Esattamente 8 anni fa, Kobe Bryant segnava 60 punti nella sua ultima, indimenticabile partita. Il tributo di Dan Woike, Los Angeles Times.

FOTO: LA Times

Questo contenuto è tratto da un articolo di Dan Woike per Los Angeles Times, tradotto in italiano da Alessandro Di Marzo per Around the Game.


“Kobe sta firmando”.


Questa frase circolava rapidamente tra i corridoi dello Staples Center nei momenti che precedevano l’inizio dell’ultima partita NBA di Kobe Bryant. Compagni, staff e addetti si dimenavano per attirare l’attenzione del numero 24, mentre teneva un pennarello in mano. Durante tutto il corso di quella stagione, infatti, Kobe diventò una sorta di “fabbrica di memorabilia”, firmando sneakers per giocatori come LeBron James e Paul George. Per quanto riguarda l’ambiente Lakers, però, c’erano delle differenze: chi lo conosceva da decenni gli aveva chiesto di firmare qualcosa forse due o tre volte in tutta la vita. Non volevano insistere, né mostrarsi troppo inferiori ai suoi occhi.

Ed ecco che arriviamo al 13 aprile 2016. Una buona, vecchia sessione di autografi… all’interno di uno spogliatoio NBA. Chi si trovava lì, avvicinò qualunque cosa avesse in mano. Alcuni membri dello staff furono mandati per conto di altri a comprare un qualunque oggetto, magari una di quelle magliette da 38 dollari disponibili nello store dei Lakers, da far firmare alla leggenda giallo-viola. Con tanto di consegna della carta di credito. Tornare a casa senza almeno un oggetto rivestito da quella grande K, affiancata dalle E e T allungate, era fuori discussione.

Prima della partita c’era “un tripudio di frenesia”, ricorda Mark Madsen, uno degli assistant coach dei Lakers del 2016. “Di norma, nessuno chiedeva un autografo a Kobe. Ma tutti i presenti sapevano che quella sarebbe stata l’ultima occasione per ottenerlo”. Mentre ogni cosa con una superficie piatta veniva portata alle mani di Bryant, nessuno sapeva che quella stessa sera avrebbe preso 50 tiri. E segnato 60 punti. Una prestazione che rispecchia fedelissimamente il giocatore che era. Prima o poi, l’inchiostro lasciato su scarpe e altri oggetti firmati si dissolverà. Cosa che mai potrà riguardare ciò che Bryant ha compiuto durante i suoi ultimi 42 minuti in NBA.

Durante buona parte della sua ventennale carriera, Bryant ha giocato una pallacanestro a un livello che pochi sono riusciti a raggiungere. La sua intenzione prima dell’ultima gara, la numero 1.346, era tuttavia quella di abbassare l’asticella, come spiegato dopo la fine della partita:

“Ciò che desideravo era semplicemente non giocare male”.

Una frase forse bugiarda, anche se quella era stata un’annata pessima non solo per i Los Angeles Lakers (17-65 e ultimo posto ad Ovest), ma anche per lo stesso Kobe, che vide la sua percentuale scendere drasticamente al 35.8% e ben 10 sconfitte nelle 11 partite che precedettero l’ultimo match stagionale.

Coi Playoffs ormai sfuggiti da tempo, Kobe si diresse allo Staples Center sapendo di essere vicino al capolinea. Dopo aver fittiziamente immaginato di dover giocare una partita come tutte le altre, capì che il valore di quella notte sarebbe stato ben diverso dal normale. Niente Playoffs? Bene, allora regalerò una performance epica.

Arrivato all’arena, completamente vestito di nero, strisciò negli spogliatoi con una sfilza di giornalisti pronta a seguirlo passo dopo passo. La volontà era quella di essere il protagonista di un evento degno dei veri Lakers, concetto mai abbracciato durante quella stagione.

Tante star erano consapevoli del valore di quella serata, e lo dimostrarono con la loro presenza: Shaquille O’Neal sedeva a bordo campo; non lontano da lui, l’arbitro Monty McCutchen, voltandosi verso il courtside, poteva incrociare gli sguardi di Adam Levine, Kanye West e Jay-Z.

Prima dell’inizio del match furono trasmessi un paio di video-tributi e Magic Johnson prese la parola davanti ai tifosi, definendo Bryant “il più grande giallo-viola di sempre”. Poi, dopo l’annuncio delle lineup seguito da un boato della folla… Kobe iniziò con uno 0/5 dal campo. Ma, ovviamente, il clima cambiò presto. “Una prestazione che conferisce una grandezza ancora maggiore alla sua legacy”, spiegò Madsen riguardo a ciò che stava per accadere.

Prima della palla a due il GM Mitch Kupchak, in piedi nel tunnel che porta agli spogliatoi, chiese a Clay Moser, al tempo responsabile delle analytics e successivamente assistant coach a 360°, se Kobe potesse segnarne almeno 30. “È sempre Kobe, certo che può”, rispose Moser. Man mano che la partita andava avanti, gli venne riproposta la domanda più volte, aggiungendo 10 ogni volta.

Arrivare a 30 punti era l’obiettivo pensato, un risultato degno di un grande addio e contemporaneamente realistico da raggiungere. I membri dell’organizzazione sapevano che non dovevano aspettarsi troppo. D’altronde, Kobe si era allenato pochissimo durante la stagione. L’affidabilità delle sue gambe rasentava lo zero, e ci volevano ore per prepararsi per le partite. Tutti motivi per i quali 30 punti sarebbero stati un ottimo traguardo. Poi, sono entrati in gioco tanti fattori: l’energia, le emozioni, le figlie lì presenti…

“Ci si poteva anche aspettare che arrivasse a 40 punti. A 50 sono rimasto sorpreso. A 60 ero completamente shockato”.

