Storie di incomunicabilità tra oceani.

FOTO: JohnWallStreet
Intro
Il basket è universale, ma il successo non lo è. Ogni anno, alcuni dei migliori talenti europei attraversano l’Atlantico con la promessa di lasciare il segno in NBA. Eppure, per molti di loro, quel sogno si trasforma rapidamente in un bagno di umiltà: un gioco più fisico, una cultura sportiva diversa, aspettative schiaccianti. Alcuni trovano il loro spazio; altri, come meteore, bruciano in fretta per poi scomparire dal firmamento. Questa non è una semplice lista di “bust”, come li chiamano oltreoceano. È una raccolta di 10 storie + 1: racconti di genio e frustrazione, di adattamento e nostalgia. Non ha alcuna pretesa di essere esaustiva; si tratta piuttosto di una selezione del tutto personale, una questione di gusto e prospettiva. Perché a volte, anche il talento più puro può trovarsi “lost in transition”. La prima parte la trovate QUI, mentre di seguito ecco gli altri 5+1 nomi.
6. Sasha Vezenkov: da MVP a Most Valuable Panchinaro.
Nel 2023, Sasha Vezenkov era in cima al mondo del basket europeo. Con l’Olympiakos, aveva appena conquistato il titolo di MVP dell’EuroLeague, trascinando la squadra fino alla finale con una media di 17.6 punti a partita. Elegante nei movimenti, implacabile al tiro e intelligente nella lettura del gioco, il bulgaro era il giocatore che ogni allenatore vorrebbe avere. Qualche mese dopo il trionfo i Sacramento Kings, che ne detengono i diritti, se lo portano nella capitale californiana sicuri di avere un asso nella manica: un talento polivalente pronto a lasciare il segno.

Ma il basket americano si dimostra meno accogliente del previsto. In un sistema di gioco incentrato su ritmo frenetico e atletismo, le qualità di Vezenkov – il movimento senza palla, la capacità di interpretare il gioco e un tiro mortifero – vengono spesso oscurate dalla fisicità e da una scarsa mobilità laterale. Nonostante alcune buone prove dalla distanza (38.5% da tre punti), il suo ruolo nei Kings si riduce rapidamente a quello di comprimario: 15 minuti di media a partita, 6 punti e 2 rimbalzi. Per un giocatore abituato a essere il faro della propria squadra, una lezione dura ma istruttiva.
«Sono contento di averci provato perché lo dovevo a me stesso. Volevo confrontarmi con i migliori, perché è molto diverso dal guardarli in TV. Mi hanno sorpreso per talento e intensità. Ero uno di quelli che diceva: “Non difendono per niente, non sono così o cosà.” Ma è un falso mito: sono i migliori al mondo, senza dubbio.»
Intervista rilasciata al canale YouTube Amerikanos24.
Dopo quest’unico anno in NBA, Sasha è tornato all’Olympiakos, dove si sta riappropriando del ruolo di protagonista che aveva lasciato in sospeso. Per le difese di EuroLeague è tornato a essere un rebus irrisolvibile, come hanno già potuto constatare anche formazioni del calibro di Olimpia Milano e Virtus Bologna. Le sue qualità, perfettamente calibrate per il basket europeo, lo hanno di nuovo reso una pedina fondamentale nel panorama internazionale.
Magari per alcuni, Vezenkov sarà sempre l’MVP di Eurolega che ha fallito negli States. Siamo però sicuri che per lui il successo non si misuri in minuti giocati o punti segnati in NBA: piuttosto, nella capacità di adattarsi, crescere e continuare a scrivere la propria storia. Una tripla alla volta.
7. Efthimios Rentzias: The Greek Chic.
Efthimios Rentzias era considerato uno dei lunghi più promettenti della sua generazione. Nei primi anni Duemila, chiunque seguisse il basket europeo non poteva non conoscere questo lungo greco in grado di dominare l’area con grande eleganza nonostante una stazza di 211 centimetri per 120 chili. Nato a Trikala, Grecia, Rentzias si fece presto notare per la sua combinazione di potenza fisica e abilità tecnica. A soli 19 anni, aveva già vinto un’EuroLeague con il Panathinaikos (1996), consolidando il suo status di giovane prodigio. Da lì, la sua carriera decollò: anni di successo al PAOK e al Barcellona, dove divenne uno dei pilastri della squadra.
Ma come molti dei migliori talenti europei, Rentzias decise di tentare la sorte in NBA, attratto dall’opportunità di competere al livello più alto. Nel 2002, firmò con i Philadelphia 76ers, una squadra che, con Allen Iverson come stella, cercava di rimanere competitiva nell’Est. Tuttavia, il passaggio al basket americano si rivelò più complicato del previsto.
In NBA, Rentzias lottò per trovare il suo spazio. Il suo gioco, che in Europa era un mix di tecnica e intelligenza tattica, faticava a adattarsi alla velocità e alla fisicità della lega americana. Nonostante il suo impegno, i numeri furono modesti: una media di 1,5 punti e 1,1 rimbalzi in 35 partite. Più che un protagonista, Rentzias divenne una figura di contorno, relegato ai margini di un sistema che sembrava non riuscire a valorizzarlo.

