ viene sistematicamente escluso dal gioco, reo di asserita strafottenza e mancato rispetto per i veterani, o forse più realisticamente responsabile di manifesto talento e carisma.
Ma torniamo al 12 febbraio. MJ ospita Isiah Thomas e quelli che di lì a poco sarebbero stati soprannominati i Bad Boys di Detroit. Chi ha detto che la vendetta è un piatto da servire freddo? BUM: 49 punti di MJ e vittoria dei Bulls al supplementare.
Ma anche…BUM…primi incontri del giovane MJ con i Bad Boys e, in particolare con Bill Laimbeer, il centro che si prendeva cura della sicurezza dell’area di Detroit.
La rivalità con i Bad Boys si fece sempre più intensa, culminando nella stagione 1987/88 in cui i Pistons di Chuck Daly eliminarono i Bulls di Jordan e Pippen – appena arrivato – nelle Semifinali di Conference grazie alle famigerate “Jordan Rules”, regole che consistevano in un sistematico set di raddoppi da parte dei perfetti fisici di giocatori come Joe Dumars, Isiah Thomas, Bill Lambieer, Dennis Rodman – hai detto Rodman? – ai danni dello stile di gioco “slasher” del Jordan dei primi anni. Raddoppi conditi da “bump” ad ogni occasione e falli duri, contatti, malizie per arginare le incursioni di Michael.
Gara 3 rissa con Laimbeer, Gara 5 gomitata di MJ a Thomas. Risultato: Detroit in Finale con successiva vittoria del titolo.
L’anno successivo non andò meglio. La rivincita ebbe luogo durante le Finali di Conference ma con lo stesso risultato. E nel 1990? Stessa sorte, Finale di Conference contro Detroit, stessa fine per MJ e soci in quello che anni dopo coach Phil Jackson avrebbe definito come il momento più difficile della sua carriera di allenatore.
Seppur con un miglior supporting cast, Michael aveva incontrato un muro, neanche tanto metaforico, capace di mettere a rischio i suoi sogni di gloria. La fisicità del gioco stava cambiando, la Lega consentiva ai difensori contatti sempre più duri, sia sul palleggiatore che lontano dalla palla. Ed è qui che giunse in ausilio del primo nucleo dei giovani Bulls la “magia” della colazione.
The Breakfast Club: uova, ghisa e Anelli!
Se volessimo scindere in tre aspetti il cambiamento che i Bulls, Jordan e alcuni compagni in particolare adottarono per superare i propri limiti e avversari fisici e brutali sul campo, potremmo individuare l’aspetto tecnico, l’aspetto atletico e la chimica di squadra.
Mentre per quanto riguarda il primo non si può certo negare la centralità del lavoro operato da Phil Jackson e da Fred Tex Winter con la faticosa ma fruttifera adozione del Sideline Triangle Offense di Kansas State del 1947, per quanto attiene i secondi due aspetti ecco farsi avanti la ferocia competitiva e l’intelligenza di Michael Jordan…e i consigli di mamma Deloris!
Jordan aveva capito che avrebbe dovuto costruire un rapporto più intimo con alcuni compagni. Rapporto che si sarebbe tradotto in una miglior intesa sul campo e in maggior fiducia qualora – ahilui – avesse dovuto coinvolgerli in azioni decisive.
Ma non solo: la fisicità e, in particolare, la durezza dei Detroit Pistons, gli fecero comprendere come non bastava essere un leggiadro ghepardo dei 28 metri, we need some muscles here Mike.
Lo status quo di Michael non era sufficiente per portarlo a vincere un Anello. Ci voleva qualcosa di più.
“Breakfast Club was a mindset more than a workout”, è Michael che ce lo racconta in una delle sue rare uscite sul circolo elitario che vide protagonista insieme a MJ, prima Scottie Pippen e Charles Oakley e, in seguito, sempre Scottie con Ron Harper e anche Randy Brown.
Volevano essere più preparati degli altri e i frutti si tradussero nel primo Three-Peat!
Ma per ripetere il Three-Peat anche il Breakfast Club dovette lavorare più sodo, confrontarsi su dinamiche tecniche e personali, valutare e testare i nuovi acquisti dei Bulls e, soprattutto, portare il fisico ad un ulteriore livello di preparazione e conoscenza dei propri limiti.
Ore 6 della mattina, autunno 1995. Il sole a Chicago non è ancora sorto. Scottie e Ron si dirigono verso il quartiere posh di Highland Park, dove Jordan ha la propria umile residenza dotata di una palestra attrezzattissima.
