Enes Kanter e Luol Deng, due rifugiati al servizio del proprio popolo: quando il privilegio di giocare nella NBA dà voce a chi non ce l’ha.
EK – Tonfi sordi squarciano il silenzio della notte. Qualcuno sta bussando energicamente, e l’ora tarda contribuisce al senso di gravità della scena.
“Enes! Enes!”
Una voce ovattata bisbiglia da dietro la porta.
“Enes! La polizia ti sta cercando. Dobbiamo andare.”
LD – Un silenzio sospirato segue la domanda della giornalista del Los Angeles Times. Lo sguardo fiero per un attimo si posa su di lei, così empatica nel tentativo di decifrare e comprendere il tumulto emotivo che scatena l’argomento appena sollevato.
“Cosa significa essere un rifugiato?”
Giocare nella NBA è il sogno di molti e una realtà per alcuni.
È un prestigioso onore frutto di anni di sacrifici e scelte, che talvolta non hanno interessato il solo lato tecnico, ma anche e soprattutto quello umano.
Sono le storie di chi la interpreta che rendono la National Basketball Association un autentico portento di risonanza mediatica e influenza sociale. Capita che tra queste vi siano storie di uomini costretti a fuggire lontano dalla propria patria e affetti. Vite segnate dall’oppressione, dall’intolleranza, dalla guerra.
Queste vite sono accompagnate dal coraggio e dal privilegio di poter far sentire la propria voce.
Amplificata al massimo dal far parte della lega più affascinante del mondo.
“IO SONO UN GIOCATORE NBA. PER QUESTO POSSO PARLARE.”
La macchina si era lanciata sulla strada per l’aeroporto a perdifiato, squarciando rombante la fitta coltre di buio e di angoscia. Prendere quell’aereo era diventata questione vitale: significava varcare la linea di confine tra reclusione e libertà.
In un pomeriggio di maggio, il telefono della polizia indonesiana era squillato insistentemente: dall’altro capo della cornetta le autorità turche avevano chiesto spiegazioni sul perché si stesse ospitando un “persona pericolosa” per il governo di Ankara, aggiungendo di fare chiarezza in merito alla questione quanto prima. Questo aveva spinto gli agenti sino al campo dove era in corso un clinic per bambini tenuto dalla Enes Kanter Light Foundation, a chiedere di lui: dovevano “parlargli”.
Quando l’aereo si staccò dall’asfalto per lasciarsi avvolgere dalle prime luci dell’alba, Kanter tirò un sospiro di sollievo: una volta raggiunta Bucarest sarebbe stato atteso da un biglietto di sola andata per quella che si era ritrovato a dover chiamare “casa”: gli Stati Uniti d’America.
Invece, una volta in Romania, non c’era nessun aereo ad attenderlo. Soltanto una carta che comunicava che il suo passaporto era stato ufficialmente cancellato. D’un tratto non aveva più una patria.
Era sfuggito dall’Indonesia. Ma non era sfuggito ad Erdoğan.
“Voglio che sappiate perché il governo Turco mi considera una “persona pericolosa”: […] non ho mai infranto nessuna legge, nessun eccesso di velocità. Nulla di nulla. Ma sono pericoloso. Perché?
Dal fallimento del colpo di stato lo scorso anno, Erdoğan ha trasformato il governo in una dittatura. Chiunque gli vada contro o dica qualcosa in contrasto con il suo operato entra nel mirino.
[…]
Io parlo delle cose in cui credo. L’ho sempre fatto. Condivido i miei pensieri su Twitter e Facebook riguardo alle cose orribili che stanno accadendo alla gente in Turchia. Voglio che il mondo intero sappia degli abusi che si perpetrano quotidianamente.
Agli occhi di Erdoğan questo mi rende una persona pericolosa.”
Lasciar scorrere le parole, le emozioni che emergono dalla lunga lettera scritta per The Player’s Tribune dal centro dei New York Knicks è un atto di empatia; è tangibile manifestazione di sensibilità, di non voler chiudere gli occhi di fronte ad eventi moralmente difficili da ignorare. Perché sono quelle stesse parole e la libertà che si portano appresso ad essere motivo della sua vessazione.
Nel luglio del 2016 le forze armate turche tentarono un golpe militare per rovesciare il governo. Ispiratore della sommossa, secondo il presidente, fu Fethullah Gülen, predicatore e politologo turco e leader dell’opposizione ad Erdoğan; pur essendo stato un suo stretto alleato, nel 2013 Gülen scoprì la fitta rete di corruzione dietro la figura del presidente e la denunciò al popolo turco. La sua scelta morale gli comportò un’accusa di Terrorismo e la fuga negli Stati Uniti.
Al fallito golpe, le maglie della giustizia turca si strinsero indiscriminatamente contro chiunque fosse in disaccordo col regime, generando un’ondata di arresti e reclusioni spesse volte senza valide motivazioni giuridiche. Se non quella di aver espresso il proprio pensiero di opposizione in libertà.
Bastò un Tweet. Un’opinione descritta da nove caratteri. Kanter in un sospiro si ritrovò ad essere apolide. Il 9 agosto del 2016, appoggiò pubblicamente con un cinguettìo il predicatore e le sue idee.
Nove caratteri che gli costarono patria, affetti famigliari (il padre fu costretto a diseredarlo a mezzo stampa per la propria incolumità… non scampando comunque all’arresto), amici e minacce di morte.
Il prezzo della libertà di espressione in un Paese nel quale il potere delle idee e delle parole in controcorrente è soffocato senza riserve.
Eppure l’amore per la propria terra e il proprio popolo non riesce a venire meno. Non può venire meno.
