Un viaggio nei meandri della storia di uno dei più affascinanti, e vincenti, small market della NBA.

FOTO: NBA.com

Lo skyline del cuore economico della città che si affaccia timidamente sulle vette innevate dei Monti Uinta. Il profondo ovest americano: prepotente, vasto e selvaggio. E poi le vite dei mormoni, fedeli a un’etica a tratti inesplorabile, leggi e regole morali da seguire in ossequiosa riverenza. Può affascinare e al tempo stesso spaventare, una tradizione così ostinatamente inflessibile e resistente al tempo. In mezzo a tutto questo, una franchigia NBA nata dalle ceneri dei locali di musica di New Orleans, portatrice di leggende del gioco e tuttavia, come in tutte le storie più amare e ancorate alla realtà, mai giunta ad assaporare il suo lieto fine. Salt Lake City e gli Utah Jazz.

Le origini. “Pistol” Pete e il trasferimento nello Utah

Gli anni ’70 furono, per la NBA, anni di espansione. Non certo un’era di prosperità, eppure un lento sedimentarsi di operazioni che costituirono il preludio alla grande rivoluzione degli anni ’80. Tra il 1966 e il 1974 il numero di franchigie raddoppiò fino a raggiungere quota 18: la diciottesima squadra ad entrare nel circolo del commisioner Walter Kennedy fu quella dei New Orleans Jazz. Nel tentativo di accendere la passione della Louisiana per la pallacanestro e costruire una squadra sin da subito competitiva, la dirigenza dei Jazz optò per l’acquisto – dagli Atlanta Hawks – dell’idolo di casa Pete Maravich.

Unanimemente riconosciuto come uno tra i giocatori più eccitanti e prolifici ad aver mai calcato un campo di pallacanestro, “Pistol” Pete era divenuto qualche anno prima il miglior marcatore di sempre nella storia della NCAA, mantenendo – nei suoi tre anni a LSU, appena un’ottantina di miglia proprio da New Orleans – un’inconcepibile media di 44.2 punti a partita.

Doti da palleggiatore all’epoca ancora inesplorate e tiratore implacabile, Maravich era circondato da amore incondizionato e da un’aura fiabesca di misticità. Aveva movenze ipnotiche e inaspettate, tecnica esaltante, capelli e stile di un’icona del rock. Era Elvis Presley su un campo da pallacanestro. 

Uno degli storici cronisti della squadra, Rod Hundley, raccontò che a quei tempi, in città, la gente non chiedeva se i Jazz avessero vinto, ma soltanto se Maravich ne avesse segnati 30. “They’d just go to see Pete entertain them“. Ciononostante, per i Jazz di New Orleans non tutto andò come doveva andare.

Ci furono, innanzitutto, i problemi legati all’impianto che ospitava la squadra. “Il campo da gioco del Loyola Field House aveva un pavimento rialzato che rappresentava un enorme pericolo per la sicurezza”, racconta JP Chunga, giornalista dei Jazz. Barry Mendelson, l’allora General Manager della squadra, si decise dunque a “montare una rete da pesca intorno al campo per proteggere i giocatori ed evitare che si infortunassero”. Se l’ingegno della rete da pesca fu in qualche modo funzionale, altrettanto non si poté tuttavia dire della squadra, che non riuscì mai – di fatto – a raccogliere i favori del pubblico, specie quando le ginocchia di Maravich iniziarono a farsi sempre più inesorabilmente fragili.  Le alte tasse della Louisiana e gli ulteriori problemi legati al successivo impianto individuato dalla proprietà (il New Orleans Superdome, invaso dalle richieste di più popolari eventi) fecero il resto. 

Dopo appena 5 anni dalla sua fondazione, la franchigia venne repentinamente trasferita nello Utah, a Salt Lake City. Già all’epoca considerato uno small market, la città era stata la casa – anni prima – degli Utah Stars, franchigia della ABA che aveva riscosso un sorprendente successo tra il pubblico locale.

