“Hardest working. Best conditioned. Most professional. Unselfish. Toughest. Meanest. Nastiest team in the Nba.”

FOTO: @MiamiHEAT

Questi comandamenti ritratti sul loro campo City Edition sono i principi fondanti della “Heat Culture” dei Miami Heat. Come ha riferito il simbolo che maggiormente incarna questo credo, Udonis Haslem, a The Athletic:

“Sarai sfidato – fisicamente, mentalmente ed emotivamente – per essere al meglio. È duro lavoro. È responsabilità. È dedizione. Godere del successo degli altri. Sono tutte cose che non sono naturali per il corpo e la mente umana. Il corpo e la mente umana naturalmente non vogliono lavorare duro. Naturalmente vogliono essere egoisti. Naturalmente non vogliono essere ritenuti responsabili ogni singolo giorno. Sono tutte le cose che di solito non vuoi fare e che devi fare una volta arrivato qui.”

“E non è un giorno. Devi farlo ogni giorno.”


Questo è il credo della franchigia, da Pat Riley fino all’ultimo giocatore della rotazione, spesso nemmeno scelto al Draft, passando per Erik Spoelstra. Dal dopo Big-Three, Miami ha scelto di percorrere la strada meno battuta nell’NBA di oggi, quella di aggiungere il tassello mancante piuttosto che sconvolgere l’intero ingranaggio: può anche darsi che abbia fatto di necessità virtù, considerando che l’ultimo tentativo di aggiungere una stella, Damian Lillard in estate, non ha sortito gli effetti sperati.

Dopo 31 partite di regular season, gli Heat si ritrovano al quarto posto nella Eastern Conference, avendo lo stesso record degli Orlando Magic, battuti a domicilio 3 partite fa interrompendo la loro striscia di nove vittorie di fila al AmWay Center/KIA Center, e 3 vittorie in meno dei Philadelphia 76ers, battuti in casa nella penultima partita disputata.

Uno dei leitmotiv di questa prima parte di stagione che ha reso disfunzionali le rotazioni sono gli infortuni: contro Minnesota, Orlando e Golden State, Miami si è trovata a dover schierare il 15esimo, 16esimo e 17esimo diverso quintetto titolare, dato nettamente più alto registrato in questa stagione, in seguito ai rientri contro i Timberwolves di Highsmith dopo uno stop di 5 partite, Richardson dopo 2, Adebayo dopo 7 e Jimmy Butler, salvo poi tornare ai box per un problema al polpaccio, mentre Tyler Herro è tornato l’8 novembre dopo essere stato ai box 18 partite, costringendoci per buona parte di esse a dover guardare i suoi outfit “alla moda” ma alquanto discutibili.

Sembrano cadere a fagiolo le parole che il play-by-play broadcaster degli Heat ripete ad ogni alzata di palla a due, ovvero “Heat nation off we go on another Miami Heat NBA adventure“, perché l’inizio di stagione è stato quantomai travagliato, avendo dato minuti significativi contro i Warriors anche a Jamal Cain (28) e Nikola Jovic (19), per sopperire alle mancanze di Lowry e Martin oltre a quella di Butler.

Delle due metà campo, l’abbiamo appreso negli anni passati e a maggior ragione l’anno scorso con l’approdo alle Finals, quella prediletta e che rispecchia in toto i principi della franchigia è quella difensiva. Miami è una squadra che fa giocare male gli avversari perché, come dice Spoelstra: “La difesa che distrugge la manovra rivale è la strada migliore verso la vittoria“. Difende benissimo sulla palla, alternando la copertura a uomo con la zona 2-3 e portando aiuti volti a nascondere le lacune difensive di alcuni dei suoi interpreti. Le mani veloci di Lowry e compagni costringono giocatori della portata di Tyrese Maxey a chiudere con 0 punti segnati nel primo tempo durante il match di Natale, togliendogli totalmente la possibilità di entrare in ritmo in un incontro che vedeva i suoi senza l’MVP in carica e attuale capocannoniere Embiid e quindi legati a doppio filo alla prestazione del 23enne da Kentucky – la marcatura francobollata di un giocatore pressoché dimenticato come RJ Hampton è la riprova di quanto l’ideologia di squadra sia inculcata nelle viscere di questa franchigia. Il parziale di 22 a 1 maturato a cavallo tra primo e secondo quarto, con i Sixers che non hanno segnato un tiro dal campo per otto (O-T-T-O) minuti, poi è la consacrazione di questo processo.

Il continuo dentro/fuori di alcuni giocatori porta però una naturale conseguenza, cioè la mancanza di chimica necessaria per costruire un sistema duraturo. E così capita che Jonathan Isaac possa schiacciare indisturbato perché Adebayo si ritrova a metà tra la penetrazione di Franz Wagner, la minaccia da oltre l’arco di Cole Anthony e la possibilità, poi realizzatasi, di alley-oop per il #1 di Orlando.

