Dietro “The Granny Shot”, il tiro libero dal basso verso l’alto, si cela una storia ormai quasi dimenticata: quella di Rick Barry, il giocatore più odiato di sempre.

Nella pallacanestro ci sono tre metodi per segnare un tiro libero: quello giusto, quello sbagliato e quello di Rick Barry.

L’ultimo – il metodo Barry – è a due mani, dal basso verso l’alto, proprio come fanno i bambini la prima volta che vedono un pallone e un canestro. Insomma, è brutto, goffo, ridicolo, eppure anche tremendamente efficace.

Siamo tra gli anni ’60 e ’70: Rick, quasi non sembra vero, con questa meccanica va a segno quasi il 90% delle volte, e non a caso dalla linea della carità è il quarto miglior tiratore NBA di sempre.


Ma dietro questo tiro, ormai quasi dimenticato, si cela una storia altrettanto sottovalutata e incredibile: quella di Richard Francis Dennis Barry III.

Per dare un’idea del personaggio, però, dobbiamo fare un salto di quarant’anni indietro e tornare nel 1980 a Houston, Texas.

Del Harris, allora coach dei Rockets, deve risolvere qualche “normalissimo” litigio tra compagni – Rick Barry incluso – e quindi ricorre a uno psicologo.

«Ora, chiudendo gli occhi, immaginate di prendere tutti i vostri problemi e chiudeteli in uno zaino – parla il professionista nello spogliatoio -. Bene. Adesso buttate giù questo zaino da un ponte. Io conto fino a tre, poi aprite gli occhi e lasciate andare via tutte le vostre preoccupazioni. One. Two. Three».

Billy Paultz, ex centro dei Rockets, apre gli occhi e dice: «Hey Rick, non ha funzionato. Com’è che sei ancora qui?».

In realtà Billy è uno dei pochissimi amici di Richard, quindi scherza, ma con ogni probabilità il pensiero di tutti gli altri giocatori accanto a Barry è proprio quello: il loro più grande problema è ancora lì.

Già, perché Rick Barry è odiatissimo, non solo dalle tifoserie avversarie – come la maggior parte dei campioni – ma anche dai suoi stessi tifosi e soprattutto dai compagni di squadra. Non per niente viene ribattezzato da tutti “the Jerk”, lo Stronzo.

Eppure, quando gioca si dimentica completamente di questo nomignolo. Prende palla, la tiene, forse anche troppo, ma segna, segna e segna ancora.

È una vera e propria macchina da punti già dal liceo, anche quando il suo sogno era diventare un giocatore professionista di baseball, con il mito di Willie Mays, ex giocatore dei San Francisco Giants, per il quale prenderà il numero 24.

Già, perché alla Roselle Park High School, a 6 chilometri da casa sua nella città di Elizabeth New Jersey, Rick giocava soprattutto a baseball.

Era un lanciatore, ma voleva assolutamente essere anche un esterno, tanto da presentarsi dal coach e chiedergli: «Perché non mi fai giocare quando non lancio? Batto almeno col 50% e tu fai giocare gente col 17». Nella partita dopo, il coach lo tiene ugualmente fuori.

«È stupido – dice Rick – sprecare il mio tempo seduto in panchina».

Lo stesso pomeriggio abbandona la squadra. Da lì in poi si concentrerà solo ed esclusivamente sul basket, che lo porterà dopo pochi anni, precisamente nel 1962, alla University of Miami.

In Florida lo spilungone di 2 metri, magrolino, biondo e sempre pettinato alla perfezione esplode: dopo un inizio sottotono comincia a infilare una striscia d’incredibili partite finendo la prima stagione in NCAA da ala piccola con 23 vittorie, 5 sconfitte e una media di quasi 20 punti e 15 rimbalzi a partita.

La prima annata è piuttosto buona, ma le altre due hanno dello straordinario.

Tra il ‘63 e il ‘64 porta UM a un record di 20-7, segnando 32 punti e catturando quasi 17 rimbalzi di media. Mentre quella successiva, nel suo anno da senior, perde solo 4 partite, con 37.5 punti e 18.3 rimbalzi. Numeri da capogiro, che lo portano, ovviamente, in NBA.

«Vivevamo in 4 tutti insieme nella stessa stanza – racconta Beckner, un suo ex compagno a Miami -. Se suonava il telefono doveva rispondere Rick. Se uscivamo per bere qualcosa, doveva essere il primo a ordinare. Se prendevamo la macchina doveva sedersi per forza davanti. Qualsiasi cosa noi facessimo, doveva essere il primo altrimenti s’arrabbiava».

