Esattamente oggi, 35 anni fa, gli Atlanta Hawks scendevano in campo a Tbilisi, odierna capitale della Georgia, per la prima storica partita di una squadra NBA sul suolo dell’Unione Sovietica. La gara d’esordio, contro una selezione locale, di un tour che sarebbe proseguito facendo tappa a Vilnius (Lituania) e infine a Mosca (Russia).

Si è trattato di uno dei primi grandi viaggi dell’era David Stern – personalmente presente, insieme agli Hawks – per portare la bandiera dell’NBA in giro per il mondo, dopo quelli in Europa, Israele e Cina a cavallo tra Anni ’70 e ’80. E come confermeranno diversi diretti interessati, il tour riuscì davvero a rompere una barriera e aprire le porte dell’NBA, e in generale delle leghe sportive occidentali, a tanti atleti sovietici. Contribuendo positivamente alla distensione diplomatica in corso, in un momento storico molto delicato.


Siamo nell’estate del 1988. Il muro di Berlino cadrà l’anno successivo, l’Unione Sovietica si dissolverà nel ’91, e sebbene la Guerra Fredda fosse agli sgoccioli e l’URSS avesse intrapreso la perestrojka (il programma di ristrutturazione economica, politica e sociale varato da Gorbaciov), un evento NBA da queste parti non era una novità priva di significato, anzi. E come immaginabile, l’atmosfera non era esattamente quella di una classica tournée estiva per i giocatori degli Hawks e tutta la troupe al seguito.

Di seguito, una raccolta di qualche aneddoto di quei 15 giorni attraverso le testimonianze di Steve Holman (storica voce degli Hawks, ai tempi al suo terzo anno con la squadra), Jack McCallum (Sports Illustrated) e altri protagonisti del viaggio più coraggioso nella storia della lega.

“È stato uno shock culturale per tutti noi. Era ancora l’Unione Sovietica della Guerra Fredda e della Cortina di ferro. Quindi è stato difficile per molti di noi. Ma per i giocatori, che sono abituati a questo e quello sempre in prima classe, è stato davvero uno shock culturale.”

– Stan Kasten, general manager Hawks

“Il volo doveva essere un charter. Invece, trasportava un misto di civili e animali vivi, e non aveva servizi. C’era solo dell’acqua in una ciotola di legno condivisa. Poi, il viaggio in autobus dall’aeroporto alla struttura di allenamento è stato interrotto a lungo dal bestiame che occupava la strada sterrata. Sukhumi non era proprio un resort sulla spiaggia, non era un posto in cui volevi andare.”

– Jack McCallum, Sports Illustrated

“Quando siamo arrivati, abbiamo scoperto che la struttura dove dovevamo stare era chiusa da anni…”

– Mike Fratello, head coach Hawks

“Ted Turner e Bob Wussler (fondatori di CNN, il primo all’epoca era il proprietario degli Hawks) una sera risposero a una chiamata d’emergenza dall’URSS. Dall’altra parte c’erano Kim Bohuny e Mike Fratello (reporter di TBS e coach della squadra), che parlavano da un bunker di cemento senza luce in Georgia. Imploravano di mandare cibo e acqua.”

– NBA.com

“Ora ripenso con affetto a quei giorni, ma per due settimane abbiamo mangiato cetrioli e pomodori, e bevuto vodka calda. Non potevamo usare cubetti di ghiaccio a causa dei parassiti nell’acqua, quindi qualunque cosa bevessimo era calda.”

– Steve Holman

“Jack McCallum di Sports Illustrated aveva portato dei cracker e burro di arachidi, e tutti li hanno mangiati come dei pazzi. Antoine Carr invece si era portato da casa un’intera valigia piena di cibo, ma la teneva barricata nella sua stanza e non lasciava entrare nessuno.”

– Steve Holman

“Mike Fratello spesso portava gli Hawks fuori a mangiare nei ristoranti italiani. Quella volta, ha chiesto alla lega di far arrivare a Mosca tutti gli ingredienti necessari, e insieme a David Stern ha cucinato una cena a base di spaghetti, con enormi porzioni per tutti. Ci dicevamo che sembrava l’ultimo pasto prima di andare sulla sedia elettrica…”

– Jack McCallum, Sports Illustrated

“A un certo punto, abbiamo avuto un giorno libero e alcuni giocatori americani sono venuti da me e mi hanno detto: ‘Sasha, vogliamo andare a un club stasera’. E gli ho risposto: ‘OK, penso che vi rendiate conto che qui a Sukhumi… che tipo di club pensate di trovare?’ Ero sicuro che non ci fossero discoteche da quelle parti, soprattutto in prossimità di una base sovietica isolata, ma chiamai degli amici per averne conferma. Dopo un paio d’ore, un agente del KGB mi chiamò e mi disse: ‘Sasha, per favore, non fate cose stupide. Racconta che è una festa religiosa, che tutto è chiuso e basta’. Nessun giocatore ha lasciato l’albergo quella notte.”

– Alexander Volkov, giocatore ucraino (oggi tra l’altro coinvolto personalmente nel conflitto)

“La lega ha voluto quella trasferta perché era davvero l’inizio di un programma di David Stern che puntava all’espansione globale dell’NBA. E uno dei primi passi dovevano essere i giocatori dell’Europa dell’Est. C’erano così tanti ottimi giocatori da quelle parti, l’NBA voleva sfondare questa barriera.”

Kim Bohuny, reporter TBS

“Noi ai tempi non avevamo idea, e neanche loro, di quanto quella trasferta avrebbe contribuito ad aprire la porta. Ancora oggi rappresenta un passo fondamentale per gli atleti sovietici che in seguito hanno gareggiato da professionisti in Occidente.”

– Sarunas Marciulionis, che l’anno dopo diventerà un giocatore degli Warriors

“In quei giorni, in un certo senso abbiamo sognato l’NBA, anche se non lo dicevamo alla gente, perché sembrava una cosa stupida. Nonostante la situazione nel mondo e quella dell’Unione Sovietica, dentro di noi abbiamo pensato: sì, forse c’è una possibilità.”

– Alexander Volkov, che l’anno dopo diventerà un giocatore degli Hawks