Indiscussa icona pop per il suo stile e amore per l’estetica in ogni sua sfumatura; amante viscerale del Gioco e della NBA. Jimmy Goldstein è tutto questo e molto altro ancora. Eppure, dietro la sua figura splendente, si cela un lato oscuro fatto di ombre e ambiguità.

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Giacca di pelle nera, con motivi variopinti e patches colorate cucite qua e là. Pantaloni di pelle neri, lucenti e attillati. Stivali neri. Un foulard legato al collo; ovviamente in tinta con la giacca. E con il cappello. Di pelle. Nero. Da sotto il quale emergono lunghi e frizzanti capelli grigi. Che paiono finti, di cotone. Al braccio una dama di compagnia. Di diverse decine di anni più giovane rispetto al cowboy che, seppur con galanteria ed eleganza, di fatto la sfoggia.


È appena sceso con movimenti dinoccolati da una Rolls-Royce Silver Cloud decappottabile color panna del 1961. Parcheggiata rigorosamente di fronte all’ingresso dei VIP della Oracle Arena. Come si compete a quella che per tutti è un’icona indiscussa, ma che la guardia all’ingresso inizialmente pare non riconoscere.

Hey! Hey! Ferma. E questo chi sarebbe?”

È Gara 2 delle Finals NBA 2016. LeBron James e i suoi Cavs sono ospiti dei Warriors ad Oakland, e il livello di sicurezza da assicurare per un evento di tale portata deve essere ai massimi livelli. Nessuno può entrare senza prima essere scansionato da capo a piedi dallo sguardo attento di un addetto.

Il distinto signore si ferma, smettendo per un istante il suo sorriso: non era nei piani un moto di dubbio di tale “aggressività” da parte dello steward. Soprattutto contando che, nel giro di qualche minuto, un nugolo di telecamere e fotografi si avventerà su di lui e compagna per documentare il trionfale ingresso. Dritto sino al parquet, ai due seggiolini in prima fila acquistati per 12.500 dollari l’uno. Sempre che qualcuno non lo fermi prima per reclamare una foto.

Lo studio della sua figura dura un attimo, il tempo di realizzare di aver preso un colossale abbaglio. La guardia si scusa con gli occhi e prorompe in un’espressione distesa e accogliente, immediatamente condivisa dal vecchio Cowboy.

“Oh, mi scusi tanto. Prego, di qua… D’altronde” – rivolgendosi al collega, che aveva assistito divertito alla scena – “chi non conosce Mister Jimmy Goldstein?”


La risposta alla domanda “Chi è davvero Jimmy Goldstein?”, oltre ad essere stata sviscerata in tutte le salse ed essere divenuta per certi versi quasi noiosa, ha numerose declinazioni. E il bello di questo gioco è che nessuna è totalmente esaustiva.

Icona etero, per le splendide fanciulle che da sempre lo accompagnano nelle sue apparizioni pubbliche e contribuiscono “a farmi sentire giovane. Preferisco essere circondato da persone più giovani, sono più attraenti. Le ragazze con cui di solito esco sono tutte nel fiore dei 20 anni.” Oltre ad essere un ferreo sostenitore della convinzione antropologica che una donna meravigliosa porti con sé l’invidia di tutte le altre e le spingerà a contendersi l’uomo che le offre il braccio. E guai a nominare la parola “matrimonio”.

Insospettabile icona gay, per il suo modo di vestire. Cosa che, per altro, non lo ha mai infastidito; in primis perché di idee assolutamente liberali e poi per l’attenzione che ha contribuito a far crescere attorno alla sua figura.

Icona di stile. I suoi outfits, rigorosamente personalizzati, sono il frutto di una ricerca di esclusività che lo ha portato negli anni a renderlo – assieme a Craig Sager – una delle celebrità più risaltanti del circus NBA. Pur non avendo una vera e propria figura al suo interno se non quella di “Superfan”. Tratto distintivo, oltre alle giacche in pelle liberamente ispirate a Michael Jackson, è senza ombra di dubbio il cappello. Immancabile e lucente, ad impreziosire completi di brand d’alta moda – Cavalli, Balmain e Yves Saint-Laurent i marchi più amati, alle cui sfilate è presenza fissa, senza però riuscire mai a sacrificare una partita della Lega. La sua influenza ha colpito talmente gli appassionati da lanciare una linea in proprio: Jimmy Goldstein Couture.