Miami ha attualmente la 13esima difesa della lega, con 113.5 punti subiti su cento possessi, niente a che vedere con quanto di eccelso mostrato lo scorso anno nella cavalcata ai Playoffs. Sono 19esimi per percentuale dal campo concessa agli avversari, 18esimi nella DFG% per i tiri oltre l’arco, addirittura 25esimi per quelli da due punti e 28esimi per quelli al ferro.

Ci sono dei problemi difensivi evidenti soprattutto dentro l’arco, riconducibili alle lineup che spesso presentano Adebayo (Orlando Robinson e Thomas Bryant finora hanno giocato solo quando l’ex Kentucky era infortunato) come unico lungo e uno tra Jaquez e Love da quattro; se a questo poi aggiungiamo che individualmente alcuni difensori sono sotto il par – Love, appunto, ma non solo – scopriamo il perché l’equazione non porta ad un esito positivo.

Le statistiche offensive sono anch’esse mediocri, benché con dei pattern ben definiti: sebbene da due punti tirino meglio solamente di Portland, Chicago, Memphis, Houston e New York, da tre punti sono la miglior squadra della lega, convertendo le triple con un clamoroso 39.1% (per dare un’idea, tra la seconda che è Indiana a 38.4% e i decimi che sono i Clippers a 37.9% c’è meno scarto che tra gli Heat primi e i Pacers appena dietro nella graduatoria).

In questa azione vediamo l’essenza dell’attacco di Miami: costruire il “good-to-great” come insegnano i San Antonio Spurs, “The ball finds energy” di D’antoniana memoria per la tripla di Herro (quando riesce ad acquisire un vantaggio nell’azione è pressoché sempre – cito nuovamente un’espressione del play-by-play announcer della squadra Eric Reid – “KABOOM”, palla in fondo alla retina).

Se andiamo a guardare però il numero di tiri presi in queste due zone del campo, vediamo una diminuzione nei tiri da tre punti (da 34.8 a 32.5) e un aumento in quelli da due (da 50.5 a 52.6), frutto di adattamenti che le difese avversarie sanno di dover portare al tavolo per affrontare la squadra della Florida.

Il tutto, ovviamente, si riflette sullo stile di gioco degli interpreti impiegati, che devono modificare il loro contributo in funzione del tipo di copertura che si trovano a fronteggiare. Il giocatore che, numeri alla mano, ha mutato maggiormente le sue tendenze è Duncan Robinson.

Pur rimanendo un tiratore da tre sopraffino, con il 44% di quest’inizio che segue la stessa percentuale riversata lo scorso anno nei Playoffs, durante la prima trentina di partite giocate sta sciorinando quella varietà di play-action che il front-office si augurava implementasse quando nell’estate del 2021 lo hanno lautamente ricompensato con un quinquennale da $90 milioni, un record per un undrafted.

Che avesse un set di movimenti lontano dalla palla che lo portassero a costruire un buon tiro da tre lo si era già visto – dribble handoffs, pin-downs e flare screens, ma anche pump-fakes o più semplicemente minaccia spot-up-: è però la capacità di mettere palla per terra e imbastire una situazione offensiva pericolosa anche per i compagni che mostra il salto di qualità fatto dal #55.

Se la sua 3-point rate è diminuita dall’81% della scorsa stagione alla 66.1% di quella attuale, il suo numero di penetrazioni è salito fino a 5.6 a partita dopo una media di 1.9 riscontrata nelle ultime tre annate. Robinson non è solo il miglior tiratore di Miami, ma è anche uno dei migliori passatori (e bloccanti): il suo assist rate ha subito un’impennata di quasi 6 punti, passando dal 14.2 al 19.9 attuale.

Sempre numeri alla mano, Duncan Robinson è al massimo in carriera per punti segnati a partita con 14.7 e i suoi 21 punti sette giorni fa nel solo quarto quarto contro gli Hawks hanno permesso ai suoi di risolvere una partita rimasta in bilico fino all’inizio dell’ultimo blocco.

Questa situazione è esemplificativa di quanto appena descritto: Robinson esce per ricevere un passaggio consegnato, Adebayo porta un ghost-screen che attira Towns di qualche passo più vicino al pallone, mandandolo fuori posizione e creando lo spazio necessario per far eseguire a Duncan un corretto alley-oop da schiacciare con prepotenza nel canestro del Kaseya Center.

