La storia di un uomo dal cuore (troppo) grande.

“Ero appena uscito dal college, mi sentivo al meglio, il draft era andato bene, tutto stava andando bene, mi stavo allenando duramente; una piccola vita perfetta, e poi bam… la vita ti colpisce duramente.”

(Ronny Turiaf)

Così inizia il racconto di un uomo, di un atleta, che per amore del basket ha rischiato la vita.

Corre l’anno 2005, il draft, Chicago. Il draft di Bogut, Paul, Ellis e Granger, e anche di una conoscenza italiana come Trevis Diener, giusto per intenderci. Ronny Turiaf, scelta del secondo giro (numero 37) dei Los Angeles Lakers “from Gonzaga University”, il miglior giocatore della costa ovest quell’anno.

Non un momento eccelso per la franchigia californiana, ma sembra essere l’uomo giusto per ridare un po’ di grinta al collettivo. Sì, perché Ronny è un giocatore intenso, fisico, un lungo atipico, con un buon tiro dal mid-range, ma allo stesso tempo ottimi movimenti spalle a canestro, un uomo da spogliatoio; tutto ciò che serviva per appianare gli attriti in casa giallo-viola, già pronti a ricostruire dopo il pesante addio di Shaq l’anno prima e una stagione disastrosa: niente Playoffs e un grave infortunio per Kobe Bryant.

Il più grande sogno di ogni giocatore per Ronny si avvera: è un giocatore NBA, in una nobile franchigia, il massimo. Me ecco che… “the life hits you”. La vita si dimostra sempre imprevedibile e quando colpisce, colpisce duramente e senza porsi tanti problemi.

Quando si dice che una persona ha il cuore grande è un complimento, ma quando l’espressione la si intende letteralmente non è poi tanto positivo; e Ronny ha letteralmente il cuore troppo grande. La sua aorta è cresciuta troppo. Il suo cuore non può sostenere tutto questo.

“Sai, quando a tredici anni sei un metro e novantotto tutto ti sembra grande e normale: piedi, braccia, mani. Ma anche la mia aorta lo era. Il mio cuore era grande tre volte il normale.”

A dargli la notizia è il medico dei Lakers, John Moe. Lui e il medico in una stanza. Solo loro due. L’aria è pesante, la notizia non è di quelle belle, di quelle per cui gioire. Una notizia che arriva come un fulmine a ciel sereno prima che la stagione inizi; quasi nemmeno il tempo di allacciarsi le scarpe ed entrare in campo. Gli viene detto chiaramente. Ha due possibilità: o smettere di giocare a basket, prendere per il resto della vita anti-coagulanti e non poter mai fare sforzi, oppure operarsi, l’unica possibilità di tornare sul campo.

“Perfetto, quanto presto potrò operarmi?”

Non un solo momento di esitazione. Un giocatore, un ragazzo, un piccolo uomo che ha sempre agognato l’NBA, ha sempre desiderato di entrare nella massima lega cestistica al mondo, che ha sacrificato la sua adolescenza per inseguire un obiettivo, non può rinunciare di punto in bianco al suo sogno, anche se di mezzo c’è una delle operazioni più rischiose: a cuore aperto.

La reazione è comprensibile, ma pone davanti a sé delle responsabilità difficili da gestire, anche solo da comprendere.

“I don’t give a damn what I have to do. I will be back on the court.”

FOTO: NBA.com

Il viaggio è molto più grande dell’uomo Turiaf. Lo capisce perfettamente.

Non può lasciare all’oscuro la sua famiglia. Troppo delicata la situazione per far finta di nulla, anche se avrebbe voluto. Chiama sua madre. Le dice tutto in una singola frase… di getto, come se stesse andando al mare con gli amici.

“Devo operarmi al cuore, mamma.”

Ronny, sin da piccolo, non è mai stato capace di esternare i propri sentimenti, per quello dice tutto di fila, senza pause, senza quasi riflettere. Si costruisce una barriera tutt’attorno. La madre, per quanto preoccupata, lo sa e lo capisce. Non dice nulla al figlio, non gli chiede nulla; accetta tutto.