La filosofia del suo brand è legata a doppia mandata al divertimento: un suo capo deve essere indossato rigorosamente in occasione di un party o di eventi mondani importanti.

Ma anche al lifestyle di Los Angeles, di Hollywood… che rappresenta quello che sono. Quindi se ci si deve vestire per andare in ufficio, è preferibile che non si indossi un capo Jimmy Goldstein Couture.

Appassionato di architettura e design. O più in generale di ciò che è bello. La sua principesca dimora sulle colline di Bel Air, Beverly Hills, fu progettata nel biennio dal 1961 al 1963 dall’architetto John Lautner e successivamente acquistata da Goldstein nel 1972 per 182mila dollari (più di 1 milione se confrontati con il mercato attuale); gioiello avveniristico di Organic Architecture – corrente che mira ad elevare l’armonia tra mondo naturale e abitazioni umane – la Sheats-Goldstein Residence è rinomata per il suo crogiuolo di ferro, legno, vetro e marmo.

Il meraviglioso soggiorno ammirato ne “Il Grande Lebowsky”; la limpida piscina, nella quale si è immersa tra le altre niente meno che Miss Baywatch Pamela Anderson; le stanze che hanno offerto sfondo a circa 300 shooting fotografici – molti dei quali riportati meticolosamente sul suo profilo Instagram; i campi da basket e da tennis, hobby particolarmente caro a JG e non di rado praticato con giocatori non convenzionali (chiedere a Rudy Gobert); il Club James, ala deputata a discoteca nella quale numerose celebrità hanno avuto il piacere di poter organizzare feste private o eventi esclusivi (una su tutte Rihanna, ma anche Calvin Harris, Nike, Lacoste); per arrivare ad Above The Horizon, installazione artistica collocata su di un pendio ai piedi dell’edificio, a spiovente sul panorama mozzafiato offerto dalla vista di Los Angeles. Un’opera d’arte globale promessa dallo stesso Goldstein al Los Angeles County Museum of Arte e che diverrà polo museale sede di una collezione permanente.

Ma soprattutto super tifoso NBA. Abbonato sia ai Los Angeles Clippers – per sincera fede, nonostante la sua passione sia nata da bambino grazie alla squadra della sua città di origine, gli allora Milwaukee Hawks – che ai Lakers – per sfregio, visto che né Jerry prima né Jeanie Buss poi lo hanno mai ufficialmente invitato allo Staples Center – Goldstein si divide annualmente su 100 campi diversi per seguire altrettante partite.

Da decadi non perde una gara di NBA Finals, sempre ben attento a collocarsi in primissima fila. E nemmeno un’All Star Game, dove le 24 superstar di Est ed Ovest fanno la fila per porgli i propri ossequiosi omaggi riconoscendo la sua sconfinata grandezza e incensandosi il capo della sua stima. Il tutto senza mai aver infilato un pallone da Basket in un canestro a livello professionistico, ma come se fosse la cosa più naturale al mondo che alieni come LeBron James o Steph Curry accorrano a stringergli la mano. Complice anche la sua confidenziale amicizia con l’ex capo supremo David Stern, che da sempre lo ha elevato agli occhi di tutti come personalità di spicco.

Sorprendentemente (?) attorno a lui aleggia un’aura di profondo conoscitore del Gioco: tanto che persino Hakeem Olajuwon – pare, visto che lo stesso Goldstein come in altri contesti non ha mai confermato la versione di pubblico dominio – gli chiese consiglio su come affrontare l’ammiraglio David Robinson, in una serie finale contro i San Antonio Spurs. Un paio di suggerimenti e successivi aggiustamenti e il Larry O’Brien finì nelle mani degli Houston Rockets, con Olajuwon a dominare letteralmente il numero 50 nero-argento.

