Questo contenuto è tratto da un articolo di Clark Priday per Double Clutch , tradotto in italiano da Simone Vallabio per Around the Game.


Non in molti vantano il privilegio di aver visto giocare Bill Walton. I più giovani lo ricordano sicuramente come “quel simpatico telecronista con le magliette colorate”, c’è chi giura di averlo visto tra le prime file di un concerto rock e chi più realisticamente si è rifatto gli occhi vedendo qualche video delle sue giocate.


William Theodore “Bill” Walton III, nato il 5 novembre 1952 a La Mesa, contea di San Diego, è tuttora soprannominato dai suoi tifosi “The Grateful Red” per via della sua grande passione musicale per il gruppo rock Grateful Dead. Considerato come una delle più grandi leggende viventi della NBA e della NCAA, introdotto nella Hall of Fame nel 2006 e poi nei 75 più grandi giocatori NBA di tutti i tempi, Bill ha avuto anche una discreta carriera come cronista e opinionista per ESPN.

Qualche anno fa, durante un episodio di Open Court, la sua appartenenza all’élite dei più grandi giocatori della Lega è stata messa in discussione da Shaquille O’Neal, che, in breve, ha detto lo avrebbe rimosso dalla lista delle più grandi leggende della lega per lasciar spazio a “The Human Highlight Reel”, Dominique Wilkins. E’ comprensibile capire perché Shaq abbia scelto proprio il buon vecchio Bill: tra i due non scorre buon sangue e in più di un’occasione hanno avuto modo di discutere pubblicamente – come quella volta in cui Walton disse che “l’arroganza di Shaq è un insulto alle persone che pensano”; o come quando “The Diesel” con il famoso “Big Man Pecking Order Code – Ordinance 2257”, replicò a Walton sostenendo di aver infranto un codice d’onore secondo il quale “se non ti sei guadagnato sufficiente rispetto sul campo, non puoi permetterti di giudicare la carriera di un altro giocatore”. E si potrebbe andare avanti, ma ci fermiamo qui.

La carriera di Bill Walton, comunque, analogamente a quella di molti suoi colleghi, è stata oscurata dalla generazione di giocatori che lo hanno succeduto. La realtà è che questo gigante buono avrebbe potuto passare alla storia come il più grande centro di sempre, o quantomeno entrare sul podio dei big men più dominanti, se solo le sue ossa un giorno non avessero cominciato a dargli problemi, problemi e ancora problemi.

IL COLLEGE E LA STAGIONE DEI RECORD

Il giovane Bill impiegò pochissimo tempo a diventare il giocatore più dominante del campionato collegiale, vincendo in tutte e tre le stagioni a UCLA (1972-74) il premio di miglior giocatore e guadagnandosi le convocazioni per l’All-American e l’All-Conference. Nei primi due anni i Bruins dominarono la stagione NCAA vincendo, in entrambe le stagioni, tutte le 30 partite disputate; e nelle due finali Walton giocò in maniera incredibile: 20 punti e 24 rimbalzi nel 1972, 44 punti (frutto di 21/22 al tiro) nel 1973. Nel 1974, invece, dopo una folle striscia di 88 vittorie consecutive (record assoluto), i Bruins vennero sconfitti dopo due tempi supplementari da North Carolina.

Il modo di giocare di Bill Walton era unico. Quando torreggiava a rimbalzo sopra la testa degli avversari, il contropiede era già partito. Alternava presenza fisica sotto canestro a giocate difensive di alto livello, e offensivamente aveva un’ottima visione di gioco e un senso della posizione che gli consentiva di mandare a canestro con facilità i propri compagni. Per il suo inimitabile impatto su UCLA e su quel triennio di college basketball, è riconosciuto come uno dei migliori giocatori collegiali di tutti i tempi.

UN HIPPIE FUORI E DENTRO AL CAMPO

Walton non era un giocatore moderno solo dentro al campo, dimostrandosi molto attivo politicamente e non “allineato” con il sistema americano dell’epoca. Nel pieno degli anni ’70, doveva adattarsi ad un contesto “à la John Wooden”, in cui erano fondamentali alcuni principi tra cui l’etica, una bella presenza e l’astinenza dall’alcool. Così Bill si consolava punzecchiando coach Wooden con battute e critiche nei confronti del presidente Nixon, atteggiamenti che preoccupavano l’allenatore, oramai costretto a ricredersi sul fatto che “da San Diego non provenga mai un giocatore decente”.

