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Questo contenuto è tratto da un articolo di Katie Heindl per NBA Playbook (SB Nation), tramite Celtics Blog, tradotto in italiano da Marco Barone per Around the Game.
Nella conferenza stampa post-partita, inconsciamente o inavvertitamente o in entrambi i modi, Steph Curry ha detto che durante l’All-Star Game di domenica ci sono stati momenti in cui “sembrava che il gioco fosse un po’ in mezzo”. Curry ha anche detto che il formato a torneo e la durata relativamente ridotta delle partite (42 minuti di basket in totale sono stati giocati nelle tre ore di durata della serata) non hanno “permesso di costruire una solida trama” e che il giorno prima Kyrie Irving aveva chiesto se avrebbero “giocato quest’anno” e Curry ha confermato di sì.
Tutto ciò non vuole essere denigratorio, certamente non nei confronti di Curry e nemmeno del gioco in sé, almeno al suo valore nominale. L’All-Star Game appartiene a un’epoca passata. È stato creato per quando la nostra esposizione alle più grandi star del campionato non poteva essere soddisfatta da un rapido scorrimento o da una ricerca, o dai loro filmati e contenuti amatoriali o professionali che arrivavano nei nostri ancora inesistenti feed dei social media. La partita è ancora un evento in cui le superstar occupano fisicamente lo stesso parquet in una configurazione così specifica per una sola volta nel corso della stagione, ma il suo scopo è cambiato.
Da un certo punto in poi l’All-Star Game è diventato un evento polivalente. Un evento per soddisfare gli sponsor, attirare nuovi marchi e spingere i partner dell’NBA verso il suo pubblico di riferimento. È diventato anche un evento che si preoccupa dell’innovazione – come i cani robot che sventolano le magliette tra la folla durante le pause pubblicitarie – e che celebra le persone e il “prodotto”. Si tratta di un territorio nuovo e maturo per gli influencer, di uno vecchio di favore per le celebrità, di un’occasione mista per i media e di un sacco di lavoro per lo staff dell’NBA. È una conclusione agrodolce, a volte bizzarra e stanca di un lungo fine settimana, contemporaneamente gioiello della corona e traguardo, e da qualche parte in mezzo a tutto questo si gioca una partita di pallacanestro.
L’evento non ha assunto tutte queste caratteristiche in una sola volta. La progressione è stata graduale, con piccole aggiunte e aggiustamenti apportati nel corso degli anni. Il problema è che, man mano che si aggiungono nuovi componenti, nulla viene eliminato. Il risultato è l’ingombrante, laboriosa, costosa e lunghissima notte che abbiamo davanti.
In qualità di ambasciatore de facto della Baia, Curry è stato coinvolto in alcune decisioni relative al formato dell’All-Star Game di quest’anno. Per la maggior parte è sembrato soddisfatto, ma ha notato che c’è sempre un margine di miglioramento. Ha detto che ognuno dei partecipanti ha la possibilità di scegliere di fare ciò che vuole. Beh, se solo fosse così.
Nikola Jokic ha detto che forse è arrivato il momento di accettare che le cose stanno in questa maniera, Jaylen Brown ha ammesso nel suo All-Star media availability un giorno prima della partita di non avere idea di come funzionasse il nuovo formato e Draymond Green, fedele al proprio personaggio, ha detto di non ritenere giusto che una squadra di ragazzini abbia avuto la possibilità di giocare la partita a causa dell’adeguamento del formato.
Gli All-Star hanno già una scelta. Come gruppo, rappresentano le figure decisionali più valide della Lega. Eppure, una scelta, fatta, è molto diversa da un’opinione, offerta.
La passività dell’atleta nei confronti del gioco, o la disponibilità a criticarlo ma non necessariamente a lavorare per ridimensionarlo (si noti che non si è usata l’espressione “aggiustarlo”), è assolutamente un ostacolo alla sua funzionalità, ma una reazione comune al troppo (stimolo, scelta, richiesta, dettagli – scegliete voi) è quella di bloccarsi e non prendere alcuna decisione. Questi giocatori sembrano bloccati dalle aspettative e dal peso effettivo del gioco proprio come il resto del pubblico. La differenza è che a loro viene detto che sono lì per giocare una pallacanestro competitiva e divertente, e poi gli viene chiesto di lasciare il campo per segmenti gestiti da youtuber, una serie infinita di GameOps infarciti di IA per riempire le interruzioni pubblicitarie prolungate, i tributi (il saluto di TNT è stato bello, ma non sarebbe dovuto avvenire nel bel mezzo della partita) e i monologhi di Kevin Hart o di chiunque sarà il prossimo conduttore.
In futuro sembra che la Lega si troverà di fronte a una biforcazione. Uno: prendere i migliori insegnamenti degli ultimi anni di All-Star Game e metterli insieme dove ha senso. Ad esempio, tornare a un formato a due squadre, ma mantenere un “target score” per ogni tempo. L’altra opzione è che continui così, aggiungendo e aggiungendo finché la struttura non avrà ancora meno senso e la notte diventerà troppo densa per avere un senso. Jokic, nella sua saggezza, potrebbe avere ragione nel dire che questa è una realtà a cui dobbiamo semplicemente abituarci, che il mondo che circonda il gioco è cambiato troppo perché l’All-Star Game possa servire allo scopo che aveva al suo inizio. Curry lo ha ribadito nella sua conferenza stampa:
“Penso che sia stato un buon passo nella giusta direzione per rinvigorire il gioco in qualche modo. E poi ci si rifà l’anno prossimo, per vedere quali cambiamenti si possono apportare. Non voglio paragonarlo a nessun’altra epoca, perché il mondo è cambiato, la vita è diversa, il modo in cui la gente consuma la pallacanestro è diverso, quindi non sarà più come prima, ma può ancora essere divertente per tutti.”
“Io mi sono divertito, la nostra squadra si è divertita, e questo è l’unica cosa che conta.”
Camminando per i tunnel dopo la chiusura dell’All-Star Media si intravedeva un fitto groviglio di persone, tutte con il cellulare acceso. Non è una cosa rara durante il fine settimana, con ex star, musicisti, mascotte, celebrità minori e, naturalmente, gli attuali All-Star in giro. Questa volta, però, tutti si sono fermati per i cani robot Boston Dynamics, vagamente inquietanti, che hanno accompagnato Shaq in pista e poi hanno sventolato magliette sulla folla durante una delle numerose interruzioni della serata.
La gente chiedeva a gran voce che i cani si esibissero, spingendo da ogni parte mentre camminavano a scatti. La sensazione è stata bizzarra e oscura, considerando che l’uso di questi “cani” è per la polizia. Come un’anteprima di un futuro che consideriamo lontano, ma che è già qui e meno di quanto sperassimo.
La pallacanestro è l’intermezzo dell’All-Star Game o il suo punto di forza? Risolta questa causalità tra uovo e gallina, forse ne uscirà fuori una vera partita.