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Finire la carriera nella stessa squadra con la quale la si è iniziata  è una delle imprese che più vengono applaudite nello sport. Le carriere di Tim Duncan, Dirk Nowitzki e Kobe Bryant, ad esempio, vengono inevitabilmente esaminate attraverso il riflesso di averle trascorse interamente all’interno della stessa franchigia.

 

La possibilità che carriere del genere si verifichino di nuovo tra i giocatori di massimo livello – e non solo loro – diminuisce ogni anno. Con l’aumento del potere contrattuale dei giocatori e la fretta sempre maggiore delle franchigie di diventare competitive, vedere un’altra storia come quelle di Duncan o Kobe sembra quasi impossibile. Dei 56 giocatori attivi in NBA con almeno 10 stagioni alle spalle, solo due hanno sempre giocato con la stessa squadra: Steph Curry ai Warriors e Udonis Haslem agli Heat. Ognuno di loro ha vinto tre titoli durante la sua carriera con la rispettiva squadra.

 

Ciononostante, l’aura leggendaria che avvolge queste imprese – che comunque sono quasi completamente basate su una combinazione di fortuna, devozione e competenza della franchigia – deve essere esaminata. Recenti avvenimenti potrebbero far pensare che questo sia uno dei problemi del basket dei giorni nostri, dato che prima della “Decision era” c’erano tantissimi giocatori che riuscivano a trascorrere intere carriere in una sola squadra. Tuttavia, si tratta di una fallacia post hoc, una semplificazione del fenomeno e una visione nostalgica del passato. Se guardiamo indietro alla storia dell’NBA, possiamo notare una correlazione comune tra i giocatori che sono rimasti in una sola franchigia, e tra quelli che l’hanno cambiata.

 

 

Non solo titoli

 

L’NBA diventò quella che conosciamo oggi nella stagione 1949/50. Da allora, ci sono stati 47 giocatori ad aver militato per 10 o più stagioni nella stessa squadra. Netta prevalenza per due franchigie: Boston Celtics e Minneapolis/Los Angeles Lakers. In questo arco di tempo, le due squadre hanno vinto 33 titoli su 73, e hanno visto 13 dei 47 giocatori sopracitati nei loro roster. L’interrelazione tra questi numeri è evidente.

 

John_Stockton_Around_the_Game_NBA

Non serve aggiustare ciò che è rotto. Queste due squadre hanno attraversato diverse ere di dominio all’interno della Lega. Prima degli ultimi dieci anni circa, i giocatori non avevano gli stessi incentivi di oggi (fama, maxi-stipendi o la possibilità di giocare con giocatori stimati) per lasciare una squadra, e ciò risultava in molte carriere interamente spese in una franchigia.

 

Prendendo in considerazione i 50 migliori giocatori nella storia dell’NBA annunciati all’All Star Weekend del 1997, solamente 9 su 50 hanno finito le loro carriere senza aver vinto un titolo (contando anche Elgyn Baylor che giocò solo 9 partite in tutta la stagione 1971/72 con i Lakers, i quali vinsero in finale contro i New York Knicks). Di questi nove giocatori, solo due giocarono per una sola franchigia (Elgyn Baylor e John Stockton). Senza differenziare se fosse la squadra a volersi sbarazzare del giocatore (Patrick Ewing a Nate Thurmond) o il giocatore a volersi sbarazzare della squadra (Charles Barkley e Karl Malone), il fattore principale alla base del cambiamento di franchigia è stato la percezione dell’assenza di concrete possibilità di successo. 

 

Tenendo ciò a mente, è irrealistico aspettarsi che un giocatore rimanga con la squadra che l’ha draftato per un lungo periodo, se in questo tempo la franchigia non è andata nemmeno un paio di volte in finale.

 

 

Questione di mercato

 

Diversamente dai Lakers e i Celtics, molti giocatori hanno avuto carriere nelle loro squadre semplicemente per ragioni dovute a ridotte possibilità di mercato. È il caso dei San Antonio Spurs, Utah Jazz, Indiana Pacers e Dallas Mavericks (che hanno avuto più di 10 giocatori che non sono mai scesi in campo con una divisa diversa da quella della loro squadra).

 

Queste squadre non hanno mai avuto il cachet per potersi portare a casa free agent di altissimo livello, inoltre spesso finivano le stagioni qualificandosi per i Playoffs e ciò comporta scarse chance di draftare rookie di livello. Tutto ciò ha fatto sì che queste squadre molto spesso, una volta ottenuta una superstar, ci puntassero per molti anni. Strategia che si è rivelata vincente con Tim Duncan e Dirk Nowitzki, ma che ha avuto esiti differenti per altre franchigie, come Utah e Indiana, che sono solo riuscite a  comparire alle Finals senza mai vincerle.

 

 

La lealtà non è a senso unico

 

30 Agosto 2017, data in cui le franchigie NBA hanno realizzato definitivamente che non sempre conviene trattenere la propria superstar.

 

Esistono svariati esempi nella storia dell’NBA di squadre che non si sono comportate correttamente nel momento di lasciare andare via un loro giocatore importante, ma nessuna eguaglia il modo in cui i Boston Celtics, e Danny Ainge in particolare, hanno trattato Isaiah Thomas. Dopo aver giocato due stagioni da All-Star, aver guidato i Celtics al primo posto nella Eastern Conference, giocato sopra a un serio infortunio all’anca ed esser sceso in campo il giorno dopo la tragica morte di sua sorella, IT è stato scambiato con Kyrie Irving.