Quando ancora non era di moda, da appassionato carnivoro decise di virare verso una elaboratissima dieta vegetariana. Adorava fare passeggiate in montagna e giri in bicicletta, era un anticonformista convinto, e divenne anche un attivista politico. Insieme ad altri giocatori tra cui Bill Russell, Jim Brown e Kareem Abdul-Jabbar, decise di opporsi alla guerra in Vietnam, al razzismo, alla violenza politica e sociale, per abbracciare una condotta personale orientata alla pace e all’assoluta libertà individuale.

Insomma, se negli ultimi anni tante stelle dell’NBA hanno fatto sentire la propria voce contro le ingiustizie che pervadono la società americana, è perché in passato qualcun altro ha spianato loro la strada. E uno di questi è stato senza dubbio Bill Walton.

GLI INIZI DI UNA CARRIERA SFORTUNATA

Dopo il rifiuto alle lusinghe di diverse franchigie della ABA, consigliato dallo staff di UCLA, Walton finisce ai Portland Trail Blazers come prima scelta assoluta del Draft 1974. Martoriato dagli infortuni a ginocchia – naso, polso e piedi – le sue prime due stagioni le passa però seduto in panchina più che in campo, giocando solamente 86 partite su 164.

Il ragazzo è costantemente sotto la lente di ingrandimento del pubblico e spesso si trova a gestire una stampa aggressiva e avida di sensazionalismo; il suo approccio ad una dieta vegana a base di frutti esotici e patate lesse viene più volte messo in discussione dallo staff dei Blazers, i quali preferirebbero incrementare la sua muscolatura e la sua resistenza con metodi più sicuri e tradizionali.

Dall’istituzione della franchigia nel 1970, Portland non aveva ancora centrato una sola volta l’obiettivo Playoffs. E le aspettative non potevano prescindere da un ragazzo di 22 anni scelto alla numero uno. Meno male che in Oregon sanno bene che “la pazienza è amara, ma il suo frutto è dolce…”

E ancora più dolce sarà il sapore della vittoria in quella che per la franchigia si rivelerà una stagione storica, quella del 1976/77. 

LA “BLAZERMANIA” E L’ANNO DEL TITOLO

Libero dagli infortuni e spalleggiato da un’ala forte come Maurice Lucas, Walton disputò 65 delle 82 gare della Regular Season di quell’anno (delle 17 partite in cui Bill non era in campo, Portland ne vinse solo 5). Vediamo un po’ come andarono le cose.

I Blazers si assicurano, con un record di 49 vittorie e 33 sconfitte, l’accesso ai Playoffs forti del terzo posto nella Western Conference. I Playoffs iniziano con l’eliminazione dei Chicago Bulls (2-1) al primo turno; poi 4-2 in semifinale di Conference contro i Denver Nuggets di David Thompson. Walton fa registrare una tripla doppia storica in Gara 2 contro Denver e si prepara a quello che sarà uno dei “matchup” più belli dai tempi di Bill Russell e Wilt Chamberlain.

In finale di Conference, infatti, si presentano i favoritissimi Los Angeles Lakers, guidati da Kereem Abdul-Jabbar. Statisticamente Portland parte da sfavorita, venendo anche da tre sconfitte e una vittoria contro i Lakers in Regular Season, ma tutto questo conta poco o nulla. Walton e compagni vincono, stravincono, dominano la serie: 4-0, sweep.

Bill è incredibilmente ispirato nella serie con 19.3 punti, 14.8 rimbalzi e 2.3 stoppate; gioca da leader e vince lo scontro diretto tra leggende UCLA, contro il più esperto Jabbar che gira a 30 punti, 16 rimbalzi e 4 stoppate di media, ma senza molto supporto dai compagni.

Nelle NBA Finals, Portland deve vedersela contro i campioni della Eastern Conference, i temibili Philadelphia 76ers guidati dalla loro superstar “Doctor J” Julius Erving. I Blazers partono male e perdono le prime due gare. Walton e compagni, però, replicano subito con due successi sul parquet di casa e con la vittoria in Gara 5 a Phila, che indirizza la serie. Di rientro a Portland, la squadra viene accolta da migliaia di tifosi in visibilio, e a meno di 48 ore di distanza dalla palla a due, la cosiddetta “Blazermania” coinvolge ogni singolo abitante della città. Tutti sanno quanto sia importante Gara 6, si respira l’aria del primo titolo storico della franchigia.