La sua avventura nella Lega non inizia come vorrebbe: è “solo” la seconda pick al Draft del 1965. Prima di lui viene preso Fred Hetzel, ma entrambi finiscono agli allora San Francisco Warriors, che hanno le prime due scelte.

Non sono i numeri che hanno fatto la differenza, anzi, in quelli è tra i migliori, ma il suo modo di fare arrogante ed egocentrico che lo hanno portato ad essere uno dei giocatori più odiati della storia della pallacanestro e dimenticato quasi da tutti.

Eppure, il Rick Barry della prima stagione è ben lontano da quel soprannome “the Jerk”. I compagni lo chiamavano “the Sunshine” per il suo sorriso smagliante e il coach “a delight”, una meraviglia.

Ma che Barry non sia un ragazzo “normale” si sa, e lo ammette anche lui stesso, nella sua autobiografia “Confessions of a Basketball Gypsy “, quando racconta del giorno in cui arrivò persino a tirare un pugno a una suora.

Insomma, a un uomo così in NBA non può andare tutto bene.

Prima dell’inizio del suo secondo anno, Hannum, il coach della stagione ‘65/’66, viene mandato via: al suo posto arriva Bill Sharman. Ma al giovanissimo Rick Barry non piace: è troppo serio.

«Il gioco non era più divertente. Bill lo rendeva un lavoro».

Barry è un tipo pigro: ama dormire fino a tardi ed è contento del suo corpo smilzo. Ha una filosofia di vita completamente diversa da quella di coach Sharman, che richiede ai suoi atleti allenamenti estremamente duri dal punto di vista fisico.

Così il loro legame arriva alla detonazione quando il numero 24 si vede costretto, afflitto da una caviglia piuttosto infiammata, a dover prendere antidolorifici prima di ogni partita e allenamento. Allenamenti, per altro, già di base lontanissimi dal suo gradimento.

«Già devo stringere i denti durante le partite, ora mi tocca farlo anche durante gli allenamenti. È una follia».

I Playoffs, però, li gioca. E si fa anche piuttosto notare.

Dopo aver letteralmente trascinato i suoi Warriors in Regular Season con 36.5 punti a partita, li porta anche in finale contro i Philadelphia 76ers di Wilt Chamberlein contro cui, pur perdendo, scrive la storia mettendo a segno 40.8 punti di media.

Tutto ciò alla sua seconda stagione NBA.

«Rick non è solo un gran tiratore – parla Sharman, che comunque ha sempre speso buone parole nei suoi confronti -, ma è anche uno dei migliori passatori. Se raddoppiato trova sempre il giocatore libero. È un gran giocatore di pick and roll e soprattutto è uno dei più veloci che ho mai visto: indifendibile. Batte i giocatori più grossi grazie alla sua velocità e salta sopra quelli più piccoli. È inarrestabile quando va a canestro».

Non basta un piccolo litigio con un allenatore per essere etichettato come il più grande stronzo mai visto su un parquet: ci vuole qualcosa di più grande.

La stagione ‘67/’68 Barry non la gioca, obbligato dalla corte federale. Perché?

Rick non è solo una delle migliori ali piccole della storia, ma anche il primo giocatore ad andare dalla NBA alla ABA. Vuole oltrepassare la Baia, dai San Francisco Warriors ai Oakland Oaks.

Per farlo, però, deve superare un grosso ostacolo: la “reserve clause”, una ingiusta clausola allora presente nei contratti che legava i giocatori per un ulteriore anno alla stessa squadra, pur essendo le stesso contratto scaduto.

Quando Rick sfida la clausola per raggiungere la nuova piccola lega di basket si apre un vero e proprio caso: inizia un processo e gli appassionati cominciano a insultarlo, additandolo come un avido.

Non pare proprio aver fatto un atto eroico contro una postilla profondamente ingiusta: per tutti è soltanto un ragazzino viziato che risponde esclusivamente al dio Denaro.

Ma la verità si trova da un’altra parte.

A Barry non importa tanto dei soldi, d’altronde aveva ricevuto da entrambi i lati del Golden Gate offerte da 75 mila dollari.

La sua volontà era una sola: andare a Oakland dal suo ex coach di Miami Bruce Hale, nonché suocero – l’anno prima la giovane Pam Hale era diventata Pam Barry – con cui si era trovato così bene in Florida.

