
Ricordate cosa si diceva un anno fa dei Los Angeles Clippers. Paul George aveva appena salutato in Free Agency senza portare nulla in cambio. Il consenso generale era spietato: questa squadra non aveva più speranze.
PG non era stato rimpiazzato da nessun grande nome, Kawhi Leonard sembrava intrappolato in un eterno calvario fisico fatto di ginocchia fragili e stop forzati, e James Harden era reduce da stagioni tormentate, percepito più come problema che come soluzione. In una Western Conference sempre più competitiva, in pochi vedevano in questi Clippers più di un’apparizione marginale ai margini della zona Play-In.
E invece, la squadra di Tyronn Lue ha saputo ribaltare la narrativa, costruendo una stagione fatta di entusiasmo, tanto entusiasmo.
Ivica Zubac ha compiuto un enorme salto di qualità, diventando una presenza dominante nel pitturato in entrambe le metà campo; Norman Powell, liberato da presenze troppo ingombranti attorno, ha trovato spazi e responsabilità, incarnando quella che in gergo americano viene chiamata “addition by subtraction”. L’ex Raptors non ha giocato una buona serie, è vero, ma due settimane non possono cancellare una stagione intera.
La difesa, punto di forza inatteso, è stata una delle migliori della lega per disciplina e solidità, mentre Harden ha messo in mostra il suo “floor raising”: ha tenuto a galla un attacco che, sulla carta, non avrebbe dovuto avere il talento necessario per arrivare ai Playoff, specialmente prima del rientro a pieno regime di Leonard.
I tifosi Clippers si sono divertiti, su questo non c’è dubbio. E i giocatori pure. Hanno messo in piedi una stagione di riscatto, con la vittoria in casa di Golden State all’ultima di stagione regolare come ciliegina sulla torta.
Ai Playoff hanno lottato e sono usciti contro il miglior giocatore del mondo. Sono crollati in Gara 7, è vero, ma non può essere una vergogna. Su 30 squadre ne vince una sola, gli altri 29 non possono essere tutti fallimenti. In mezzo ci sono anche delle belle storie, e quella dei Clippers lo è stata.
I Clippers stanno costruendo una “culture”
Per anni i Clippers sono stati “gli altri” a Los Angeles. Non bastavano i nomi altisonanti o i poster in giro per la città: l’identità restava sempre quella di una squadra di passaggio, figlia di una narrazione inferiore rispetto al mito immortale dei Lakers.
Ma quest’anno qualcosa, in piccolo, è cambiato. Con la nuova arena, l’Intuit Dome, i Clippers hanno iniziato a costruirsi un mondo tutto loro. Non più ospiti nello Staples Center, non più inquilini scomodi, ma padroni di casa, con un luogo che profuma di futuro. Il progetto “The Wall” – la muraglia di tifosi dietro il canestro – ha funzionato eccome, portando energia e creando finalmente una vera atmosfera casalinga.
Steve Ballmer, il vulcanico proprietario, ha dimostrato ancora una volta che dietro la facciata eccentrica c’è una passione autentica: non si è limitato a spendere in contratti milionari, ma ha portato i tifosi in trasferta per Gara 7, un gesto che non si vede spesso in NBA e che la dice lunga su come Ballmer stia cercando di cambiare la percezione stessa della franchigia.
I Clippers oggi hanno dei tifosi veri, una community che tiene a loro. che non li considera la pecora nera della città. E questo, per quella che è la loro storia, ha un significato importante.
Sono finiti gli alibi
Negli ultimi tre anni i Clippers hanno vissuto in una bolla di rimpianti. Ogni sconfitta, ogni eliminazione veniva letta alla luce di un gigantesco “what if”: cosa sarebbe successo se Kawhi Leonard fosse stato sano?
Quest’anno, per la prima volta da tempo, Kawhi era in campo, in salute, pronto a guidare la squadra. Eppure, l’eliminazione al primo turno è arrivata comunque, bruciante e innegabile.
Questo, paradossalmente, può essere un dono. Perché ora non ci sono più scuse: è il momento di guardare in faccia la realtà, di accettare che forse questo ciclo non può andare più avanti di così, che c’è bisogno di altro.
Ballmer e il front office hanno l’occasione di prendere decisioni coraggiose, di costruire un nuovo progetto senza restare incastrati nei fantasmi del passato. Non è la fine del mondo: è solo la fine di un capitolo. Ed è sempre meglio del limbo di incognite in cui hanno vissuto negli ultimi anni.