Ron Harper, il terzo moschettiere, è arrivato dai Clippers durante l’anno di pausa di Mike, dopo un brutto infortunio al ginocchio che ne aveva interrotto la stupefacente crescita dimostrata a Cleveland – Ron era stato addirittura etichettato come il successore di MJ e il primo Lebron era stato proprio paragonato a un Ron Harper con più muscoli (che i due Re non me ne vogliano).
Ron è un giocatore che può giocare 1,2 e 3, con visione di gioco, ottimo difensore, tiro affidabile, atletismo – purtroppo non come quello dimostrato a Miami University e Cleveland – e una capacità di mostrare sul campo senza troppi arzigogoli la sua voglia di rivalsa personale. È infatti affetto sin da piccolo da una forte balbuzie – poi limata negli anni – che lo ha sempre visto vittima di “taunting” da parte dei ragazzi coetanei…fino al momento in cui ci si allacciava le scarpe per giocare a pallacanestro. Eh si, in quel momento tutti volevano essere in squadra con il tanto vituperato Ron! Venendo di fatto puniti tutti. Questo tratto caratteriale piacque molto a Michael che lo accolse da subito nel Breakfast Club.
Ad accoglierli nella Jordan Mansion, oltre al padrone di casa, Scottie e Ron trovano Tim Grover, allenatore personale di MJ (lo sarà anche di altri giocatori ispirati da The Alien come Kobe Bryant e Dwayne Wade), che quando iniziò il proprio lavoro differenziato con his Airness capì subito che quest’ultimo era l’atleta che avrebbe sposato alla perfezione la sua filosofia per raggiungere l’eccellenza.
Filosofia ben riassunta nella seguente considerazione: “What would you have to sacrifice to have what you really want? Your social life? Relationships? Credit cards? Free time? Sleep? Now answer this question: What are you willing to sacrifice? If those two lists don’t match up, you don’t want it badly enough”.
Il menù della colazione è supervisionato da Grover e consta di uova, spremuta di arancia e bacon.
Ma il piatto principale consiste in un durissimo allenamento con squat e pesi, tutti i giorni in cui i Bulls sono a Chicago, inclusi i Game-day e Playoff.
E i ragazzi si applicarono eccome: squats, deadlifts, presses, pushups, rows, pullups, cleans, lunges, planks, swings erano solo alcuni degli ingredienti di “chef” Grover che vengono somministrati al circolo sotto la supervisione attenta e competitiva di MJ. L’obiettivo è sempre quello dell’inizio, l’insegnamento ricevuto dal tosto Joe Dumars: durante una partita, una stagione, una serie decisiva di Playoffs, bisogna essere pronti a resistere ai colpi e alla fatica e a non mollare mai, avere sempre una dose extra di velocità, forza e resistenza. Per non parlare dell’effetto preventivo che una buona e continua cura del corpo garantisce in tema di infortuni – Riccardo proprio sulle pagine di AtG ve lo ha ben raccontato nella traduzione “Essere LeBron James: una vita al microscopio”.
Ma un aspetto fondamentale già anticipato fu quello del cameratismo. Jordan, da genuino uomo del Sud come suo padre James prima di lui, ha da sempre prediletto cerchie ristrette di amici fidati con cui condividere il proprio tempo libero. Momenti in cui il Monarca cede un po’ del proprio potere temporale ad altri eletti, costituendo così una sorta di Oligarchia.
E molti Bulls del secondo Three-Peat sono passati, dopo quello del GM Jerry Krause, del coach Phil Jackson e della squadra durante gli allenamenti, anche al vaglio del Breakfast Club. Tra una fetta di bacon, una spremuta e un integratore, un giovane biondino di nome Steve da Arizona University, dotato di un tiro mortifero ma che aveva osato contraddire MJ su una questione sindacale – beccandosi un pugno in un occhio – è stato ampiamente soppesato dal circolo; ne è stata valutata la “cazzimma”, l’intelligenza cestistica e gli è stato conferito informalmente un ruolo chiave.
Lo stesso era avvenuto con Toni Kukoc, sul quale Scottie era a dire il vero inizialmente un po’ scettico – o un po’ intimorito – e Dennis Rodman.
La valutazione su il Verme non fu peraltro scontata e banale come potrebbe sembrarlo ora con il secondo Three Peat archiviato. Il GM Jerry Krause, infatti, sapeva che l’operazione che avrebbe portato Rodman da San Antonio alla Windy City quale ultimo tassello per costruire la squadra del secolo, era soggetta al veto del Re e del suo circolo ristretto di Cavalieri.