Ma dove l’NBA vedeva solo un onesto role player, l’Europa riconosceva un leader. Dopo un solo anno negli Stati Uniti, Rentzias tornò al Barcellona, dove continuò a lasciare il segno. Nel Vecchio Continente, il suo gioco tornò a risplendere, e il suo contributo a squadre di alto livello rimase significativo. Non era solo un lungo solido, ma un uomo squadra capace di elevare il livello dei compagni con la sua esperienza e intelligenza cestistica.
In America, fu giusto una comparsa; in Europa, il simbolo di ciò che il basket può offrire quando talento e ambiente si fondono in un connubio perfetto.
8. Miloš Teodosic: Son of Anarchy.
Quando Miloš Teodosic firmò con i Los Angeles Clippers, il mondo del basket era diviso in due fazioni: da un lato, chi non vedeva l’ora di esultare per gli assist spettacolari e i no-look pass che promettevano di riempire il palinsesto di NBA Action; dall’altro, chi rimaneva scettico. Con il CSKA Mosca, aveva dominato l’EuroLeague, vincendo il titolo nel 2016 e collezionando premi personali, tra cui quello di MVP della competizione nel 2010. Nel 2017, dopo anni di successi in Europa, Teodosić decise di accettare la sfida più grande della sua carriera. I Los Angeles Clippers lo accolsero come un veterano capace di dare ordine e creatività a una squadra in transizione. Per i fan e gli addetti ai lavori, era l’occasione di vedere uno dei cervelli più raffinati del basket mondiale misurarsi con la lega più competitiva del pianeta.
Ma il passaggio all’NBA non fu semplice. Nonostante alcune prestazioni notevoli, Teodosić faticò a trovare continuità. I problemi fisici, in particolare agli arti inferiori, limitarono le sue apparizioni e il suo impatto sul campo. Le sue qualità tecniche erano evidenti: passaggi millimetrici, tiri da tre spettacolari e un’intelligenza cestistica che gli permetteva di leggere le difese con una rapidità unica. Tuttavia, in una lega dove la velocità e la fisicità sono prioritarie, il suo stile elegante e ragionato non trovò il giusto spazio.
In due stagioni con i Clippers, Teodosić giocò 60 partite, con una media di 8 punti e 4 assist. Numeri dignitosi, ma lontani da ciò che molti si aspettavano da un talento del suo calibro. Nel 2019, con un misto di delusione e sollievo, decise di tornare in Europa, il suo habitat cetistico naturale.

E fu lì che la magia di Teodosić tornò a incantare. Con la Virtus Bologna, si rimise al centro della scena, guidando la squadra a un livello di eccellenza e conquistando lo scudetto nel 2021e l’EuroCup nel 2022. Ancora una volta, il basket europeo dimostrava di essere la tela perfetta per il suo stile artistico. Le sue giocate straordinarie e il suo carisma fecero innamorare i tifosi italiani, mentre il suo ruolo di leader lo confermava come uno dei grandi playmaker della storia recente.
Miloš Teodosić non è mai stato un giocatore per tutti i palchi, e questo lo rende ancora più speciale. Ogni assist, ogni tiro impossibile, è un promemoria che il suo basket è caos organizzato. Oggi è alla Stella Rossa e, nonostante qualche anno in più, continua a dimostrare che con tutto quel talento è ancora in grado di dare del filo da torcere a Padre Tempo.
9. Juan Carlos Navarro: La Bomba disinnescata.
Juan Carlos Navarro, conosciuto affettuosamente come “La Bomba”, è stato uno dei giocatori più devastanti e amati del basket europeo. Cresciuto nel settore giovanile del Barcellona, Navarro si affermò presto come una leggenda, grazie al suo tiro micidiale, al suo coraggio e alla sua straordinaria capacità di fare la differenza nei momenti chiave. Per oltre due decenni, è stato il simbolo di una squadra e di una nazione, incarnando l’eleganza e la determinazione del basket spagnolo.
Nel 2007, dopo aver vinto tutto in Europa – tra cui due EuroLeague con il Barcellona – Navarro decise di affrontare la sfida più grande della sua carriera: l’NBA. Firmò con i Memphis Grizzlies, determinato a dimostrare che il suo talento poteva brillare anche sul palcoscenico più grande del mondo. E, almeno inizialmente, sembrava che ci fosse riuscito.
Nella sua unica stagione a Memphis, Navarro si fece notare per il suo tiro da tre, mettendo a segno 156 triple, un record per un rookie che rimase imbattuto per anni. La sua media di 10,9 punti a partita era più che rispettabile, e il suo stile di gioco – imprevedibile, audace, spettacolare – conquistò molti tifosi. Tuttavia, in un sistema che spesso privilegia l’atletismo e le giocate spettacolari, Navarro faticò a trovare il ruolo da protagonista che aveva in Europa.

