No, chi scrive non è certo un detrattore di Draymond Green, uno di quelli che non aspettano altro che un passo falso per cogliere la palla al balzo e mettere in discussione in toto il suo impatto dentro e fuori dal campo. E’ l’esatto contrario: chi scrive è un grande estimatore dell’orso ballerino da Michigan State, un tifoso della prima ora, fin da quando scalpitava per ottenere minutaggio da Mark Jackson.

A dire la verità, sono sempre stato affascinato anche dal suo carattere, e anche in questo caso è stato un colpo di fulmine: sono infatti in pochi quelli che sanno che Green prese un tecnico per “taunting” dopo il primissimo canestro da giocatore NBA. Da quel momento, una serie sempre più numerosa di eccessi che hanno spesso tenuto in piedi l’energia dei Golden State Warriors tanto vincenti nell’ultimo decennio. Dray ha spesso agito da defibrillatore della squadra, a costo di spendere qualche tecnico e qualche sceneggiata di troppo.

Gli effetti collaterali non sono mai mancati, uno su tutti la squalifica decisiva subita durante le NBA Finals 2016, ma il “trade-off” è sempre stato decisamente positivo. E non è solo l’eye-test a dircelo, ma i numeri incontrovertibili (come l’On/Off, talvolta paragonabile a quello di Stephen Curry) e i trofei messi in bacheca.


Ad oggi, però, qualcosa sembra essersi rotto. Da ormai un anno, nonostante il suo impatto sul campo sia rimasto invariato (+14.0 di On/Off nella passata stagione), le sue recite e i gesti sopra le righe sembrano non sortire più lo stesso effetto su squadra ed avversari. E al contempo, anche gli eccessi sono diventati eccessivi. Prima il pugno rifilato a Jordan Poole, poi il “salto” sopra Domantas Sabonis che poteva costare ai Dubs il primo turno dei passati Playoffs, e infine la violenza inaudita di stanotte.

Le immagini sono tanto vergognose quanto evidenti: Green va dritto su Gobert, come se non stesse aspettando altro, gli cintura il collo e non vuole mollarlo. Qui non si parla più di una ditata nell’occhio, di una spinta, di un calcio gratuito nelle parti basse a rimbalzo: Il numero 23 è passato ad un livello successivo, decisamente pericoloso.

Lo ha fatto a 33 anni, dopo più un decennio nella lega, da leader emotivo della propria squadra, con un figlio piccolo a bordo campo a guardarlo. E, almeno per il momento, non ha mostrato alcun segno di pentimento, né verso l’avversario né verso i propri compagni, esattamente come successo durante la serie contro i Kings.

Alle critiche, Green risponde sempre attraverso i social dicendo che ha bisogno di essere se stesso. Ma essere se stesso non è più una scusa, non dal momento in cui le sue sceneggiate non hanno più il compito di energizzare la squadra ma quello di mettere in piedi uno show, non se la conseguenza è la violenza gratuita. In questo modo dà il cattivo esempio, non fa il bene della squadra e non fa certo un favore all’immagina della NBA.

E ora?

Come si torna indietro? Come si argina un giocatore che sembra destinato a recitare lo stesso copione ancora e ancora, degenerando sotto il punto di vista della gravità?

La sospensione della lega arriverà, e vista la recidività del soggetto potrebbe essere (giustamente) piuttosto corposa. Se così non fosse, il quattro volte campione NBA si sentirebbe legittimato a portare avanti la sua condotta, come una pallina in discesa sopra un piano inclinato, creando un pericoloso precedente.

Ma il messaggio deve arrivare anche dall’interno dell’ambiente Golden State. Se qualche anno fa Green era giovane e c’erano personalità come Andrew Bogut e Andre Iguodala a cercare di frenarlo e “raffreddarlo” quando necessario, la sensazione è che oggi si senta impunito, sia dall’interno che dall’esterno, in nome del suo palmares e della sua personalità,

Ma gli Warriors non se lo possono più permettere, non se vogliono evitare un altro tracollo dopo quello dell’anno scorso. Qualcuno, tra Steve Kerr e il compagno ed amico Curry, dovrebbe probabilmente fare un tentativo per ricollocarlo sui giusti binari. Ormai dovremmo averlo capito: Dray, sia come persone che come uomo, ha un irrazionale bisogno di sentirsi messo in discussione.