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Goldstein è un autentico amante degli outsider: è stato un grande sostenitore dei Sacramento Kings di Webber, della filosofia “7 second or less” dei Suns targati Nash&D’Antoni. Ed è arrivato a definire “struggente” il tiro da 3 sulla sirena di Gara 6 delle Finals 2013 che ha consegnato alla storia Ray Allen. “Il più grande tiro della storia della NBA: e io c’ero, ero proprio lì”. Occupa un posto privilegiato nella galleria fotografica della libreria della Sheats-Goldstein Residence.

Assieme ad altre decine di foto con giocatori NBA: da LeBron James ai tempi dell’High School a Sam Cassell, passando per Anthony Davis, Deron Williams, Jamal Crawford, Klay Thompson, Steph Curry e molti altri, ad arricchire un portfolio costantemente aggiornato anche su Instagram. Particolare stima è rivolta ai giocatori europei o stranieri: Boris Diaw, Rudy Gobert, Alexey Shved, Jonas Jerebko, Andrei Kirilenko, Manu Ginobili, Tony Parker, … con molti dei quali intrattiene rapporti amicali fuori dal campo, di fronte ad un buon bicchiere di vino o facendo due tiri al “campetto dietro casa”.

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Essere un NBA Superfan comporta onori ed oneri. Uno dei quali rappresentato da un “$500.000” alla voce “spese annue per biglietti e spostamenti”. Trasferte che toccano anche l’oltreoceano: Goldstein è stato visto a bordocampo al Forum di Assago, in occasione di una partita dell’Olimpia Milano che cadeva durante il periodo della settimana della moda milanese.

Gli spostamenti rigorosamente su voli pubblici: “Preferisco investire i soldi di un aereo privato in una partita. Anche perché i costi sono esageratamente alti, e l’unico stress che occupa la mia vita è quello di raggiungere l’aeroporto per recarmi al prossimo match.” D’altronde,

30 presenze fisse annue ad una Gara di Playoffs con circa 20.000 dollari di completo addosso richiedono sacrifici in altri ambiti.

Eppure, al netto del luccichio di tutto questo, l’abusata domanda – continuamente riproposta e di fronte alla quale il diretto interessato ha sempre preferito glissare con un elegante e placido sorriso – rimane: chi è davvero James F. Goldstein?


Nel giugno del 2016 Michael Hafford di Vice Sports fece uscire sulla celebre rivista online un articolo intitolato “Il misterioso Jimmy Goldstein: icona di stile, super appassionato NBA… “stronzo” proprietario terriero.

In esso, dopo aver descritto il personaggio glamour tanto amato e stimato dal pubblico, Hafford decise di superare l’elegante barriera di omertà imposta dallo stesso milionario per scavare più a fondo. Nel sommerso. Per cercare di andare oltre la figura del self-made man arrivato in California dalla fredda Milwaukee e che, dopo una laurea breve in Economia a Standford e un Master in Business Administration alla UCLA, si era arricchito grazie a investimenti nel floridissimo mercato immobiliare statunitense degli anni ’60 -’70. Entrando a far parte della Rammco Investments Corporation, società neonata che iniziò comprando un terreno agricolo alla periferia di Los Angeles e lo rivendette ricavando milioni di dollari.

Arthur Carlsberg, presidente della Rammco, era riconosciuto come un guru degli investimenti per aver inventato un algoritmo utile a valutare un terreno, operandone la compravendita con il massimo del guadagno.

La compagnia si occupò di acquistare e rivendere a lotti con il 10% di commissioni numerosi terreni della South California, cavalcando il boom di interessi immobiliari in quella zona. E Goldstein contribuì alla crescita della propria ricchezza muovendo terreni sullo scacchiere dell’area di Riverside e San Bernardino.

Ma fu il 1971 a rappresentare il definitivo punto di svolta, che coincise con il suo ingresso negli affari legati alle Mobile Home.

Vi fu introdotto proprio da Carlsberg, che per primo scorse in esse un enorme potenziale: prefabbricati mobili – o fissi – a basso costo, le Mobile Home potevano essere trasformate in graziose abitazioni per inquilini comuni di basse pretese e disponibilità economiche. E ovviamente necessitavano di aree entro le quali essere collocate, che potevano divenire veri e propri quartieri ribattezzati “Parks”. L’inquilino poteva possedere la propria casetta e necessitare solamente di un appezzamento di terreno sulla quale disporla, oppure poteva affittare entrambi – chiaramente a prezzo maggiorato.