Dopo una sola stagione, La Bomba decise che era tempo di tornare a casa. Memphis era stata una tappa importante, ma il suo cuore apparteneva al Barcellona. Il suo ritorno fu celebrato come quello di un eroe, e Navarro continuò a costruire la sua legacy. Negli anni successivi, guidò il Barcellona a nuovi successi, aggiungendo un’altra EuroLeague al suo palmarès nel 2010 e diventando il miglior marcatore di sempre della competizione.
Con la nazionale spagnola, Navarro raggiunse vette ancora più alte. Fu uno dei pilastri della squadra che vinse due titoli europei (2009, 2011) e un Mondiale (2006), oltre a conquistare due argenti olimpici (2008, 2012). La sua leadership, il suo spirito combattivo e il suo talento unico lo resero una figura insostituibile nella generazione d’oro del basket spagnolo.
La storia di Juan Carlos Navarro è quella di un giocatore che ha sempre saputo quale fosse il suo posto nel mondo. E se l’NBA ha ricevuto solo un assaggio del suo genio, al contrario in Europa, La Bomba è stata molto più di un giocatore: un’istituzione, simbolo di eccellenza e fedeltà.
10. Vasillis Spanoulis: Il rimpianto d’America.
Vassilis Spanoulis non era solo un giocatore; era un leader, un trascinatore, un fuoriclasse capace di dominare con la sua volontà e il suo talento. In Europa, il suo nome è sinonimo di Clutch Time. Le sue imprese con l’Olympiakos e il Panathinaikos lo hanno consacrato come uno dei più grandi giocatori nella storia del basket continentale. Ma, come per molti geni del parquet europeo, il suo breve capitolo NBA ha sollevato più domande che risposte.
Nato a Larissa, in Grecia, Spanoulis iniziò a costruire la sua leggenda con il Panathinaikos, dove mostrò subito un mix di eleganza e tenacia che lo rendevano unico. Il suo gioco era una combinazione perfetta di intelligenza tattica, abilità nel tiro e capacità di guidare i compagni nei momenti cruciali. Nel 2006, dopo aver conquistato il titolo greco ed essersi affermato come uno dei giovani talenti più promettenti d’Europa, Spanoulis decise di tentare la sorte in NBA, firmando con gli Houston Rockets.
In America, però, la storia non andò secondo i piani. Inserito in una squadra che ruotava intorno alle stelle Yao Ming e Tracy McGrady, Spanoulis trovò poco spazio. Jeff Van Gundy, allora allenatore dei Rockets, faticò a integrarlo in un sistema che privilegiava il controllo rigido sugli schemi e il gioco individuale delle sue superstar. Nonostante alcuni lampi di talento – come i 13 punti segnati contro i Los Angeles Lakers in una delle sue rare occasioni con minuti consistenti – Spanoulis chiuse la stagione con una media di 2,7 punti e una sensazione di incompiutezza.

