Il Triangolo NO: i New York Knicks del 2016/17

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Dopo aver tentato un parziale – e fallimentare – esperimento Big Three nel 2010/11, quando era sbarcato nella Grande Mela un giocatore allora considerato di livello assoluto come Amar’e Stoudemire, i New York Knicks approcciano la stagione 2016/17 con la consapevolezza di trovarsi nel momento perfetto per tentare un affondo.

La stagione precedente, 2015/16, era salito agli onori della cronaca un giovane rookie lettone fischiato al momento del Draft, Kristaps Porzingis. Al suo fianco, rimaneva immutato da ormai sei anni l’apporto alla causa di Carmelo Anthony, alla disperata ricerca di una squadra in grado di dargli reali possibilità di vincere un titolo. Accanto a loro un’ordinata e passabile accozzaglia di role player in attesa della terza stella e di una guida tecnica di alto livello.

Phil Jackson, plenipotenziario della franchigia, ha quindi il compito di rimediare ai suoi errori precedenti e far uscire New York da quella situazione di bene ma non ancora benissimo ormai tipica delle sue annate migliori (sulle peggiori preferiamo non esprimerci). Coach Zen, tuttavia, intende esibirsi in un sinatresco remake di My Way, ponendo come condizione unica e tentando di costruire un gruppo in grado di giocare un ormai decisamente datato attacco Triangolo.

Le sue scelte di mercato, tuttavia, sembrano fin da subito non combaciare con il suo dogma cestistico. All’inizio di luglio viene imbastito uno scambio per portare ai Knicks Derrick Rose, fresco di rottura coi Chicago Bulls, e viene firmato con un ricchissimo quadriennale Joakim Noah, nelle idee – poco avvedute – di Jackson il centro dominante adatto a giocare il sistema di letture di Tex Winter.

Insieme a loro, poi, vengono confermati Lance Thomas e Sasha Vujacic, pupillo di Jackson che l’anno successivo diventerà idolo delle folle torinesi, e viene firmato con un altrettanto ricco quadriennale Courtney Lee, spot-up shooter come Vujacic che poco o nulla centra con un sistema nato e cresciuto per il mid-range.

La squadra, siamo d’altronde a New York, parte con i favori delle aspettative. Coach Jeff Hornacek arringa le folle promettendo successi, mentre Derrick Rose lancia continue frecciate a Chicago, città decisamente spaventata al pensiero che Phil e Derrick possano portare al successo gli odiati arancio-blu.

“Essere qui, con questo mercato, questa storia, questa tradizione di basket. Ne sono grato. Conosco la rivalità Chicago-New York, penso che qui mi apprezzeranno molto di più.”

– Derrick Rose

 Proprio perché ci troviamo nella Big Apple, tuttavia, bastano un paio di partite per comprendere come non tutto sia esattamente come previsto. Dopo due gare di preseason Hornacek abbandona il triangolo perché “ai ragazzi non piace giocarlo e non ti permette di trovare quei canestri rapidi che oggi sono fondamentali”, Jackson, dal canto suo, passa l’intero mese di ottobre a lanciare frecciatine a mezzo stampa – come era solito fare ad LA per stimolare Bryant  – trovando in questo caso una netta opposizione in Carmelo Anthony, che dichiara pubblicamente il 7 novembre di essere stufo di sentire parlare del Triple Post Offense.

Da lì la tensione si alza, con Jackson che commette l’imperdonabile errore di utilizzare un termine razzista nell’atto spiegare l’assenza di privilegi nelle altre franchigie di vertice della NBA (probabilmente un altro dardo infuocato all’intoccabile Anthony). Il rapporto tra i due si rompe definitivamente, anche perché il termine incriminato (posse, “cricca”) è stato utilizzando parlando della situazione dei Miami Heat e di LeBron James, grande amico di Melo.

Nel frattempo, dal punto di vista tecnico, il vice-allenatore Kurt Rambis ha iniziato una faida fittamente documentata sui giornali con Porzingis, reo di essere lascivo in difesa quando vittima di problemi di falli.

L’apice di questo caos, non completamente dipanabile in un articolo generale come questo, comunque, non si raggiunge che il 9 gennaio.

Alla vigilia di una gara contro i New Orleans Pelicans, infatti, Derrick Rose decide di non presentarsi alla partita senza dare spiegazioni, se non generici “motivi familiari”, gettando nello stupore generale la franchigia.

Una settimana esatta dopo il caso-Rose, poi, Charley Rosen, amico e ghostwriter di Phil Jackson, scrive in un pezzo che Carmelo Anthony ha fatto il proprio tempo a NY. Per tutta risposta, Anthony rinuncia alla propria no-trade clause e risponde piccato al proprio Presidente – ovviamente a mezzo stampa, perché i panni sporchi si lavano in famiglia:

“Se pensano questa cosa dall’altra parte dovremmo avere una conversazione. Se credono che io abbia finito qui dovremmo parlarne.”

– Carmelo Anthony

Le dichiarazioni di Anthony sono di fatto la fine della stagione dei New York Knicks, che smembreranno il gruppo dopo un deludente 31-51 ed il dodicesimo posto ad Est. Un ultimo tratto macchiettistico, tuttavia, non può essere lasciato nella penna nel raccontare il delirio collettivo di quella stagione: l’arresto di Charles Oakley al Madison Square Garden l’8 febbraio, forse l’highlight più interessante di quello che è probabilmente il peggiore tra i disastri trattati oggi.