Jimmy Goldstein

FOTO: For the Times

Bryant ha parlato poi di quella come di un costante pendolo tra l’essere concentrato sulla partita e il rendersi conto di come stavano andando le cose. Probabilmente mentre giocava non lo avrebbe mai realizzato del tutto, ma quel sentimento era condiviso con tutti gli spettatori presenti allo Staples quel 13 aprile 2016.

Allo scorer’s table, il vicepresidente delle NBA communications Tim Frank e il direttore delle pubbliche relazioni dei Lakers John Black non riuscivano a smettere di ridere riguardo a ciò che stava passando davanti ai loro occhi: “Ogni volta che segnava, tutto diventava più divertente… era semplicemente lui”.

In campo, invece, McCutchen cercava di affidarsi alla sua etica per non farsi coinvolgere dall’incredibile situazione che stava vivendo. Aveva ricevuto l’incarico di arbitrare Lakers-Jazz un paio di settimane prima, realizzando solo in seguito che si sarebbe trattato dell’ultima di Bryant.

“Ciò che ricordo maggiormente è la sensazione di volermi sentire credibile agli occhi della Lega, ma anche di essere all’altezza di assistere a ciò che uno dei più influenti giocatori di sempre stava compiendo”.

FOTO: Los Angeles Times

Bryant iniziò a scaldarsi verso la fine del primo quarto, scrollandosi di dosso l’iniziale 0/5 con 15 punti in circa 4 minuti. A fine primo tempo arrivò a 22, vicinissimo all’obiettivo dei 30. Nel terzo quarto, i Lakers si trovavano sotto di 10 quando Kobe raggiunse finalmente i 30 punti. A inizio ultimo quarto, invece, venne raggiunto anche il provvisorio traguardo dei 40 grazie ad una tripla da quasi 8 metri, pur con i Jazz ancora avanti di 12. Un’altra tripla, un mid-range e subito a 45. Mancavano però poco più di 3 minuti, e Los Angeles era ancora sotto di 10. Un momento amaro per Kobe, da sempre ossessionato dalla vittoria. Poi, tutto cambiò.

Bryant è in post medio sul gomito del pitturato, marcato da Gordon Hayward. Si gira rapidamente e fa una finta, sbilanciando la difesa. Attacca il ferro, e segna un reverse layup. Nel possesso successivo, con due liberi segnati, arriva a 50. Un altro layup dopo un minuto e mezzo, Lakers sotto di 6 e Staples che si trasforma in un pandemonio. Julius Randle, suo compagno, sorride. Bryant ansima, il sudore che scorre sul suo volto.

Il finale si stava palesando sempre più prepotentemente. Mid range jumper? Solo rete. Altra tripla da lontano? Solo rete. CINQUANTASEI. +1 Jazz.

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Poco dopo, Kobe ha la palla ed è alla punta dell’arco. Sfrutta un blocco durissimo (quasi sicuramente irregolare) di Randle e si porta sull’ala destra del campo. Jumper da 6 metri… swish. Solo rete, ancora.

Altri due liberi, gli ultimi. 59… e 60 punti raggiunti, assieme alla 17esima ed ultima vittoria stagionale. “Nel finale, in spogliatoio, disse ai compagni che aveva dato tutto in ogni singola partita, senza essersi mai pentito di come abbia giocato o di come abbia detto addio al basket”, disse Byron Scott, allora coach dei Lakers. “Ha incoraggiato i ragazzi a giocare ogni match come fosse l’ultimo. È stato emozionante e sincero; e, soprattutto, ha detto la verità”. “È stato come un sogno” aggiunse poi Scott.

Inizialmente, Kobe non riusciva a togliersi la divisa, e finì per parlare ai media con quella canotta sudata e dorata, simbolo dei 20 anni passati a LA (e degli ultimi attimi da Laker). Poi si portò al centro del campo, lasciando la sua firma sul parquet. Passò del tempo a parlare con chiunque fosse connesso con l’organizzazione Lakers, e posò per molte foto con sua moglie Vanessa e con le sue figlie. Dopo un miracolo del genere, non si fugge – ce lo si gode fino in fondo.

FOTO: Los Angeles Times

Solo la prestazione da 55 punti di Michael Jordan al Madison Square Garden ricorda a McCutchen qualcosa di simile. Durante un viaggio in lunetta, il fischietto si allontanò brevemente dal centro del gioco, si avvicinò a Bryant e gli disse quanto aveva apprezzato il modo in cui si era rapportato con lui nel corso degli anni. “Se non sbaglio, le mie esatte parole furono ‘Whatever got exchanged between you and I was real. And I’m appreciative of that’ ”.

Uno dei tanti momenti memorabili di quella sera. Dai tributi ai 60 punti, dalla celebrazione post-gara allo sfinimento finale. Ogni presente, ripensando a quella notte, sa di aver partecipato a un addio perfetto. Camminando attorno al campo, sommerso di coriandoli, Kobe si girò verso un anziano addetto ai lavori e disse: What did I just do?”.

Per un’ultima volta da giocatore, Bryant aveva fatto la storia. In modo quasi troppo bello per essere vero.