Deve essere forte per sé e per la famiglia. Ma da solo non può affrontare tutto. Gli serve un consiglio, e chiama il padre. Che non accetta la scelta del figlio. “Meglio un figlio vivo che un campione morto”, dice.

È comprensibile la sua reazione. In fondo, la vita è più importante della carriera. Ma non si può chiedere ad un ragazzo di appena 22 anni di pesare la vita, di pesare la morte, di pesare una scelta dal peso specifico spropositato. Troppo complicato. Troppo complicato rinunciare alla pallacanestro.

C’è un dato che mette la scelta di operarsi seriamente in discussione: al tempo non si conosce alcun giocatore in grado di tornare a giocare dopo un intervento a cuore aperto, nessuno. Il chirurgo Craig Miller però è fiducioso e Ronny continua sulla sua strada.

La prima impressione è quella che conta; la prima scelta è quella da perseguire.

È tempo di raccontare tutto al mondo NBA. È ora che Ronny affronti le proprie responsabilità. Viene convocata una conferenza stampa.

Quando entra nella stanza si rende finalmente conto di avere paura. O meglio, capisce di averla sempre avuta. Non riesce a trattenere le lacrime, piange davanti a tutti. È difficile tutto questo. Ma decide di farsi coraggio, non può mollare.

“I have something that is in my heart but i’m gonna be back…”

FOTO: The Players’ Tribune

Asciuga il pianto con una felpa Lakers. Pensare che sia bagnata di lacrime prima che di sudore è davvero drammatico.

È normale aver paura della morte.

La franchigia sceglie di annullare il contratto – non può usare spazio salariale per un ragazzo che potrebbe non farcela. Non vogliono, però, abbandonarlo al suo destino. Non erano obbligati a fare nulla, ma spesso gli uomini ci sorprendono. E così, nessuna spesa medica a carico di Ronny: deve pensare solo a recuperare il prima possibile.

Il 26 luglio 2005 si sottopone all’intervento chirurgico presso lo Stanford Medical Center. Tutto pronto per sistemare il suo cuore troppo generoso. Ma qualcosa non va come previsto. Il rischio di morire si alza notevolmente. Il suo cuore non batte più. Un coagulo ha bloccato il battito regolare. È una corsa contro il tempo, non si può sbagliare.

“Non so per quanto tempo il mio cuore si sia fermato. Non l’ho domandato perché non lo volevo sapere. Solo alcuni mesi dopo lo seppi, fui l’ultimo…”

I medici riescono a evitare il peggio, e dopo sei ore di intervento Ronny può uscire dalla sala operatoria. Si tira un profondo sospiro di sollievo.

La prima voce che sente è del suo amico Fred Adjiwanou, suo ex compagno di squadra e suo “older brother”. Non ricorda se gli avesse detto o meno dell’intervento, ma le prime parole che sente sono le sue.

“Bro! How are you doing?” “Who is that… Fred??? Is that you?”

Poi abbraccia la madre. Non può permettersi che soffra.

Tutta la famiglia gli sta vicino, mai come allora. Non lo lasciano solo. Quell’enorme peso che gli schiaccia il cuore non può essere sopportato solo da lui. Quasi sempre le tragedie non portano con sé solamente dolore, ma anche opportunità. I genitori di Ronny sono separati da quando lui ha cinque anni, da ben 17 anni. È la prima volta da allora che riesce a mangiare con sua mamma, suo papà e sua sorella allo stesso tavolo.

Dopo la paura e lo sconforto, può apprezzare un momento di quelli che fanno bene al cuore.

FOTO: NBA.com

È ora di pensare alla pallacanestro. Chiama Mitch Kupchak, controverso General Manager dei Lakers, e lo fa andare in ospedale. Ha qualcosa da dirgli. Gli chiede anche di portare una divisa con sé.