Nella clip sopra, dall’altra parte dell’arcobaleno c’era Bam Adebayo, giocatore di importanza capitale per questa squadra, su entrambi i lati del campo. Specialmente quando in contumacia Herro, è stato il giocatore di origini nigeriane a guidare l’attacco di squadra, tanto da arrivare a toccare i 27 tiri tentati nella gara del 28 novembre contro Milwaukee, un’utopia se pensiamo al suo skillset entrando nella lega.

I 21.8 punti segnati e i 15.8 tiri tentati a partita sono entrambi massimi in carriera, in un’annata in cui coach Spoelstra sta apportando qualche modifica allo stile di gioco del suo lungo: il numero di azioni nelle quali Adebayo rappresenta il bloccante in un pick&roll è sceso dal 21.3% della scorsa stagione al 16.6% di quella attuale, mentre le situazioni di post-up sono aumentate dal 12.1% al 22.3%.

È chiara la volontà di imbastire un sistema offensivo più similare a quello che i Denver Nuggets presentano ogni sera, considerando che Jokic e Adebayo sono similari dal punto di vista del playmaking. È lui l’iniziatore dell’attacco, lo è stato in larga parte senza Herro e continua ad esserlo in numerose situazioni, specialmente da rimbalzo difensivo.

La volontà di coinvolgerlo maggiormente è evidente, non solo con il suo fade-away da centro area o come rollante sul pick&roll: il cominciare l’azione con un post-up al gomito per lui è un modo per evitare quanto successo nelle ultime stagioni, cioè di ritrovarsi con un attacco stagnante che fatica a creare a metà campo contro la difesa schierata. Gli Heat hanno dei momenti di paralisi offensiva, lo si è visto nella partita di Natale contro Philladelphia, quando i Sixers hanno utilizzato frequentemente la difesa a zona, un tipo di marcatura che Miami non è chiaramente in grado di attaccare in questo frangente di stagione, specialmente quanto i tiri da tre non entrano.

Hanno tuttavia anche dei momenti di esplosione in attacco, come mostrato la partita prima contro i Magic, dove hanno segnato 11 triple nel solo secondo quarto conclusosi con 43 punti, entrambi i dati sono i più alti stagionali in un singolo quarto.

In questa azione Herro riceve il consegnato da Adebayo, che blocca per lui riuscendo a tenere dietro Suggs permettendogli la penetrazione a canestro terminata con il floater. Miami è 7ima nella lega per punti off screen con 4.8, in notevole aumento rispetto ai 3.8 del 2022-2023.

Ed è per questo che hanno bisogno che un altro giocatore salga in cattedra, quel Tyler Herro che è il booster offensivo per una squadra che è reduce da 4 vittore consecutive, tutte con lui in campo e con Butler ai box. Dal rientro, sta mettendo a referto 26.2 punti tirando con il 49% dal campo e il 45% da tre. È uno dei tre giocatori a roster che sta tirando con più del 40% da tre, assieme a Robinson e Lowry. Le 18 partite di stop non sembrano avergli messo addosso una qual tipo di ruggine da inattività, anche perché, come ha mostrato lui sul suo canale YouTube, nel mentre si è allenato con il trainer Drew Hanlen per tornare al massimo della forma.

Se Caleb Martin è probabilmente il penetratore dritto-per-dritto più efficace della squadra, Tyler Herro è l’unico giocatore in grado di battere il suo marcatore utilizzando il suo ball-handling, favorito dai cambi di velocità nell’esecuzione e dalla sua pericolosità da qualsiasi posizione del campo, caratteristica che costringe il suo marcatore a rimanere appiccicato a lui commettendo anche dei falli, che mandano in lunetta un giocatore che l’hanno scorso ha tirato con il 93% dalla linea della carità.

Il campione di partite giocate (13) è tropo ridotto per prendere in analisi qualsiasi dato o tendenza fino a qui mostrati. Di conseguenza ci si può basare solo sullo storico, che ci dice che Miami sarà enormemente dipendente nella metà campo offensiva dal suo apporto, dai suoi pick&roll come ball-handler e dal suo usage.

Per questo in estate Pat Riley sembrava sul punto di chiudere uno scambio per portare Lillard in Florida, che vedeva tra l’altro l’ex Wildcat coinvolto, salvo poi venire snobbata sul più bello rimanendo col cerino in mano. Herro era stato incluso nel pacchetto non solo per poter pareggiare il valore economico dell’attuale Buck, ma anche per i punti di domanda sulla sua tenuta difensiva. Punti di domanda che ovviamente rimangono, perché non si è di punto in bianco trasformato in un mix di Jrue Holiday/ Giannis Antetokounmpo e Bam Adebayo (quest’ultimo già dato per candidato a Defensive Player of the Year), ma sono diminuiti.

Nelle sue prime quattro stagioni NBA, soprattutto nei Playoffs, Herro è stato il giocatore che gli avversari cercavano quando avevano la palla, era una cosiddetta liability, una debolezza, che obbligava i compagni a ruotare e a portare aiuti restringendo sempre più la coperta difensiva della squadra.

