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I 14 minuti e 22 secondi di Haywood Highsmith in una tiratissima Gara 4 contro Milwaukee basterebbero da soli a rendere l’idea di che razza di impresa si siano fatti protagonisti i Miami Heat. Oltre a uno dei più grandi upset di sempre, però, quello che la serie vinta contro i Bucks ha messo in mostra riguarda due cose: la differenza di organico a disposizione e la manifesta superiorità di Erik Spoelstra su Mike Budenholzer.

Cambiando l’ordine degli addendi, il risultato non è cambiato né alle Conference Semifinals, dominate a discapito dei New York Knicks, né alle Conference Finals, superate a Gara 7 dopo aver preso in mano la serie fin da subito per 3 a 0. L’unico scoglio troppo grande da superare si è rivelata Denver, accettabile, al netto delle disparità di roster – questa volta palesatesi nitidamente – e di fatica accumulata nel corso dei Playoffs.

Se della gestione tattica parleremo magari in un pezzo a parte (QUI comunque trovate un esempio), la prima ci affascina particolarmente. I Miami Heat non sono certo una corazzata, né sono esenti da difetti, anzi, l’impresa di Jimmy Butler e Spoelstra in primis è tale proprio perché parte da un roster tutt’altro che competitivo. E nemmeno assemblato così bene.


Se questa squadra fosse uscita al Play-In non ci sarebbe stata alcuna sorpresa, si sarebbe condannato questo progetto e alcune scelte di Pat Riley, che non ha saputo – nemmeno dopo questo passaggio al secondo turno – creare minimamente un contesto competitivo attorno alla propria superstar di riferimento.

Il contratto triennale da $85 milioni offerto a un Kyle Lowry 35enne si ripercuote tutt’ora in maniera terrificante sul payroll, con $29.7 milioni nel 2023/24 intestati a un giocatore nel pieno di una regressione fisica irreversibile, che in stagione ha faticato tanto e che ai Playoffs è stato costretto (e ha costretto Spoelstra) a un impiego minore, in termini di minutaggio, rispetto a Gabe Vincent, giocatore dallo stipendio diverso, per citarne uno. E probabilmente sarebbero stati ancora meno, se Tyler Herro non si fosse infortunato in Gara 1 e Victor Oladipo in Gara 3 contro i Bucks.

Quel che stiamo cercando di far capire è che questo roster è assemblato in maniera assolutamente peculiare, con una superstar nell’acme della propria carriera, un paio di giocatori che andavano giustamente pagati certe cifre, al netto dell’età, ma non esenti da difetti, e il giusto bilanciamento di errori madornali e capolavori – un’espressione che renderebbe bene sarebbe “dal letame nascono i fior”, ma sembra di cattivo gusto. Cosa c’è di speciale? Che questa squadra è nel limbo più totale, senza margine di miglioramento (il contrario, fra le due), ma è arrivata fino alle Finals dopo aver battuto due contender (Bucks e Celtics, terzo e quarto payroll della Lega) e reduce dalle Eastern Conference Finals, oltre alle Finals 2020.

Questo è lo stato attuale in maniera schematica:

  • $1 milione sotto la soglia della luxury tax, evitata a regola d’arte senza tentativi goffi di migliorare alla trade deadline
  • Jimmy Butler, arrivato via trade, che si appresta a percepire un più che meritato triennale da $146.3 milioni, con player option nel 2025/26
  • le prime scelte:
    • Bam Adebayo, nel suo max rookie contract più che giusto per quella che è la sua versatilità e l’impiego nel sistema di Miami.
    • Tyler Herro, con un 120×4 (e $10 milioni potenziali di incentivi), non amato da chi scrive, ma comprensibile per le necessità di Miami nell’avere almeno un’altra opzione offensiva di livello a roster – e soprattutto un giovane che potrà avere minuti anche in prospettiva.
    • Nikola Jovic
  • due contratti brutti e cattivi:
    • quello già nominato di Kyle Lowry
    • il quinquennale da $90 milioni offerto a Duncan Robinson (partito da undrafted), con early termination option nel 2025, ma che peserà oltre $18 milioni il prossimo anno e $19.4 milioni quello successivo (un po’ tantino nonostante buoni minuti in questi Playoffs)
  • un Victor Oladipo trattenuto grazie ai Bird Rights, con un contratto non troppo pesante ma nel quale va calcolata la fragilità fisica
  • due buone firme: Caleb Martin (undrafted e inizialmente firmato con un two-way) alle cifre della non-taxpayer MLE e Kevin Love con Bi-Annual Exception dopo la deadline (e il buyout da Cleveland)
  • veterani: Udonis Haslem, ormai di casa a “rubare lo stipendio ai giovani” e in sedia a dondolo, nonostante abbia trovato addirittura preziosi minuti ai Playoffs, i primi dal 2016, e alle Finals, roba da record; Cody Zeller, arrivato dopo la trade deadline e che doveva colmare il vuoto lasciato dal (tutt’altro che compianto) Dewayne Dedmon tra i lunghi di una certa età al minimo salariale.
  • undrafted: eccoli i “capolavori”, con Gabe Vincent, Max Strus, Haywood Highsmith e Omer Yurtseven, a cui aggiungere i già citati Martin e Robinson.

I primi tre non solo sono parte integrante delle rotazioni, ma anche tra i tre con più partite giocate in stagione, in top-10 nel minutaggio e – nel caso di Strus e Vincent – starter ai Playoffs. Questo duo non arriva ai $4 milioni totali di stipendio e ciascuno di loro ha giocato più di Lowry ai Playoffs, un unicum assoluto.

Si tratta del modo corretto di costruire qualcosa? Assolutamente no, le disfunzionalità sono palesi e, ripetiamolo, se fossero usciti al Play-In ne staremmo parlando in maniera diversa. Eppure è esattamente grazie a questo assetto dei Miami Heat che se ne apprezza la capacità di adattarsi, la meticolosità nel preparare il piano partita di Spoelstra e, ovviamente, la follia di Jimmy Butler.

A metà tra il bene e il male, in un perfetto Limbo inamovibile dal quale c’è stata l’illusione, due volte e mezza, di poter uscire. Eppure, che illusione! Una di quelle per cui in molti pagherebbero – e, anzi, pagano – salato per vivere. In poche parole: non provateci a casa. Perché il vostro progetto potrà essere perfetto o viceversa, essere bravi o meno bravi, ma nessuno sarà mai come questi Miami Heat, un bellissimo e contraddittorio capolavoro a metà.