Quello che Kupchak si trova davanti è un ragazzo con tubi nel collo, con tubi ovunque, un morto vivente (letteralmente); un ragazzo che pieno di passione e voglia di riprendersi gli dice:

“I’m gonna rock that No. 21. I guarantee you”

La riabilitazione va bene. I medici gli raccomandano di non fare sforzi, lui non li sta a sentire. Quando gli permettono di camminare la prima cosa che fa è provare a scalare una piccola collinetta. Per i tre giorni successivi non riesce a fare altro che stare a letto. Ma il pensiero è uno solo: “posso usare le braccia; beh, posso anche allacciarmi le scarpe”.

Non è tutto all’acqua di rose, no. Ogni giorno è una sfida, ogni piccola azione è fatica, ma anche conquista; la paura che qualcosa vada storto in qualche momento, in qualsiasi momento, è sempre presente.

Un tatuaggio che ha sulla schiena dice “mai perdere la fede”, e lui non la perde affatto. Lotta come ha sempre fatto nella vita e sul campo.

Tre mesi dopo l’intervento solleva pesi, quattro mesi dopo si allena, per poco, ma si allena. Un recupero che ha dell’incredibile. Torna ad allenarsi col contatto; torna ai Lakers, il contratto c’è. Deve vestire una protezione di plastica sul petto. Kwame Brown la rompe in un contatto durante un allenamento, sta bene.

L’unica cosa che gli manca da realizzare è entrare finalmente in campo in una partita ufficiale, solo quello. Il più grande ostacolo è Phil Jackson. L’episodio con Brown lo preoccupa e non poco. Non vuole che Ronny si senta male in campo. Anche quando si allena lo invita sempre ad andarsene dal campo. Non per dispetto ad un rookie, ma per paura che accada qualcosa. Probabilmente ha più terrore lui che lo stesso Turiaf. In fondo, i giocatori per gli allenatori sono come figli; non li si può perdere per una disattenzione, per una leggerezza.

L’occasione arriva. È l’8 Febbraio 2006. Houston, Lakers contro Rockets. Manca un minuto o poco più alla fine. Ormai la partita ha detto tutto. Phil Jackson si gira vero la panchina.

“Hey, Ronny, vuoi giocare”“Certo che sì!”

Tutto era più veloce e intenso, nulla a che vedere con gli allenamenti – ma era in campo! Tutta la squadra lo supporta. Lamar Odom è il primo ad incitarlo. Non si dimenticherà mai quel giorno; il giorno della sua rinascita.

Da allora la sua carriera NBA continua. Non diventa di certo un All-Star, ma un ottimo giocatore di sistema. È l’uomo-panchina, pronto a dare una scossa con la sua energia sotto i tabelloni. Carica i compagni, li incita, c’è sempre sia nelle vittorie sia nelle sconfitte. È il primo ad alzarsi quando i suoi compagni segnano, è il primo a festeggiare, è il primo a dare il 100% in tutto quello che fa, è il primo a sostenerli nello sconforto. Di certo non può demoralizzarsi, ha subito un intervento a cuore aperto!

Warriors, Knicks, ASVEL (Francia), Wizards, Heat, Clippers e T-Wolves.

Kobe, LeBron, Bosh, Wade.

Phil Jackson, Don Nelson, Mike D’Antoni.

Volto della Nazionale francese assieme a Boris Diaw e Tony Parker.

Un anello con gli Heat nel 2012.

Una signora carriera. Cosa può volere di più?

Beh, lui vuole di più. Non nel basket, sia chiaro, ma nella vita. Lui vuole aiutare gli altri, è fatto così.

Parte con altri giocatori che hanno problemi al cuore: Channing Frye, Chuck Hayes, Jeff Green. Ma non gli basta. Vuole aiutare altre persone.

Ronny Turiaf è il fondatore della “The Ronny Turiaf Heart to Heart Foundation”, che ha la missione di aiutare tutti quei bambini e tutte quelle famiglie che non riescono a permettersi le costose cure mediche americane.

Sì, si può dire ora che Ronny Turiaf ha davvero un gran cuore.