 

 

Questa trade ha creato un precedente che viene tirato in ballo ogni volta che si parla di lealtà in NBA. Per troppo tempo si è stati convinti che, quando un giocatore lascia la sua squadra, lo fa per sua decisione. Ad oggi ci sono ancora giocatori come Paul Pierce e Charles Barkley che seguono questo datato tipo di narrativa – nonostante i Celtics si siano liberati di Pierce e nonostante Barkley sia più volte in carriera andato via dalle sue squadre; ma quanto accaduto tra Thomas e i Celtics contribuisce a cambiare in modo indelebile questo modo di vedere le trade.

 

 

 

The Chambers Effect

 

L’NBA ha probabilmente il più complesso Collect Bargaining Agreement (CBA) di tutte le leghe sportive professioniste. Ciò detto, prima del 1988 la free agency era vista in modo molto differente da ora.

 

Prima di quell’anno il movimento dei giocatori tra le franchigie era limitato. In teoria e in pratica, l’unico modo per un giocatore di unirsi a una squadra era di essere draftato o scambiato, la free agency era limitata alla squadra proprietaria dei diritti del giocatore per pareggiare le altre offerte da altre squadre. Quando Tom Chambers rifiutò di rifirmare il contratto con Seattle per accettare la proposta dei Phoenix Suns, l’NBA dovette reagire. E fu questo fatto a gettare le basi per la situazione odierna. Da quel momento la CBA cambiò svariate volte, includendo salari per giocatori scambiati e firmati, cosa qualifica un giocatore come restricted o unrestricted free agent e anche la possibilità di porre un veto alle trade.

 

Negli ultimi anni l’assetto delle contender NBA è passato dall’essere prevalentemente costruito su giocatori selezionati al draft a roster costruiti firmando free agent e scambiando giocatori. Dei 18 giocatori che hanno vinto l’MVP delle Finals dalla stagione 1988/89, nove l’hanno vinto giocando per una squadra che non li aveva draftati. Tra il 1969 – anno di nascita del premio MVP delle Finals – e il 1989, solamente quattro giocatori (Wilt Chamberlain, Rick Barry, Moses Malone e Dennis Johnson).

 

 

Una questione di intenzioni

 

Quando sentiamo la parola “lealtà”, essa scaturisce in noi immagini di amori eterni e dedizione che non vacilla. Così dicendo non possono non venirci in mente le carriere di Bryant, Duncan e Miller: considerati da molti i migliori giocatori delle loro rispettive franchigie, tutti e tre hanno mostrato il meglio della loro incrollabile lealtà. A parte che, in realtà, non l’hanno fatto. Nonostante nessuno di loro tre abbia mai vestito un’altra maglia, tutti e tre a un certo punto della loro carriera hanno espresso il desiderio di lasciare la squadra.

 

Kobe_Bryant_Tim_Duncan_Around_the_Game_NBA

 

Nel 1996, Reggie Miller si dichiarò infastidito dalla firma di Allan Houston con i New York Knicks, e menzionò questo fatto come la ragione principale per la quale ri-firmò per Indiana. Tim Duncan nel 2000 fu molto vicino ad abbandonare gli Spurs (che ebbero un gran colpo di fortuna a draftarlo) e raggiungere Tracy McGrady e Grant Hill ad Orlando. Nel 2007 divenne di dominio pubblico che Kobe Bryant, dopo essere stato accusato della fine della dinastia Lakers, desiderasse essere ceduto a Chicago. Ma questi tre giocatori rimasero con le loro squadre nonostante la loro volontà di lasciare. Se avessero ottenuto ciò che volevano, nessuno di loro si sarebbe annoverato tra i 47 giocatori sopracitati. E il discorso non vale solo per loro: da Kevin McHale a Isiah Thomas, molti giocatori erano pronti a lasciare le loro franchigie (o viceversa). Anche se poi alla fine molti sono rimasti, il percorso fatto nelle loro squadre non fu esente da oscillazioni.

 

La verità è che la lealtà non fa parte del mondo NBA. Nonostante in ogni epoca certi giocatori sono stati fortunati abbastanza da riuscire a restare (e vincere) in una sola squadra per tutta la carriera, la grande maggioranza non ha avuto questa opportunità, oppure non l’ha proprio voluta.

 

Si può rendere onore a Zion Williamson per aver detto di voler giocare tutta la sua carriera con i Pelicans (sì, senza neppure avere esordito in NBA), e lo si può rendere anche a Damian Lillard per aver scelto di insistere (a perdere, potenzialmente) con Portland anziché andare in un’altra squadra a vincere. Tuttavia, se New Orleans o Portland in futuro dovessero andare in un’altra direzione, potrebbe darsi che riguarderemmo a queste scelte con un’ottica differente.

 

La lealtà, semplicemente, muore nel momento in cui è messa in dubbio, e tenendo ciò a mente è bene accettare il fatto che potremmo non assistere più ad un giocatore che spende la sua intera carriera con una sola franchigia, o una franchigia che voglia trattenere un giocatore per tutta la carriera. E dovrebbe andarci bene così.

 

 

 

 

 

 

©️ Double Clutch

 

Questo articolo, scritto da Clark Priday per Double Clutch e tradotto in italiano da Daniele Casale per Around the Game, è stato pubblicato in data 25 agosto 2019.