Non dimentichiamoci, infatti, che Dennis era parte integrante di quei Pistons di Chuck Daly che per anni avevano bastonato a suon di punti e colpi proibiti i primi Bulls di MJ e Scottie, con Dennis a giocare un ruolo molto attivo nel “massaggiare” The Pip.
Ma la filosfia di Tim Grover tornò di attualità: ‘What would you have to sacrifice to have what you really want?’
Dennis era perfetto per il meccanismo dei Bulls e il Breakfast Club diede il proprio benestare, demandando il compito di gestire l’eccentrica ala forte al Maestro Zen Phil Jackson. Il quale non fece affatto un cattivo lavoro, come ci racconta Michael stesso dalla sua biografia firmata Mark Vancil:
“I Chicago Bulls erano la squadra perfetta per Dennis Rodman e Phil Jackson l’allenatore ideale. Phil gli permetteva di fare quello che voleva, ma, allo stesso tempo, al fischio d’inizio, Dennis doveva inserirsi e sentirsi unito col resto della squadra. Non mi interessava se scappava via per i suoi viaggi fuori programma, se restava fuori tutta la notte o qualsiasi altra cosa facesse. Ma quando arrivavamo all’arena dovevamo sostenerci l’uno con l’altro. Ognuno di noi era libero di esprimersi come individuo e manifestare l’unicità della propria personalità. Phil, questo ce lo ha sempre concesso. Lui capiva che imporre delle restrizioni allontanava certi giocatori, soprattutto quelli cresciuti per la strada, abituati ad uscire per rilassarsi. Alla fine sarebbe stato controproducente per il collettivo.“
Il risultato? Una stagione da 72 vittorie e il Three-Peat ripetuto!
Colazione d’oro
Un ultimo aspetto interessante di questo programma di allenamento mattutino è strettamente legato al tocco da Re Mida dell’anfitrione del Breakfast Club. Per farlo è però doveroso ricordare come Michael monetizzi qualunque cosa venga avvicinata dalla propria aura, anche ben dopo il ritiro.
Jordan, infatti, dal 1985 al 2015 ha percepito dalla Nike 480 milioni di dollari. Ad onor del vero, è doveroso anche ricordare che il giovane Mike appena uscito da North Carolina necessitò dello sprone della famiglia e del suo astuto agente Davide Falk per decidersi ad accettare l’offerta dell’azienda dello Swoosh, al tempo specializzata in attrezzatura per running e in una situazione finanziaria tutt’altro che rosea.
Possiamo dire che così come gli anni di allenamenti e pesi mattutini hanno forgiato il suo fisico scultoreo, così gli anni di affari con la Nike e non solo hanno sicuramente affinato il suo acume imprenditoriale.
MJ, infatti, porta a casa come “pensione d’oro” anche 18 milioni di dollari l’anno da Gatorade, 14 da Hanes, 14 da Upper Deck e 10,6 milioni da XEL, per un totale complessivo di circa 100 milioni di dollari l’anno. E in questo conto non viene valutato l’apporto degli Charlotte Hornets, di cui Jordan è proprietario, che secondo Forbes raggiungono un valore di 725 milioni di dollari.
Il tocco dorato non poteva risparmiare nemmeno il circolo della colazione. Nel 2016 la Nike fa del Breakfast Club strumento di investimento lanciando il programma Jordan Breakfast Club Training.
Corredato da una linea ad hoc di abbigliamento sportivo, l’esperienza del Jordan Breakfast Club Training si costruisce attorno a un programma di 30 giorni studiato da Alex Molden, ex giocatore della NFL nonché “technical director and Jordan Brand Master trainer” che ha lavorato con professionisti del calibro di Antonio Brown, CP3, Dez Bryant , Russell Westbrook, Kawhi Leonard, Blake Griffin, Ndamukong Suh, Todd Gurley, Roger Federer, Usher e Alex Morgan.
Si tratta di un programma digitale di allenamento guidato da atleti del brand Jordan tra cui Dez Bryant, Erik Kynard, e Jalen Ramsey di cui si sono tenute dimostrazioni dal vivo a Chicago, New York, Los Angeles e Toronto.
Larry Miller, presidente del Jordan Brand riassume così la “filantropica” iniziativa di diffusione alle masse dei segreti della “magica” colazione di Michael e compagni:
“Michael rappresenta l’impronta della grandezza. Siamo emozionati nel condividere con i giovani atleti di oggi segreti e trucchi per un allenamento che consenta loro di inseguire e perseguire i propri obiettivi di eccellenza”.
Insomma, buona colazione a tutti!