Il coach di Washington ha raccontato il suo lungo e tortuoso percorso per diventare capo allentore, anche grazie ai consigli di una leggenda NBA come il padre.

Wes Unseld Washington Wizards nba around the game
FOTO: NBA.com

Questo contenuto è tratto da un articolo di Marc J. Spears per Andscape, tradotto in italiano da Alessandro Di Marzo per Around the Game.


Wes Unseld Sr. è considerato da molti il più grande giocatore ad aver mai indossato una divisa dei Washington Wizards (al tempo Bullets): è parte della Top-75 all-time, è stato uno dei migliori rimbalzasti nella storia della Lega e anche vicepresidente, allenatore e general manager di Washington.

Oggi la sua legacy, oltre che da questo, viene portata avanti dal figlio Wes Unseld Jr., capo allenatore nella capitale.

Il percorso per arrivarci non è stato rapido, anzi. Wes ha infatti dovuto aspettare ben 15 anni da assistant coach – e 6 colloqui –  prima di essere assunto da Washington nel luglio del 2021.

“A volte ti vengono dubbi. Sei pronto? Sei in grado? Quale sarà il prossimo passo? Ma ho smesso di preoccuparmi in questo modo cinque o sei anni fa”, ha raccontato Unseld Jr. a Andscape. “Ho smesso di dare troppo peso alle incertezze, concentrandomi solo sull’essere la migliore versione di me stesso. Dopo aver centrato questo punto, le cose hanno iniziato a girare al meglio.”

Suo padre Wes gli aveva spiegato tante volte quanto fosse importante comprendere e vivere all’interno di ogni ramo dell’organizzazione in una franchigia NBA, dai media al marketing, fino allo scouting. Il figlio con il suo percorso, ha seguito il consiglio; e oltre a questo, ha anche lavorato per 8 anni da assistente per le Washington Mystics in WNBA.

Oggi, spente 46 candeline, Unseld Jr. ha vissuto 15 stagioni da assistant coach tra Wizards, Warriors, Magic e Nuggets. E la sua prima da head coach si è conclusa il mese scorso. Ecco le sue parole.

Cosa significa il cognome “Unseld” a Washington?

È un cognome pesante, forse più che da altre parti. Ogni giorno imparo qualcosa riguardo a ciò che mio padre ha fatto qui, per l’organizzazione ma soprattutto per le persone. Anche prima che morisse, tutti hanno dimostrato rispetto verso di lui, ho sentito moltissime cose positive sulla sua persona.

Cosa ti ricordi di quando allenava?

Avevamo una sorta di film room in casa. Si sedeva, guardava le azioni e si preparava per le partite, mentre io cercavo di stare con lui senza però infastidirlo. Provavo a seguire tutto, ma andava troppo veloce. Al liceo, poi, ho iniziato a capire come le vittorie e le sconfitte condizionassero il suo stato d’animo, e inizialmente ho pensato che questo non sarebbe stato affatto il lavoro adatto a me.

Quali sono stati i suoi momenti migliori e peggiori come allenatore?

I rapporti che ha costruito coi suoi giocatori ed ex giocatori, l’impatto che ha avuto sulle loro vite, anche oltre al basket… è stato questo il suo grande trionfo. Se giocavi per lui, eri parte della sua famiglia, perché faceva davvero di tutto per assicurarsi del benessere dei suoi giocatori.

Nei momenti peggiori, purtroppo, lo vedevo nervoso, non dormiva la notte e questo lo deteriorava. Avendo giocato ad alti livelli, le aspettative da allenatore erano le stesse di quando era sul parquet; e quando i giocatori non eseguivano quello che chiedeva, per lui era difficile accettarlo.

Questo non ti ha mai scoraggiato nel tuo percorso da allenatore?

Inizialmente non sembrava fare per me, non ci pensavo molto. A un certo punto ho iniziato, mi è piaciuto, ma il piano non era quello di fare del coaching il mio lavoro, nemmeno lontanamente. Volevo lavorare nel mondo della finanza e creare un hedge fund, ma col tempo non sono più riuscito a staccarmi da ciò che facevo.

Come è iniziato tutto?

Dopo la laurea iniziai per Washington, il piano era quello di prendermi un anno sabbatico. Quando mi hanno assunto, mi hanno spiegato che prima avrei dovuto conoscere da vicino tutte le singole funzioni aziendali, dunque lavorai nel riparto vendite, marketing, PR…

Al tempo non capivo il significato di tutto ciò. Poi ho compreso quante persone ci fossero dietro l’organizzazione per farla funzionare, quanti ingranaggi servissero. 

Qual è stato il compito più divertente che hai svolto?

Ho fatto davvero di tutto: la mascotte, ho servito il cibo in sala stampa, lavato le macchine degli executive… ho anche fornito copie delle sezioni sportive dei giornali allo staff il pomeriggio delle partite – compito che impiegava dalle 3 alle 4 ore, mentre oggi puoi aprire un qualunque sito di notizie NBA e hai tutto raidamente a portata di mana.

Cosa ti ha detto tuo padre quando gli hai comunicato la tua decisione di voler provare ad allenare in NBA?