Ma purtroppo non siamo nel 21esimo secolo: se negli anni ’60 vuoi fare un cambiamento così, devi passare attraverso l’odio dei tifosi e andare davanti a una corte giudiziaria. A chiamarla, è Franklin Mieuli, il proprietario di quei Warriors che non vogliono assolutamente lasciar andare via la propria grande star.

Purtroppo per Rick il processo è perso in partenza. La “reserve clause” è inaggirabile. Ha due possibilità: giocare ancora un anno a San Francisco oppure stare fermo per un’intera stagione.

Barry sceglie di star fuori. Sceglie il sacrificio, di lottare contro l’ingiustizia, eppure tutti lo odiano per questo.

Si comporta esattamente come Curt Flood – giocatore di baseball famoso per aver sfidato la “reserve clause” ed aver richiesto la free agency – ma due anni prima rispetto a quest’ultimo. Eppure, uno – Curt – verrà considerato da tutti un autentico mito, simbolo dei lavoratori americani; l’altro – Rick – è divenuto l’avido, lo stronzo.

Quel sorriso impresso sulla sua faccia si ribalta.

Non è più “the Sunshine”, ma Rick “the Jerk” Barry.

Dopo una stagione fermo, passata a lavorare come telecronista per gli Oaks, arriva il suo momento in ABA.

Indovinate? 34 punti di media e Titolo vinto in finale contro gli Indiana Pacers.

È il primo, e unico, giocatore della storia ad aver guidato tutte e tre le leghe più importanti della pallacanestro – ABA, NBA e NCAA – per punti.

Eppure, per motivi finanziari, la franchigia è costretta a trasferirsi a Washington.

Ovviamente Rick era legato alla Baia e non la prende troppo bene:

«Se avessi voluto andare a Washington mi sarei candidato per la presidenza degli Stati Uniti!».

Provoca così la dirigenza, che lo costringe a restare fuori per le prime 32 partite. Ma sanno che non farlo giocare è un grave problema anche per loro. Quindi torna, gioca, porta la sua squadra ai Playoffs, sfida gli allora Denver Rockets in semifinale della Western Conference, e, insultando a più riprese gli avversari nella serie, fa scattare una delle sue tante risse. Perde e finisce così la sua stagione ‘69/’70.

L’anno dopo la storia si ripete: I Washinton Caps, ex Oakland Oaks, diventano i Virginia Squares. Ma stavolta Barry non vuole assolutamente stare alle regole degli altri.

«Mio figlio andrà alla scuola materna quest’anno. Non voglio che impari a parlare con l’accento del Sud. Tornerebbe a casa da scuola dicendo: “Hi y’all, Daad”. E io non lo voglio».

Rick è il miglior giocatore ABA di quel momento, e vuole cambiare squadra; non ha alcuna intenzione di tornare in NBA, ma ha bisogno di una grande piazza.

Si fanno avanti i New York Nets che, dopo essersi messi d’accordo con la neo-franchigia della Virginia, offrono allo spilungone magrolino 165mila dollari, una cifra niente male al tempo.

È la migliore destinazione.

Sembrano esserci tutti i presupposti per ritornare a grandissimi livelli, ma questa volta a fermarlo sono gli infortuni.

«Well, that’s life», eppure Barry odia pensarsi debole, fragile: pretende la perfezione, anche da se stesso.

Nella prima stagione segna quasi 30 punti a partita e fa lo stesso quella dopo. Però, nel 1971, a cavallo tra i due anni in maglia Nets, il proprietario dei Warriors, Mieuli, prova a riportarlo in California.

Come? Appellandosi ancora una volta ad un tribunale: nel 1972 Rick Barry è costretto a tornare a San Francisco.

Quindi, dopo aver segnato la storia dell’ABA in soli 4 anni, il caro vecchio Rick torna ad Ovest. In NBA, dove ha già fatto e continuerà a fare la storia.

Ma, come abbiamo già detto, quando Barry vede una palla e un canestro non gli interessa più nulla. È il l’arrogante di sempre, urla contro i propri compagni, e deteriora ulteriormente il suo rapporto con gli arbitri, ma in campo se ne frega delle voci che lo circondano. Gioca, segna e, spesso, vince.

I primi due anni ai Golden State Warriors – la stagione ‘70-‘71 fu l’ultima col nome della città di San Francisco – passano con un grande dubbio: chi è di diritto il detentore delle chiavi della squadra? Il giovane Cazzie Russell o l’inaffidabile Rick?

Così all’inizio della stagione 1974/1975 Russell in free agency va a Los Angeles e Barry viene nominato da coach Al Attles capitano della squadra.