Quest’anno, in queste prime partite, sta offrendo maggior contributo nel sistema difensivo di Spoelstra, leggendo probabilmente meglio il gioco e risultando più presente ed efficiente sulle linee di passaggio, tanto da far registrare 1.2 palle rubate a partita, massimo in carriera. Come detto precedentemente, gli Heat hanno molti difensori che, per usare un eufemismo, non verranno inseriti negli All-Defensive Team, così la scelta di utilizzare la zona in modo così copioso permette al coaching staff di nascondere più interpreti e aggirare questo problema.

Il giocatore che meglio descrive questo inizio di stagione a Miami, però, è il rookie Jaime Jacquez, uomo giusto nel contesto giusto. Il mantra del coaching staff della squadra è “Be a star in your role”, ma qui si sta uscendo da questa definizione. Scelto con la 18esima chiamata all’ultimo Draft dopo 4 anni passati a UCLA, formazione collegiale che si sente, si vede e si apprezza in questo inizio, è l’unico giocatore ad essere sceso in campo in tutte e 31 le partite stagionali, un lusso considerato il lazzaretto da metà ottobre ad oggi.

Vedendolo in azione in campo, non sai mai se è un rookie che sta fronteggiando un veterano o se è lui il veterano che sta rendendo l’altro un rookie. Come dice Spoelstra: “Ha un livello di esperienza che trascende la sua età, continua a fare giocate vincenti per la squadra.” La capacità di usare le sue gambe e il suo corpo per guadagnare spazio, l’intelligenza cestistica per riconoscere quando e come attaccare l’avversario, se usare o meno una finta che manda fuori tempo il marcatore: questi sono i fondamentali che non lo mettono nella stessa categoria dei normali rookie.

Lo si vede anche negli angoli, dove è più che a suo agio nel leggere un close-out, prendendo qualche secondo in più per decidere come attaccare l’avversario, se fermarsi dopo un palleggio per prendere un tiro dalla media o attaccare spalle a canestro un aiuto. I tagli dal lato debole sono un’altra dimostrazione delle sue letture offensive ben sopra la media, anche rispetto ad altri giocatori più navigati.

Nonostante i giochi chiamati per lui siano pressoché assenti, sta viaggiando a 13.8 punti di media, con il 51% dal campo e il 38% da tre, dimostrando di essersi adattato perfettamente alla pallacanestro di Miami riuscendo a giocare confortevolmente nelle pieghe della partita. È ancora presto, ma sta già presentando una mozione per essere il terzo miglior rookie di quest’anno dopo Wembanyama e Holmgren.

A tutti questi elencati aggiungeteci i minuti di qualità di Lowry e Martin, l’apoteosi di Butler che si compirà nei Playoffs, puntuale oramai come un orologio svizzero, e le comparsate più che giustificate di Highsmith, Hampton, Cain, Jovic e qualunque altra gemma che gli Heat scoveranno da qua alla fine dell’anno. Potrebbe non bastare per arrivare fino in fondo, perché la distanza da Boston, Milwaukee e Philadelphia sembra troppo elevata da colmare, ma sembrava impossibile anche lo scorso anno fino a quando non sono usciti vittoriosi dalla Eastern Conference.

In alcune situazioni si vede l’incompletezza di questo nucleo, a volte in difesa, più spesso in attacco e in particolare nell’ultimo quarto, dove la squadra è nelle ultime cinque posizioni nella lega per punti segnati, percentuale dal campo e differenziale di punti. A questo aggiungeteci che ad oggi hanno un record di 6-10 contro squadre sopra il 50% di vittorie e capite il perché continuino a circolare nomi di giocatori che vengono accostati alla franchigia, primo fra tutti Donovan Mitchell, che con i suoi Cavaliers risulta bloccato in un limbo da cui è difficile emergere.

Lowry continua ad affermare che questo roster abbia la possibilità di ripetere quanto fatto l’anno scorso, che anno abbastanza. Io sono un po’ scettico su questo, considerati anche gli innesti fatti dai Celtics e dai Bucks. Una cosa però è certa: la “Heat Culture” è il motivo e motore per il quale questa squadra è dove dovrebbe (o non dovrebbe) essere ogni singola stagione.

Un meccanismo strano da capire, tuttavia appassionante da seguire. L’hanno già fatto la scorsa annata, arrivando dal nulla, e non vedo un buon motivo perché non possano ripetersi anche quest’anno. Credo che Butler abbia chiesto ai suoi di ritardare le ferie a luglio, di tenersi liberi per aprile, maggio e giugno, per sicurezza. Don’t sleep on the Miami Heat: un’altra avventura è appena iniziata.