Mi ha dato del pazzo. Si era già ritirato e mi diceva, scherzando, che ero un idiota. Ma mi ha anche incoraggiato, guardava le partite e mi dava consigli di cui poi discutevamo. Avendo lavorato molto in quel mondo, le sue opinioni sono state preziose. 

Raccontaci della tua prima esperienza da assistente allenatore.

Al tempo ero ancora uno scout, ma partecipavo agli incontri con gli allenatori e dicevo loro la mia. Un giorno, durante un allenamento, Eddie Jordan, al tempo head coach, si è girato verso di me e mi ha detto “ok, prendi il mio posto”. Ero disorientato, non sapevo bene cosa stava facendo e non ero preparato in quel momento. Mi hanno sempre dato le giuste opportunità per fare bene, e io dovevo sempre farmi trovare preparato. Da quel momento ho iniziato a prendere le cose molto seriamente.

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FOTO: NBA.com

E quando hai capito di essere davvero pronto?

Probabilmente 3 o 4 anni fa, quando i colloqui hanno iniziato a diventare più frequenti. Mike Malone, ai Nuggets, è stato importante per me, a Denver mi ha aiutato. Ogni volta in cui veniva espulso o era assente, dovevo essere io a mettermi nei suoi panni.

Prima di Washington, altre cinque squadre ti hanno cercato, senza successo. Ti ha demoralizzato?

Per niente, perché sapevo di essere vicino all’obiettivo ed ero in una buona posizione. In ogni caso, mi sarei sempre trovato in una buona posizione, con molte opportunità e una buona situazione dal punto di vista economico. Mi sentivo bene, perché ero comunque nel posto che amavo, attorno a grandi persone. 

Prima dell’offseason 2021, il numero di coach afroamericani in NBA era piuttosto basso; poi, con l’assunzione di 7 afroamericani su 8 nuovi head coach, qualcosa è cambiato.

L’intenzione della Lega era quella di poter rappresentare maggiormente le minoranze. Parte del problema risiedeva nel fatto che l’NBA, come ogni altra lega, è un mero business, a prescindere dalla questione delle minoranze. Semplicemente, alcune porte non sono ancora state aperte del tutto.

Wes Unseld Sr. è stato Hall of Famer, bandiera di Washington, head coach, vicepresidente e GM dei Bullets/Wizards, campione NBA nel 1978, MVP del 1969, 5 volte All-Star, Rookie of the Year e uno dei migliori rimbalzasti di sempre. Ma, soprattutto, è stato tuo padre.

Cosa ti viene in mente pensando alla sua morte, nel 2020, a 74 anni?

Era malato da un po’, ed essendo a Denver, con il Covid, non ero sicuro di quando potessi vederlo. Ogni chiamata ricevuta di notte mi faceva pensare al peggio. Fortunatamente, quando è peggiorato era quasi estate e sono riuscito a tornare a casa per passare un po’ di tempo con lui.

Quando è mancato, ero in ospedale. Esserci potuti godere gli ultimi momenti è stato davvero bello. Credo che mio padre fosse consapevole di ciò a cui andava incontro. Anche per lui è stato un sollievo.

Ti manca?

Sì, molto. Sento un grande vuoto dentro. A causa della distanza, non riuscivamo a vederci molto di persona, ma rimediavamo con FaceTime. Lo sentivo due volte a settimana, anche se era comunque diverso. A volte, pur sapendo che non c’è più, mi viene da prendere il telefono e digitare il suo numero.

Parlami della chiamata del GM Tommy Sheppard, in cui ti ha detto che saresti diventato il prossimo allenatore di Washington. 

Stavo per portare i miei figli a prendere un gelato, era un periodo in cui ero costantemente al telefono. Dopo la promessa dell’ultima chiamata ai bambini, ne è arrivata un’altra, ed era Tommy. Abbiamo iniziato a parlare a lungo di varie cose, come spesso accadeva; poi, mi ha fatto la proposta. Non me l’aspettavo, e soprattutto non pensavo che il momento solenne avrebbe avuto come sfondo il seminterrato di mia madre.

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FOTO: NBA.com

Immagino che il tuo desiderio, oggi, sarebbe avere tuo padre a guardarti.

Certamente, sarebbe stato entusiasta, anche di avermi vicino a casa. Ecco, il fatto che io possa essere tanto a contatto con mia madre e passare tanto tempo con lei è davvero importante.

Cosa hai imparato in questa stagione?

Ho capito quanto sia importante comunicare in gruppo. Non solo con i giocatori, ma anche con tutto lo staff. Parlarsi è un dovere, c’è bisogno di stare a contatto ogni giorno, anche per fattori al di fuori del basket. Serve apertura e onestà reciproca.

Qual è stato il tuo miglior traguardo a Washington?

Non guardate il record per provare ad indovinarlo: la cosa migliore di quest’anno è stata la crescita e la consapevolezza che stiamo andando nella giusta direzione. C’è uno spirito collettivo, una connessione che ci fa capire la nostra posizione e dobbiamo andarne fieri.