«Sin dal primo giorno che sono arrivato ho notato che la maggior parte dei ragazzi non parlava con Rick – racconta Clifford Ray, il nuovo lungo della squadra –. Quindi li ho chiamati e ho detto: “Rick è questa squadra. È una superstar. Ok, magari non è quel tipo di persona che dice ‘grazie’ o ‘scusa’, ma è la unica nostra via alla vittoria. Adattatevi a lui».

Barry produce di nuovo 30 punti di media, c’è un’altra atmosfera in campo e i Warriors vincono il loro primo Titolo battendo 4-0 Washington in finale. Lui, ovviamente, viene nominato MVP.

Un giocatore incredibile, o come dice Lou Carnesecca, il suo ex coach ai tempi dei Nets: «È un artista della pallacanestro. Un Mozart. Un Picasso».

L’anno successivo Golden State sembra la favorita: guida la lega con 59 vittorie in Regular Season e dopo aver eliminato in 6 partite i Detroit Pistons deve giocare Gara 7 contro Phoenix per accedere alle Finals NBA.

Nei primi due minuti di gioco Ricky Sober, una guardia piuttosto muscolosa dei Suns, inviperito da più di una parola di troppo subìta durante la serie, non ci vede più dalla rabbia e salta al collo di Rick.

Tutti fermi, quasi immobili. Alcuni si avvicinano all’incontro di boxe, ma nessun Warrior muove un dito per proteggere la propria stella e neppure gli arbitri fermano i ganci di Sober. Anzi, Earl Strom, fischietto di quella partita, ferma il suo collega Joe Gushue, che voleva evitare il peggio, e gli dice sottovoce: «Non ti azzardare a muoverti, aspetto questo momento da anni!».

All’intervallo Rick guarda le registrazioni dell’accaduto, scopre cos’è veramente successo e prende una scelta importante, come al tempo del trasferimento agli Oaks. Nel terzo quarto sciopera, non prende nemmeno un tiro – lui che di solito tirava 20 volte a partita – e i Warriors, così, abbandonano la chance di alzare il secondo trofeo consecutivo.

Come dice Billy Paultz:

«A metà della sua squadra Barry sta molto antipatico, mentre l’altra metà lo odia».

Eppure, Rick va oltre quest’episodio.

Vuole finire la sua carriera alla Baia e nel dicembre del 1977 trova un accordo con Franklin Mieuli per altri due anni, più la possibilità di comprare il 5% della franchigia.

Ma prima di firmare tutto, il proprietario parte per una lunga crociera e quando torna, a febbraio, sembra aver cambiato idea.

«Mi è sembrato ovvio che non mi volessero più. Non era colpa di Mieuli, era coach Attles a non desiderarmi».

Ha un’offerta allettante da Houston, che gli propone 500mila dollari a stagione per due anni. Quindi vola subito in Texas.

«È stata la peggior scelta che potessi prendere» dirà in seguito.

Fa due stagioni di basso livello: passa da 23,1 punti a partita a 13.5.

E quando nel 1980 i “suoi” Rockets perdono al secondo turno dei Playoffs 4-0 contro i Celtics, all’età di 36 anni e dopo 14 stagioni da professionista, Rick Barry dice addio alla pallacanestro giocata.

Lascia il basket. In silenzio, senza una degna cerimonia d’addio e nessuna maglia ritirata.

«Non mi aspettavo nulla. Veramente, se la gente avesse avuta la possibilità di celebrarmi, cosa ci avrei guadagnato? L’ultima chance di essere fischiato e insultato?».

Eppure un saluto se lo sarebbe meritato.

Forse sì, non è stato uno dei giocatori più simpatici di sempre, ma d’altronde gli artisti sono così. Teste balzane ma ricche di estro. Come il suo tiro libero: semplicemente folle, ma geniale.

Paradossalmente oggi sostiene che qualche rimpianto ce l’ha.

Ironia della sorte, ha raccontato di aver sognato di essere in campo; mancavano pochi secondi e la sua squadra era sotto di uno, dopo aver rimontato letteralmente da solo 12 punti.

La palla, sul lato destro del campo: può sentire le urla del pubblico. Tutte per lui, a incoraggiarlo.

Corre. Il tempo sta finendo. Spicca in volo e lascia partire la palla. Ovviamente canestro. Ovviamente vittoria.

«Mi sentivo benissimo. Ma in quel sogno la differenza dalla realtà era solo una: piacevo davvero ai tifosi».

D’altronde, al di là della retorica, esattamente come per i tiri liberi ci sono tre diversi modi di vivere: quello giusto, quello sbagliato… e quello di Rick Barry.