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Chimica.

Ci sono diverse coppie, nella storia dello sport, che si formano quasi casualmente, ma che in realtà sembrano destinate fin dal primo momento a condividere un lungo percorso; quella costituita da Stephen Curry e Draymond Green è una di queste.


Due campioni geneticamente predisposti a giocare l’uno per l’altro: uno il miglior tiratore della storia, l’altro uno dei migliori difensori; uno straordinario giocatore dinamico senza palla, l’altro eccellente playmaker statico; uno con protagonismo eccentrico e sregolato pronto a esplodere dietro a una faccia da bambino, l’altro con una freddezza tattica naturale ben nascosta dietro a un carattere incandescente.

Steph & Dray, Dray & Steph. Primi baluardi di una nascente dinastia, ultimi rimasti (con il terzo ai box) a tenere in alto la bandiera in questo 2021, forti di cinque Finali e tre titoli alle spalle.


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È proprio senza Draymond che comincia la stagione del numero 30, e infatti la partenza non è da sogno: due blowout secchi contro Nets e Bucks, due vittorie sofferte più del dovuto contro Bulls e Pistons. Basta però il ritorno di Green per accenderlo, e alla seconda partita con il compagno ritrovato, Curry aggiorna il career high portandolo a 62 punti.

Dopo essere stato inizialmente accusato di non essere il floor raiser adatto a questo roster, attualmente Steph vanta dei numeri da capogiro, quasi paragonabili a quel 2016 da sogno: 30 punti di media con il 65% di true shooting, conditi da 6 assist.

Si sa, Steve Kerr ha costruito un sistema efficiente, e l’ha costruito intorno a Curry. Il sistema è Curry.

Il semplice numero di assist dice molto poco sulla sua capacità di creare per gli altri, sfruttando la sua gravity e le sue letture off ball; è l’unico davvero in grado di creare vantaggi costanti, anche senza toccare il pallone, in un attacco con poco talento: con lui in campo, secondo Cleaning The Glass, i Warriors segnano 17.7 punti in più ogni 100 possessi (secondo della Lega dietro al solo Lillard, a quota 19.2) e vedono salire la loro eFG% del 7,9% (anche in questo caso secondo nella lega, stavolta sotto a Embiid a +10,6%).

La superstar da Davidson College non esita nemmeno a uscire dagli schemi qualche volta, regalando le magie di cui è capace.

Draymond si è aggiunto ai compagni in corsa, solo alla quinta partita stagionale, dopo Covid e problemi al piede, ma Kerr non ha dovuto aspettare molto prima che il numero 2 trasformasse quella che sembrava una non-difesa in una difesa più che accettabile.

Dopo le prime 6 partite, in cui la squadra della Baia ha subito in media 123 punti a partita, la crescita è stata evidente. Oggi i Dubs si piazzano quinti nella classifica delle migliori difese, con un Defensive Rating di 108.9; il Defensive Player of the Year 2017 è ancora nell’élite della Lega per quanto riguarda i realizzatori nell’uno contro uno, e i suoi avversari diretti tirano col 35% dal campo; ma il suo compito più importante è il coordinamento continuo dei compagni, soprattutto nei momenti decisivi.

Ugualmente importante è l’apporto dall’altra parte del campo, dove l’orso ballerino è di fatto il playmaker della squadra. Con lui in campo l’Offensive Rating della squadra cresce di 11.1 punti ogni 100 possessi rispetto a quando è fuori, dato che lo piazza nel 97esimo percentile dell’NBA (Cleaning the Glass).

Gli infortuni di inizio febbraio di Looney e Wiseman hanno rappresentato un’ulteriore svolta. Giocando da centro di una small lineup, in questo mese Green ha una media di 10.5 assist. Il prodotto di Michigan è ancora uno dei pochissimi giocatori nella storia della lega ad essere così decisivo nonostante 5.2 miseri punti per partita, con il 35% dal campo e il 22% dall’arco.

“È Arte per me”. C

osì Juan Toscano-Anderson ha descritto l’intesa tra Curry e Green, dopo la partita contro i Cavs di una settimana fa.

Non so se si possa chiamare “Arte”, ma quello a cui assistiamo è un misto tra complementarità e conoscenza reciproca (alimentata anche dalle sfide a poker in aereo), che dà come risultato una sorta di telepatia quasi istantanea.

Insieme, i due hanno un on/off offensivo di +19,7. Separati, non sono gli stessi.

Curry non è Curry senza Draymond: senza di lui la percentuale dal campo del numero 30 scende del 10%, quella da tre addirittura del 15%.

Green non è, a maggior ragione, Green senza Steph: basta pensare che dei 211 assist serviti in questa stagione dal numero 23, ben 80 sono per Curry, quasi il 40%.

Concludendo, se identifichiamo il sistema “read and react” di coach Kerr in un grande libro, scopriremo che Curry e Green si trovano sempre sulla stessa pagina. E finché al timone ci saranno loro, ci sarà sempre speranza in quel di San Francisco.