Un’analisi di come il basket sia diventato lo sport più popolare nella Terra del Dragone grazie a un accurato lavoro di diplomazia, rapporti strettissimi con la NBA e all’esplosione di alcuni improbabili eroi del Gioco.

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Nel 2019, l’asse cestistico-terrestre ha subito forti smottamenti – meglio, un terremoto devastante – a causa di poche semplici parole lanciate nell’etere da un profilo Twitter. Daryl Morey, GM degli Houston Rockets, si lascia andare a un commento spontaneo, del tutto personale, in sostegno ai protestanti di Hong Kong contro la stretta del governo madre di Pechino sulle libertà degli abitanti dell’ex colonia britannica.

FIGHT FOR FREEDOM. STAND WITH HONG KONG.

Come già la vicenda di Dolce & Gabbana avrebbe dovuto insegnare, per la Cina questi non sono piccoli incidenti diplomatici, bensì onte insopportabili alle quali rispondere con la massima intransigenza, avendo sempre il coltello dalla parte del manico.

E per coltello s’intenda una potenza economica fuori scala.

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Risultato: la CBA sospende qualsiasi tipo di rapporto con la franchigia di Houston, che nell’era pre-tweet di Morey era la più amata dal pubblico cinese. Seguono sponsor e soprattutto Tencent, il colosso delle comunicazioni che attraverso la sua piattaforma streaming trasmette le gare della NBA, che ha bloccato la messa in onda delle partite dei Rockets.

Grazie alla pioggia di scuse e mea culpa in tutte le lingue del mondo, l’allarme sembra rientrato e onestamente c’è sempre stata la sensazione che al di là di certi dichiarazioni pubbliche di facciata, la soluzione si sarebbe trovata, affinché il Dio denaro non venisse sacrificato sull’altare della Patria.

Perché qui si parla di molto, moltissimo denaro.

Snoccioliamo un po’ di numeri:

  • circa 300 milioni di persone giocano a basket in Cina – un numero vicino all’intera popolazione degli Stati Uniti;
  • l’anno scorso circa 800 milioni di cinesi hanno assistito almeno a una partita della NBA, tra TV e piattaforme digitali;
  • sono più di 150 milioni i follower della Lega sui social media, quasi 20 milioni i profili registratisi al videogioco ufficiale NBA 2K, di gran lunga il gioco sportivo online più diffuso nel paese;
  • Tencent, di cui sopra, ha firmato l’anno scorso un accordo quinquennale per la messa in onda delle partite che porterà nelle casse americane oltre un miliardo e mezzo di dollari;
  • Nike, nell’anno fiscale 2019, ha venduto in Cina merce per il valore di oltre 6 miliardi di dollari ed è da almeno 5 anni vede aumentare i propri ricavi del 10% ogni trimestre, soprattutto grazie al brand Jordan e a Nike Basketball.

Una vera miniera d’oro anche per i singoli giocatori, sia per le star che firmano contratti con marchi cinesi – Klay Thompson con Anta, Dwyane Wade con Li-Ning solo per citarne un paio – sia per i tanti expat che si recano nel campionato cinese per incassare assegni ben più gonfi dei campionati europei.

Tutti questi soldi e questi movimenti sono finalizzati a una cosa sola: continuare a spingere e a far crescere il movimento cestistico del Dragone Rosso. Ma come ha fatto il basket a diventare così popolare in Cina?

È un processo lunghissimo, iniziato addirittura alla fine del XIX° secolo: solo quattro anni dopo l’invenzione del gioco in quel di Springfield nel 1891, vi sono testimonianze di una prima diffusione della pallacanestro oltre il Pacifico, per mano di alcuni missionari americani in quel di Tianjin.

Il gioco prende rapidamente piede soprattutto grazie alle istituzioni scolastiche: è nei licei e nelle università che si formano i giocatori che nei primi decenni del ‘900 saranno i membri della squadra nazionale, che diventa la seconda forza del mondo asiatico dopo le Filippine, territorio occupato dagli Stati Uniti.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il governo comunista certifica il basket come passatempo nazionale, e lo sport comincia ad essere praticato anche da moltissimi membri dell’Esercito Popolare di Liberazione, le forze armate nazionali. Legato al basket è anche il primo film a tema sportivo del paese, una pellicola a colori del 1957, con protagonista Yang Jie, l’allora capitana della Nazionale femminile.

Verso la fine degli anni ’70, Deng Xiaoping inizia i processi di apertura verso l’occidente, e nel 1979 invita a Pechino Abe Pollin, proprietario dei Washington Bullets campioni NBA l’anno precedente: è la prima volta che una squadra professionistica nord americana si reca in visita nel paese.

Si può parlare di una vera e propria diplomazia della pallacanestro, decisamente più sexy della diplomazia del ping pong di nixoniana memoria – non ce ne vogliano i praticanti del tennis tavolo…

Negli anni ’80, i tempi sono maturi per fare business nella Terra del Dragone, e c’è chi ha una progettualità ben precisa su come fare: un ambizioso avvocato di New York, entrato nella azienda NBA dapprima come responsabile dell’ufficio legale, quindi diventato vice presidente esecutivo, infine, il 1º febbraio 1984, quarto Commissioner nella storia della Lega, succedendo al decano Larry O’Brien.