A complicare le cose, però, ci pensa il solito Doctor J, il quale cerca di allungare la serie sino a Gara 7 mettendo a referto 40 punti, con 17/29 al tiro e 6/7 dalla lunetta; ma i consueti 24 rimbalzi di Walton, con l’aggiunta di ben 8 stoppate e 20 punti realizzati, rendono vano tale tentativo. Il 109-107 conclusivo certifica il trionfo di Portland e quello personale di Walton, eletto MVP delle Finals.

La stagione successiva, Bill si infortuna nuovamente alle caviglie ed è subito costretto a operarsi, saltando la prima parte della RS. Nonostante ciò, riesce a portare i suoi Blazers ad un record di 58 vittorie e 24 sconfitte – se consideriamo le partite giocate da Walton, infatti, il record è di 48 vinte e 10 perse – e vince il suo primo ed unico premio di MVP della Regular Season, assicurando alla sua squadra l’accesso ai Playoffs.

A Portland c’è ottimismo e gli addetti ai lavori sono sicuri che la squadra rimarrà una contender per diversi anni, ma questo ottimismo viene subito rimpiazzato dalla delusione, dopo la bruciante sconfitta in semifinale contro i Seattle SuperSonics.

L’UOMO DA UN MILIONE DI DOLLARI

Dopo aver saltato l’intera stagione 1978/79 ancora per problemi fisici, Walton firma un contratto da 7 milioni di dollari per 7 anni con i San Diego Clippers, il primo nella storia della NBA e anche il più oneroso del periodo. Con la maglia dei Clippers giocherà soltanto 14 partite, per poi saltare completamente le due stagioni successive dovendo sottoporsi a un’infinità di interventi chirurgici per ricostruire la struttura ossea del piede.

Dopo quattro anni, la sua triste avventura con i Clippers si conclude. Ormai vicino alla soglia dei 33 anni, sembra impossibile che ci sia ancora qualcuno che voglia puntare su un giocatore che passa più tempo in infermeria che in campo. Invece, arriva la chiamata che nessuno si aspetta: i Boston Celtics vogliono assicurarsi i suoi servigi per le successive due stagioni (‘86 e ‘87) e mirano ad aggiungere la sua esperienza in un nucleo che, con giocatori del calibro di Larry Bird, Robert Parish e Kevin McHale, oggi definiremmo un “superteam”.

I Celtics vincono il titolo nel 1986 e il gioco di Bill torna ad essere, a sprazzi, quello dei tempi migliori. Partendo dalla panchina, riesce a ritagliarsi il suo spazio e a vincere il premio di Sesto Uomo dell’Anno, diventando così l’unico giocatore nella storia ad aver vinto in carriera i premi di di MVP delle Finals, MVP della Regular Season e Sixth Man of the Year.

I Celtics del 1986 sono considerati – al pari dei Chicago Bulls del ’97, dei Lakers del ’87 e dei Warriors degli anni scorsi – come una delle più grandi squadre della storia dell’NBA. E Bill rappresentava un elemento importante di quella leggendaria formazione, anche se non la punta di diamante.

Ma quale sarebbe stato il potenziale di Bill Walton se non si fosse mai infortunato? Quali altri traguardi avrebbe potuto raggiungere in carriera? A questa domanda non troveremo mai risposta, quello che sappiamo con certezza è che con meno di 1000 partite disputate in carriera, la leggenda di “Grateful Red” è diventata una storia per pochi.

“Stronger than death” è l’espressione inglese che più si addice alla sua personalità: un duro a morire che non si è mai arreso, nemmeno quando la vita gli ha presentato il conto. “Se avessi avuto una pistola, me la sarei puntata alla tempia certi giorni”, ha raccontato poi nella sua biografia…

L’eredità che Walton ha lasciato al gioco, a livello tecnico ma anche come esempio di resilienza di fronte alle avversità, è il più grande regalo che potesse fare alle future generazioni. Tanti giocatori si sono ispirati a lui, dentro e fuori dal campo. Ed è proprio per questo che Shaq, forse, si sbagliava…