Hafford riportò l’estratto di un articolo di Time, che nel 1972 aveva trattato con grande interesse la tematica.

Per un investitore, i Parks presentano, al netto di qualche svantaggio tipico anche degli altri progetti immobiliari, innumerevoli vantaggi: prima di tutto i costi di costruzione sono ridotti al minimo indispensabile, mentre i benefici fiscali sono decisamente massimi. Visto che un Park contiene solo un numero minimale di strutture permanenti, Carlsberg paga imposte decisamente più basse rispetto a quelle che dovrebbe versare se possedesse un centro commerciale o un palazzo di uffici.” Traendone enorme profitto.

Alla morte di Carlsberg, occorsa nel 1978, Goldstein decise di mettersi in proprio acquisendo diversi Mobile-Home Parks disseminati per la South California. Allargando anche il numero di casette fisse da affittare in associazione alla piazzola qualora l’inquilino non possedesse la propria ma continuando a far figurare le stesse come mobili. Con la conseguente tassazione stracciata. E attorno ad essi fiorì negli anni non soltanto un agglomerato nutrito, ma anche una vera e propria comunità.

Hafford, incuriosito, decise di recarsi di persona a Colony Cove – acquisito per ultimo nel 2006 – per parlare coi suoi abitanti. Lo scenario che gli si offrì fu quella di un vero e proprio quartiere di casette disposte a schiera lungo diversi vialetti, ognuna con un proprio praticello e piante disposte di fronte alla facciata. Pur di fronte a delle sistemazioni estremamente contenute, non potè non notare il forte clima comunitario che intercorreva tra i vari inquilini e che contagiava anche gli addetti all’area verde e alla pulizia delle strade, sempre contenti di fare due chiacchiere con gli abitanti.

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Foto: © Patrick Fallon, for Vice Sports

Niente spazzatura per strada, macchine nuove, persone che camminavano verso l’area piscina con gli asciugamani. Sembrava una sorta di pensione confortevole: non troppo costosa ma nemmeno spartana. Anche se gente sulla cinquantina non appartiene propriamente alla categoria “pensionati”. C’è un vero e proprio quartiere lì. Le persone si prendono cura le une delle altre.

Eppure Colony Cove, per quanto potesse parere un’oasi felice, nascondeva tra i fili della sua erba verde e ben curata odio e astio. Nei confronti di quello “stronzo”, di quel “lurido figlio di puttana” del padrone. La rabbia espressa in termini così forti da due persone intervistate spinse Hafford ad indagare più a fondo, scoprendo che dietro una tale insofferenza c’erano delle manovre dello stesso Goldstein tutt’altro che trasparenti. Ovviamente per spremere al massimo i guadagni, sulle spalle dei suoi affittuari, persone comuni – dall’ex postino all’ex agente della polizia di Los Angeles, passando per un’ex location manager cinematografico della vicina Hollywood.

Il piano veniva declinato regolarmente in due modalità differenti. La prima consisteva nell’aumentare l’affitto oltre il cosiddetto “Rent Control” imposto dalla città ospitante i suoi Parks. Il “Rent Control” rappresenta una politica di controllo degli affitti che limita il tasso di canone che il locatario può richiedere al conduttore, regolando così il rapporto tra i due. Pur avendo ben chiara in testa la legge, Goldstein provvedeva ad aumentare ciclicamente l’affitto ben conscio di sforare il limite imposto dalla commissione, per poi far causa alla città stessa, che ovviamente si era nel frattempo imposta contro tale misura. Un’azione senza alcuna speranza di vittoria, che faceva poi ricadere economicamente sugli affittuari, scaricando su di essi le spese legali e giustificando così il rialzo del canone. Nel settembre 2007, in questo modo, ripagò il finanziamento di $18M provvedutogli dalla GE Capital per l’acquisto di Colony Cove, che in totale era ammontato a $23.050.000. 618,15 dollari mensili di aumento complessivo – 36,74 dollari d’aumento mensile per singolo spazio. L’anno dopo formulò un ulteriore aumento di 250 dollari, sforando il tetto di 10 volte visto il massimo proponibile sarebbe stato di 25$. Risultato? Azione legale contro la città di Carson e spese a carico degli affittuari.