David Stern nei suoi 30 anni di regno ha trasformato la NBA in una potentissima e ricchissima Lega globale, con una profonda attenzione all’espansione verso l’estero, al fine di allargare il pubblico e costruire un modello di business perfetto, negli anni diventato un esempio per tante altre leghe professionistiche nel mondo.

E lo ha fatto anche grazie a decisioni rischiose come quella del 1987.

Stern chiude un accordo con CCTV per il quale la NBA invierà alla televisione di stato cinese, ogni settimana, highlights e spezzoni di partite a costo zero, se non per la divisione degli introiti pubblicitari, a quel tempo davvero risibili.

Sono gli anni delle grandi sfide tra Celtics e Lakers, Bird contro Magic, nonché il periodo di ascesa di Jordan e i suoi Chicago Bulls: nemmeno il diffidente popolo cinese può rimanere indifferente di fronte a cotanta bellezza.

L’operazione ha un tale successo di pubblico che dopo nemmeno due anni l’accordo si trasforma in una vera e propria partnership per trasmettere in Cina partite in diretta, un unicum nel mercato americano per l’epoca.

Su questa onda lunga di entusiasmo, la federazione cinese di pallacanestro decide di rinnovarsi e di fondare una propria lega professionistica nel 1995, la Chinese Basketball Association (CBA), che nel giro di pochissimo diventerà addirittura terra di scouting per gli addetti ai lavori americani.

I primi due giocatori a sbarcare negli USA come professionisti sono Zheng Haixia, centrone della nazionale femminile scelta dalle Los Angeles Sharks al Draft del 1997 della WNBA, e Wang Zhizhi, dominatore del campionato cinese con i suoi Bayi Rockets, chiamato due anni dopo dai Dallas Mavericks. Sono loro che spianano la strada a colui che cambierà definitivamente la storia del rapporto tra basket e Cina.

Yao Ming era già piuttosto popolare nel suo paese prima dell’approdo nella NBA, ed era francamente difficile non notarlo. Figlio di due giocatori di basket professionisti, al suo decimo compleanno è già oltre il metro e 85 – dopo l’età della crescita si fermerà a 2.29… – e diventa il volto della CBA tra la fine degli anni ’90 e i primi 2000, grazie sì alla sua stazza ma anche alla clamorosa velocità di piedi e una mano destra di una delicatezza che fa gridare al miracolo.

Il potenziale cestistico è lì da vedere, ma il vero obiettivo, che stuzzica particolarmente gli Houston Rockets nell’estate del 2002, è allargare il proprio mercato oltre il Pacifico: da qui nasce la chiamata alla prima assoluta del Draft dell’idolo incontrastato del popolo cinese.

E infatti i numeri esplodono.Una partita dei Rockets, che negli Stati Uniti poteva attirare una media di 1 milione di spettatori, in Cina ne attraeva 30 milioni di media. Nella prima stagione di Yao da professionista, la NBA firmò contratti con 12 televisioni locali duplicando il numero di partite trasmesse.

A gennaio va in scena il primo attesissimo scontro tra Yao e Shaquille O’Neal: oltre 200 milioni di cinesi guardano la partita in diretta dal loro paese. Moltissime società cominciano a credere, quindi a investire, nel successo della NBA in Cina.

I primi China Games, nell’ottobre del 2004, vedono la sponsorizzazione, tra gli altri, di Coca-Cola, Nike, Disney e McDonald’s, brand americani talmente iconici da rimandare agli USA ancor prima della bandiera a stelle e strisce.

Il meccanismo naturalmente funziona anche al contrario: le cinesi Lenovo, Peak, Dongfeng e Haier, attraverso la NBA, sono sbarcate più facilmente sul mercato americano: addirittura la birra Yanjing ha acquistato per anni spazi pubblicitari a bordo campo durante le partite casalinghe dei Rockets, pur non vendendo i propri prodotti sul suolo americano…La definitiva consacrazione del basket e della figura di Yao Ming in Cina, sono le Olimpiadi di Pechino del 2008, che vedono il centro di Houston portabandiera per la nazione, e la squadra riuscire a qualificarsi ai quarti di finale dopo alcune prestazioni fantastiche come il primo tempo contro Team USA, la partita persa ai supplementari contro la Spagna e la vittoria decisiva contro la Germania di Nowitzki.

In quella squadra ci sono altri due giocatori cinesi sbarcati in NBA, Sun Yue e Yi Jianlian, rispettivamente scelti da Lakers e Bucks, sintomo che il movimento è cresciuto sempre di più e che un bacino d’utenza come quello che gli Houston Rockets si sono aperti nell’ex Celeste Impero non fa schifo a nessuno.