Sebbene la musica jazz non presentasse il benché minimo legame con la città, i proprietari della franchigia Sam Battistone e Larry Hatfield decisero di mantenere il nome della squadra ereditato da New Orleans. Ci fu soltanto un timido tentativo di chiamare a raccolta nuove proposte, ma nessuna di queste convinse la proprietà: “They held a contest, and nobody won” (Linda Hamilton). Come se non bastasse, l’approvazione per il trasferimento della squadra a Salt Lake City avvenne nel giugno del 1979. Con l’avvio del campionato distante appena un paio di mesi, secondo Battistone semplicemente “non ci fu tempo per cambiare il nome della franchigia prima dell’inizio della nuova stagione”. E così, furono gli Utah Jazz.

I tiepidi anni ’80

Costellato di scelte affrettate e spesso poco fortunate, neppure l’avvio della franchigia a Salt Lake City fu brillante. Durante i primi quattro anni dal trasferimento, i Jazz collezionarono appena 26 vittorie di media a stagione, non riuscendo – anche per questo – a calamitare su di loro le attenzioni del pubblico. Le due potenziali stelle della squadra, Maravich e Bernard King, vennero bloccate rispettivamente dagli infortuni e dalla giustizia, con quest’ultimo a dover fronteggiare sempre più frequenti accuse di violenza sessuale. Lo stesso anno, il terzo miglior marcatore della squadra – Terry Furlow – perse la vita in un tragico incidente stradale. A soli 33 anni, “Pistol” Pete fu costretto al ritiro dopo un fugace (e romantico) passaggio ai Boston Celtics, e così – spinti dalla disperata necessità di ottenere risultati immediati – all’alba del Draft del 1982 i Jazz acquisirono dagli Atlanta Hawks i punti di Freeman Williams e soprattutto di John Drew in cambio della prima scelta assoluta della notte, una potenziale macchina da highlights di nome Dominique Wilkins.

Appena due anni più tardi, quando il General Manager e allenatore dei Jazz Frank Layden selezionò – con la scelta numero 16 – un ossuto playmaker alto appena 1.85 m proveniente dall’università di Gonzaga, molti iniziarono a pensare che il vento del cambiamento non sarebbe mai stato in grado di oltrepassare le montagne dello Utah. Neppure i più ottimisti e sognatori avrebbero potuto predire ciò che sarebbe stato.

Quando Layden annunciò il nome di Stockton di fronte alle 2.000 persone presenti al Salt Palace, vi fu silenzio assoluto. Le preghiere che precedono la cena sono più rumorose. Nessun fischio, nessun applauso. Niente” .

Dave Backwell

La seconda metà degli anni ’80 trascorse così nella crescente attesa di un qualcosa, in bilico tra una pragmatica rassegnazione e tuttavia le prime flebili aspettative attirate da una squadra guidata da Adrian Dantley, miglior marcatore delle stagioni 1980-81 e 1983-83, e da Mark Eaton, difensore dell’anno nel 1985 e 1989.

Imperterrito nella convinzione che Stockton sarebbe stato presto in grado di scaldare il tiepido pubblico di Salt Lake City, Layden individuò allora il tassello mancante della squadra in un prodotto della Louisiana (ancora la Louisiana) soprannominato come un portalettere. Muscoli, centimetri e senso del canestro privi di eguali, Karl Malone era pronto a prendere per mano gli Utah Jazz e consegnarli alla storia del gioco. Indirizzo: i favolosi anni ’90.

Stockton-to-Malone.

Pur accompagnati dalle voci di un possibile trasloco a Miami e dalle carte (secondo alcuni, di fatto già firmate) di un trasferimento a Minneapolis, con l’arrivo di Karl Malone e l’imperturbabile affermazione di John Stockton i Jazz cominciarono a perfezionare il loro processo di crescita. L’addio di Layden alla guida della squadra e la sua sostituzione da parte di Gerald “Jerry” Sloan fu l’inaspettato e successivo gradino che consentì a Utah di assumere improvvisamente le sembianze di una reale contender per il titolo.

Sotto la prima guida di Sloan nella stagione 1988-89, i Jazz conquistarono 51 vittorie in regular season ma vennero eliminati al primo turno – a sorpresa – dai Golden State Warriors di Don Nelson e Chris Mullin. La stagione successiva seguì di fatto lo stesso copione. Questa volta, ad avere la meglio sui Jazz furono i Phoenix Suns.

Nonostante due uscite consecutive al primo turno e macabri presentimenti di un futuro da incompiuta, il gioco di Sloan iniziò definitivamente ad attirare l’interesse e le tasche dei mormoni: nel 1991, i Jazz spostarono la propria casa al Delta Center, costruito a fianco del Great Salt Lake, ed i successivi anni furono teatro di un inesorabile perfezionamento di roster e chimica. 