Dopo un solo anno, Spanoulis prese una decisione coraggiosa: lasciare l’NBA per tornare in Grecia. Fu una scelta che, col senno di poi, definì la sua carriera. Con l’Olympiakos, Spanoulis raggiunse vette straordinarie, guidando la squadra a tre titoli di EuroLeague (2009, 2012, 2013) e vincendo il premio di MVP delle Final Four in tutte e tre le occasioni. Le sue giocate nei momenti decisivi – come la tripla contro il CSKA Mosca nelle semifinali del 2012 – divennero parte della mitologia del basket europeo.
Con la nazionale greca, Spanoulis fu altrettanto leggendario, contribuendo alla storica vittoria contro gli Stati Uniti nel Mondiale 2006 e al titolo europeo del 2005. Il suo carisma e la sua capacità di fare la differenza sotto pressione lo resero uno dei giocatori più temuti e rispettati del panorama internazionale.
La storia di Vassilis Spanoulis è monito sull’importanza del tempismo. Negli Stati Uniti, il suo talento non ha avuto il tempo o lo spazio per emergere. In Europa, invece, ha scritto una delle più grandi carriere che il basket abbia mai conosciuto. Il suo nome rimarrà per sempre legato al concetto di grandezza, un esempio di cosa significa essere un leader vincente anche senza i riflettori dell’NBA.
Bonus Track. Vincenzo Esposito: Scugnizzo per sempre.
Prima di Danilo Gallinari e Marco Belinelli, c’era Vincenzo Esposito. Un pioniere, un giocatore che ha attraversato l’oceano quando il basket italiano e quello americano sembravano due mondi distanti un paio di galassie. Per molti, il nome di Esposito evoca il sapore nostalgico di un’epoca in cui il talento europeo doveva lottare per farsi notare, ma la sua carriera è molto più di una semplice curiosità statistica: è la storia di un giocatore che si è continuamente messo in discussione alzando, di volta in volta, l’asticella. Anche a costo di farsi male.
Cresciuto cestisticamente a Caserta, Esposito si fece conoscere come uno dei migliori marcatori della Serie A. Con la maglia della JuveCaserta, fu un protagonista assoluto dello storico scudetto del 1991, il primo e unico nella storia del club campano. Il suo stile di gioco, fatto di velocità, estro e una mano infallibile al tiro, lo rese rapidamente uno dei giocatori più amati e rispettati in Italia. Le sue prestazioni gli valsero la chiamata in NBA: nel maggio 1995, i neonati Toronto Raptors gli offrirono un contratto, rendendolo il primo giocatore mai messo sotto contratto dalla squadra canadese (anticipando di un mese il draft di espansione e il draft NBA). Ma l’avventura oltreoceano fu breve e complessa. In un sistema che prediligeva l’atletismo e la fisicità, Esposito faticò a trovare spazio.
«Avrei potuto debuttare alla prima partita di regular season ma mi dissero che ero… infortunato.»
Enzo Esposito, intervista rilasciata al quotidiano ‘Il Giornale’.
In soldoni, i Raptors finsero un infortunio di Esposito per far posto in rosa ad un altro giocatore. Era una Nba non ancora globalizzata, e c’era diffidenza. In 30 partite con i Raptors, El Diablo chiuse con una media di 3,9 punti a partita, mostrando solo a tratti il talento che lo aveva reso un idolo in Italia. Eppure, tra quei 30 incontri, non mancò una serata magica: 18 punti in una sconfitta contro i Knicks al Madison Square Garden.
Il ritorno in Italia segnò l’inizio della sua rinascita. Esposito tornò a dominare sui parquet di casa, diventando uno dei migliori realizzatori del campionato italiano. A Pesaro, a Reggio Calabria e in altre piazze storiche, confermò il suo status di giocatore d’élite. La sua capacità di segnare in ogni modo possibile – tiri da tre, penetrazioni, giocate acrobatiche – gli permise di entrare nel cuore di migliaia di tifosi.

Dopo il ritiro, Esposito ha continuato a lasciare il segno nel mondo del basket come allenatore, guidando squadre di Serie A e contribuendo alla crescita di giovani talenti. Il suo spirito combattivo e la sua passione per il gioco rimangono un punto di riferimento per molti.
La storia di Vincenzo Esposito è quella di un precursore, un uomo che ha osato sognare in grande e ha aperto la strada a generazioni future. L’NBA non è stata il palcoscenico che lo ha consacrato, ma il suo nome rimarrà per sempre nella storia come il primo italiano, assieme a Stefano Rusconi, a calcare i parquet americani.
Outro
In fondo, il basket non ha mai conosciuto confini. Le esperienze di questi giocatori non rappresentano solo un confronto tra Europa e NBA, ma un potente promemoria: ogni atleta porta con sé il peso di aspettative, sogni e sacrifici. Oggi, non è più un incontro tra due mondi separati, ma una fusione dinamica che arricchisce entrambi. E se alcune carriere non raggiungono le vette più alte, ogni tentativo lascia un’impronta indelebile, ricordandoci che il basket, proprio come la vita, è una costante ricerca di equilibrio.