Se già la prima strategia era subdola, la seconda rappresentava una vera e propria prova di forza: sfruttando una legge californiana del 1893 che regolamenta la suddivisione dei terreni cittadini, suddivise unilateralmente El Dorado Park in lotti, convertendolo da “rent controlled” – ovvero “controllato tramite affitti” – a “lotti in vendita”. In questo modo forzò senza mezze misure gli abitanti ad acquistare il terreno sul quale giaceva la loro casa, per non essere sfrattati; oltre che la casa stessa, qualora non ne fossero già i proprietari. Spacciando per altro tutto l’operato come una mossa a favore degli inquilini, che potevano così possedere la propria casa e la prorpia terra, e non esserne più semplici affittuari.

Alcuni abitanti di El Dorado si piegarono al ricatto. Altri, invece, abbandonarono il Park. All’ispezione del giornalista di Vice, l’area presentava numerose casette vuote. E alcuni vociferarono che la cosa fosse tutt’altro che un caso.

Goldstein tentò la stessa soluzione anche a Colony Cove, nel 2009. Incontrando però una ferrea resistenza legale da parte della città e dei residenti. La suddivisione, ai tempi dell’articolo, non era ancora stata effettuata. Ma il milionario aveva da poco vinto una causa alla corte federale contro la città di Carson, con obbligo di essere risarcito per una cifra monstre di 10 milioni di dollari.

Un po’ per ripicca un po’ per esigenze economiche, Goldstein operò dei tagli alle spese, licenziando i giardinieri, rimuovendo il cancello di sicurezza e riducendo le forze di sicurezza che vigilavano sulla quiete degli abitanti ad una sola guardia. Con conseguenze anche gravi, tra cui furti e spaccio di sostanze stupefacenti in una zona del Park nella quale, secondo le testimonianze, si vennero ad assemblare sempre più di frequente bacini di attività non meglio identificate, pronti a smantellarsi ogni qualvolta gli esasperati abitanti richiedessero l’intervento di qualcuno.

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Ed è così che la domanda “chi è davvero Jimmy Goldstein?” viene avvolta, oltre che dalla luminosità dell’immagine pubblica, dall’oscurità di quella meno nota. Di primo impatto, l’eleganza e la grazia con le quali glissa regolarmente domande circa il suo passato e la sua ricchezza lascia spiazzati. Si è quasi convinti da quel sorriso magnetico che niente di tutto questo conti davvero qualcosa. O perlomeno non al cospetto del personaggio che ci si trova di fronte, sempre pronto ad una parola gentile o ad uno sguardo affabile nei confronti del proprio interlocutore.

Sguardo che, tuttavia, mostra sicurezza nei propri mezzi e consapevolezza del proprio essere. Goldstein da’ sempre l’idea di essere in pieno controllo, di se stesso e di ciò che ha intorno; come un consumato giocatore di poker sa perfettamente quando sbottonarsi e quando chiudersi in protezione. E questa è una caratteristica che fa parte sì di un personaggio eccentrico, ma che cela anche un’autoconsapevolezza di grande spessore, che ha contribuito a creare una difficoltà di giudizio globale nei suoi confronti.

Penso che un po’ si esageri. Penso che ormai non ci sia qualcosa di davvero segreto per quanto mi riguarda. Anche se, devo ammetterlo, mi è sempre piaciuta la reputazione di uomo misterioso.”

Ama il mistero radicato in sè, ma d’altra parte lo sminuisce, facendolo passare in secondo piano quasi fosse soltanto una storiella di poco conto. E convincendo il profano che sia così.

Eppure, se in tanti risultano essere illuminati dal suo splendore, esiste una folta realtà di persone che di esso ne fa le spese, disincantate dal suo modo di essere che lusinga la fantasia di molti. Persone comuni fuori dal coro, mantenute nell’ombra del suo lato oscuro.

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