Nel 1993, Utah scambiò Jeff Malone (all’epoca terza opzione offensiva della squadra) acquisendo Jeff Hornacek da Philadelphia e selezionando Byron Russell dall’Università di Cal State Long Beach. Per aggiungere centimetri e chili, Sloan puntò su Greg Foster e Greg Ostertag. E poi Stockton, e insieme a lui Malone.

FOTO: NBA.com

A formare un binomio difficile da spiegare in termini di comprensione del gioco e visione del mondo, due vite agli antipodi incrociate a forza eppure mischiate alla perfezione al di sopra di un rettangolo da gioco ricoperto in parquet. Semplicemente, il miglior assist-man dell’umanità e uno dei primi tre marcatori della storia della NBA. Insieme, nella stessa squadra, all’apice e per tutta (di fatto) la durata della loro carriera.

Loro due in campo, ineguagliabili. Non credo si siano detti più di 15 parole in 10 anni. L’80% degli assist di Stockton erano per lui e li vedevi che erano semplicemente intuitivi, coltivati a livello di movimenti di coppia. Ma sinceramente, secondo me non erano neanche particolarmente amici, erano veramente due che andavano a lavorare, e lavoravano al miglior livello possibile

Federico Buffa

Nel 1997, Karl Malone venne eletto MVP della Lega, mentre Stockton viaggiava imperterrito sulla linea della doppia cifra di assist a partita. Utah chiuse la stagione con 64 vittorie a fronte di sole 18 sconfitte. Sulla strada che portava al titolo NBA, soltanto i Chicago Bulls di Michael Jordan.

Le ceneri di Gara 6

Parlare delle due finali che videro incrociarsi gli Utah Jazz e i Chicago Bulls sarebbe, con ogni probabilità, superfluo e ridondante. Intrise di leggenda e misticità, le dodici sfide tra le due squadre rappresentano – per certi versi – un apice cestistico di drammaticità e agonismo.

Ci furono innanzitutto le prime due gare a Chicago del 1997, vinte dai Bulls prima soffrendo, tremando, e poi dominando. Quindi la rimonta impavida di Utah, capace di impattare la serie anche grazie all’incredibile calore del pubblico di casa, che costrinse Phil Jackson a indossare tappi per le orecchie per tutta la durata di un’indimenticabile Gara 4. 

Poi la quinta gara: Jordan piegato sulle proprie ginocchia in preda ai sintomi di un’influenza improvvisa e spietata, retto a malapena in piedi dalla forza dell’ostinazione e dalle braccia fraterne di Scottie Pippen. Dopo aver inflitto ai Jazz la prima sconfitta casalinga della post-season, Chicago fece suo il titolo allo United Center in sei gare.

La storia si ripeté poi attraverso le battaglie del 1998, culminate nei 41.8 secondi più iconici nella storia del gioco.

Furono forse proprio le sei dita sollevate al cielo di Michael Jordan a sancire la fine di quegli Utah Jazz. Così tremendamente vicini alla vetta, eppure mai realisticamente in grado – specie agli occhi dei posteri – di porre fine all’egemonia dei Bulls. Stockton e Malone ci riprovarono negli anni a venire, senza però mai trovare la forza di riprendersi da quelle calde estati in cui la gloria non era mai stata così vicina. Al termine della stagione 2002-03, il primo si ritirò e il secondo fece tappa a Los Angeles, alla sfortunata ricerca di un anello che potesse assopirne i desideri e allontanare i demoni. La ricostruzione dei Jazz partì quindi da Jerry Sloan.

La regia della squadra venne affidata al talentuosissimo portoricano Carlos Arroyo, mentre il russo Andrei Kirilenko rappresentava una timida ma consistente promessa di un futuro ancora da vivere. Con un roster per molti destinato al fallimento e le ripetute difficoltà di attirare le attenzioni delle stelle della Lega, i Jazz mancarono i playoff per una sola partita, terminando la stagione con 42 sorprendenti vittorie. Un risultato che valse a Sloan il secondo posto nella classifica di allenatore dell’anno. Convintasi della concreta possibilità di ricostruire un ciclo vincente, in estate la dirigenza di Utah puntò su un altro giocatore internazionale, Mehmet Okur, e su una giovane promessa di nome Carlos Boozer.