Un altro momento di fondamentale importanza è stata la Linsanity. Quando il figlio di due emigrati taiwanesi esplode nel febbraio del 2012, la Cina lo eleva a uno status di nuovo Yao, costretto a lasciare il gioco per gli estenuanti problemi fisici nel luglio del 2011.

La cavalcata fino ai Playoffs dei Knicks in quella seconda metà di stagione nasce tutta dall’entusiasmo e le prestazioni di Lin, che riesce a scardinare lo stereotipo dell’asiatico-americano bravo solo negli studi, e la sua figura diventa una sorta di simbolo, tanto da essere inserito nella lista delle 100 persone più influenti da Time Magazine quell’anno.

Lin è ancora oggi di gran lunga il giocatore più amato in Cina, stando ai follower sui social media e le ricerche su Baidu, una popolarità recentemente rafforzata dalla partecipazione al reality cinese sul basket Dunk Of China e la firma con i Beijing Ducks per la stagione 2019/2020.

“Qui mi sento davvero a casa davvero, dentro di me ero sicuro che il mio viaggio sarebbe finito in Cina, voglio portare la mia esperienza e il mio vissuto qui, aiutare giovani cinesi a formarsi come atleti e come studenti, proprio come ho fatto io negli Stati Uniti”.

Tutti questi interscambi tra Cina e Stati Uniti hanno alimentato anche il mercato domestico cinese legato alla pallacanestro. Grazie soprattutto al crescente potere d’acquisto dei magnati d’oriente, moltissimi giocatori “espulsi” dalla NBA sono sbarcati nella CBA.

Da Steve Francis a Tracy McGrady, da Gilbert Arenas a Michael Beasley e poi ancora Aaron Brooks, Jimmer Fredette, Kenyon Martin, J.R. Smith: la lista di chi ha provato il grande salto oltre il Pacifico è lunghissima.

L’esempio più iconico è la meravigliosa parabola di Stephon Marbury, che in Cina ha ricostruito da capo la sua vita, che nel periodo post NBA stava prendendo una brutta piega (ne abbiamo parlato QUI).

Starbury va ben oltre il ruolo di ex-star dal passato travagliato, arrivata in Cina per svernare e guadagnare gli ultimi dollari possibili, arrivando ad assumere contorni di semi-divinità in quel di Pechino, dapprima come giocatore, vincendo tutto con i suoi Ducks, poi come uomo d’affari, costruendo un piccolo impero e ultimamente in una nuova veste come allenatore dei Beijing Royal Fighters.

L’attrattività della CBA, grazie anche alle esperienze di giocatori come Marbury, è cresciuta esponenzialmente dalla sua nascita a metà degli anni ’90, ed è andata di pari passo con la crescita vertiginosa dell’intera Cina. 

Ci sono stati addirittura casi di giocatori che hanno preferito contratti dalla CBA rispetto a chiamate dalla NBA o dall’Europa: perché se è vero che gli stipendi non sono ancora paragonabili, la stagione è decisamente più corta, anche rispetto al vecchio continente.“Paradossalmente, riuscivo a vedere meno la mia bambina quando giocavo in America che quando sono andato in Cina. La CBA mi ha garantito di poterla vedere più spesso, pur con offerte molto interessanti, che mi garantivano di offrire alla mia famiglia un futuro economico stabile, cosa che per me è la priorità.

Shelden Williams

Più che lo shock culturale, per molti giocatori americani arrivare nella CBA è più uno shock cestistico, tra regole diverse, maggiore fisicità e un attenzione esponenzialmente maggiore verso le proprie prestazioni.

Al momento il livello di gioco della lega cinese è estremamente più basso se paragonato a quello europeo, ed è difficile pensare che le cose possano cambiare in futuro, soprattutto se resteranno attive le regole sul tetto massimo di due stranieri per squadra e sul loro minutaggio contingentato.

Secondo molti analisti, se la Cina non dovesse trovare un nuovo Yao o un nuovo Lin da portare rapidamente nella NBA tutto questo idillio potrebbe svanire a favore di altri sport in ascesa.

In realtà il fenomeno basket in Cina sembra avere radici solidissime che difficilmente lo vedranno scalzato negli anni a venire, grazie indubbiamente al lavoro del compianto David Stern.

L’ex Commissioner è stato in grado di andare oltre a barriere storico-culturali, scommettendo sui legami tra due popoli che fino agli anni ’80 erano nemici giurati, sviluppando delle relazioni basate sullo sport e gli affari, gestite come il migliore dei diplomatici internazionali.

A voler ben vedere, è cambiato praticamente tutto da quell’accordo semi-gratutito del 1987: i media online hanno scalzato la TV di stato che non ha più grande influenza sulle giovani generazioni. I giorni in cui i consumatori cinesi non avevano accesso ai contenuti sono finiti e la sfida maggiore per la NBA sarà quella di rimanere popolare nel settore dei nuovi media.

Ma qualcosa ci suggerisce che questo gigantesco processo non può essere fermato, nemmeno da un maldestro tweet.