Nonostante le premesse, la stagione successiva dei Jazz fu caratterizzata da una serie fatale di infortuni. Utah concluse la stagione con appena 26 vittorie a fronte di 56 sconfitte – il record peggiore dai tempi di Maravich – e si affacciò alla notte del draft con un pacchetto molto consistente di scelte.  A poche ore dall’inizio della serata, i Jazz fecero però di tutto per acquisire i diritti sulla numero tre. Jerry Sloan si era innamorato di un playmaker proveniente da Illinois che sembrava rispondere a tutte le esigenze di Utah: fisico, grande controllo del campo, tiratore affidabile ed eccellente visione di gioco. Deron Williams era pronto a riaccendere i sogni dei mormoni

Williams, Boozer e una lunga serie di storie incompiute.

Insieme al talento di Carlos Boozer e all’ecletticità di Kirilenko, la guida di Williams riportò sin da subito le attenzioni del grande pubblico sui Jazz, che nell’estate successiva aggiunsero al roster il rookie Paul Millsap e il veterano Derek Fisher. Mix perfetto di ambizione e solidità, gli Utah Jazz si presentarono ai playoff del 2007 come una possibile mina vagante: avuto la meglio dei Rockets al primo turno e spazzati via i Golden State Warriors di Baron Davis, Jerry Sloan ritornò all’atto conclusivo della Western Conference con tutte le intenzioni di riscrivere i finali precedenti.

FOTO: Salt Lake Tribune

L’episodio che caratterizzò la cavalcata dei Jazz fu quello avvenuto nella Gara 2 contro gli Warriors. Alla vigilia della serie, una delle figlie di Derek Fisher – la piccola Tatum – fu ricoverata d’urgenza a New York a causa di una rara forma di cancro all’occhio sinistro. Fisher fu costretto a saltare la prima partita contro Golden State e fece ritorno nello Utah soltanto dopo l’operazione chirurgica della figlia: nonostante una generosa corsa contro il tempo, riuscì a cambiarsi e sedersi in panchina soltanto a terzo quarto iniziato, mentre moglie e figlia stavano facendo ritorno a casa. Con Williams gravato di quattro falli e Dee Brown mandato in ospedale da un colpo fortuito del suo compagno di squadra Okur, Fisher fece il primo ingresso in campo nella serie a 3 minuti dalla fine del terzo periodo, abbracciato dal rumore e dall’amore assordante di Salt Lake City. La giocata difensiva con cui il padre di Tatum forzò Baron Davis a perdere il pallone a 27 secondi dallo scadere del tempo fu l’apice della simbiosi tra i Jazz e il proprio pubblico, metafora straordinaria di coraggio e dedizione. Fisher e compagni raggiunsero così le finali dell’Ovest.

Jerry Sloan e i suoi uomini si dimostrarono pronti a tutto, ma i San Antonio Spurs furono la seconda dinastia ad infrangerne i sogni, e in modo simile – l’anno successivo – Utah dovette arrendersi ai Los Angeles Lakers di Kobe Bryant e Pau Gasol, ennesima nemesi di una squadra – i Jazz – che riuscì impavidamente a riscoprirsi ambiziosa, ma solo per un po’. Infortuni, fatalità e il trascorrere del tempo finirono per assopire in breve tempo le aspirazioni dei Jazz, troppo in fretta costretti a reinventarsi dopo le dipartite dei propri talenti (Boozer alla corte dei Bulls, Williams tra i grattacieli di Brooklyn) e dell’uomo simbolo di quella straordinaria epopea, Jerry Sloan.

Quel che fu in seguito degli Utah Jazz è ciò che in fondo caratterizza ogni small market: gli addii dolorosi delle stelle verso cieli più limpidi e pieni di promesse, la costante necessità di cercare fortune al draft, ricostruzioni fantasiose che si susseguono tra di loro come un lento sedimentarsi di fogli, spazzati via dal vento e bagnati dalla pioggia.

L’ostinazione dei forti, il destino dei vinti. Ma è il bello delle storie incompiute: ogni volta che qualcuno le racconta, chi ascolta è sempre legittimato a illudersi che il finale sarà differente.