“Provate solo a pensarci: se il governo Erdoğan tratta così un giocatore della NBA, come sarà per tutti gli altri?”.
Giocare nella NBA. Un sogno sportivo che diventa un privilegio politico: la possibilità di vedersi offerto un nuovo luogo da chiamare “Casa”, delle nuove persone da poter definire “Famiglia”, pronte ad accorrere in sostegno come fecero con Kanter i suoi compagni Westbrook e Collison. Senza dimenticare la propria gente. Denunciando i soprusi con fermezza, incapace di cedere di un passo di fronte alle ritorsioni. Anche a costo dell’esilio, di non poter chiamare la propria madre per non mettere a repentaglio la sua vita.
Per aver dissentito e denunciato l’”Hitler del nostro secolo”.
Tutto questo in un paese che da anni richiede la propria entrata ufficiale in Europa.
C’è qualcosa di estremamente umano nel sentimento che spinge Enes Kanter a farsi paladino dei diritti del suo popolo: la fratellanza. Il desiderio di contare, di fare la cosa giusta per se stesso e per la propria terra. Sommare la propria voce, amplificata dal lucente status di personaggio pubblico, a quella soffusa di altre migliaia di innocenti loro malgrado relegati nell’ombra. Anonimi cittadini turchi reclusi e privati della propria libertà.
Per aver protestato. Per aver urlato ad un tiranno che non avrebbero mai rinunciato al diritto di essere se stessi. Al diritto di valere quanto essere pensanti.
“La libertà non è gratuita”.
E, nonostante il dolore emotivo portato dalle ritorsioni, andare avanti nella lotta. Proseguire indomito senza cedere di fronte ai tentativi di soffocare la sua voce. Grazie anche alla preziosa vicinanza di personaggi di indubbia influenza come i compagni e lo staff di una delle franchigie NBA più conosciute ed amate nel mondo.
Perché “Io sono un giocatore NBA. Per questo posso parlare”.
IL DIRITTO DI CONTARE
Il silenzio era servito per raccogliere le idee. Una domanda del genere, per quanto già proposta in passato, non avrebbe potuto che sollevare un tumulto emotivo dentro di lui. Insomma, era la sua vita. Con il peso del bagaglio emotivo che si portava appresso.
Luol Deng schiarì la voce, ed iniziò.
“Nessuno di noi ha mai chiesto di lasciare la propria casa, e molte di queste persone passano attraverso esperienze che evadono dal loro controllo. Vedere una luce in fondo al tunnel, dirigersi verso di essa e poi vederla spegnere è molto difficile, non solo dal punto di vista individuale ma anche per la propria famiglia.
Ricordo quando ero un bambino ed ero rifugiato in Egitto. Ogni giorno c’era la speranza di andare altrove, da qualche parte. Non importava dove, bastava che ci fosse data l’opportunità di fare qualcosa, di creare qualcosa. Questa opportunità è arrivata cinque anni dopo. Ora sono grato di essere cresciuto in Egitto: ho imparato molto. Ma allo stesso tempo, conosco quella sensazione: l’attesa di ricevere una nuova opportunità.”
Nell’aprile del 1985 il Sud Sudan era lacerato da quella che gli storici chiamano Seconda Guerra Civile Sud Sudanese. Un appellativo formale che gronda del sangue dei quasi due milioni di vittime, oltre alle lacrime dei quattro milioni di profughi costretti ad abbandonare il caldo abbraccio della propria terra per fuggire ad un conflitto che non risparmiava nemmeno donne e bambini.
Luol Deng nacque in un mondo in conflitto per motivi religiosi (il Nord musulmano combatteva contro il Sud cattolico per il predominio territoriale nel Paese) e, soprattutto, economici; la terra del Sudan meridionale era imbevuta di due generi di prima necessità nell’Africa: acqua e petrolio. L’oro nero doveva essere un bene per pochi.
Ultimo di nove figli (per lui numero simbolico, tanto da spingerlo ad usarlo sulle proprie spalle una volta divenuto professionista), suo padre Aldo era Ministro dei Trasporti, membro di spicco nel Parlamento sudanese.
Una professione scomoda, carica di oneri e di pericoli in un paese in tumulto. Preoccupato dal caos e dalla brutalità di un conflitto dilagante che si trascinava ormai da anni, Aldo prese una decisione sofferta: quella di mandare la famiglia in Egitto. Era il 1988. Un anno dopo, Aldo Deng sarebbe stato arrestato.
Fu Manute Bol, suo compatriota e celebre centro dei Washington Bullets, a fungere da tramite tra la leggera spensieratezza del messaggio portato dalla Palla e il travaglio emotivo di Deng.
Una delle meraviglie dei popoli africani è la grande solidarietà che pervade il loro carattere. Qualità propria di chi ha conosciuto fin troppo da vicino il significato vero della sofferenza, in epoche prima di schiavitù e poi di colonialismo spietato. Ultimata la sua carriera, Bol fece ritorno in patria e si prodigò in opere benefiche grazie all’ingente patrimonio guadagnato oltre oceano.
In uno dei Campus organizzati dall’ex stella NBA in Egitto, Luol mosse i primi passi verso la propria luce.
Luce che sarebbe diventata addirittura abbagliante nel 1993, grazie ad un vero e proprio asilo politico.
“Guardo all’Inghilterra come colei che ha salvato la mia vita e quella della mia famiglia”.
Aldo, rilasciato dall’autorità sudanesi, aveva intrecciato rapporti diplomatici con Londra, ottenendo il lasciapassare per una cittadinanza inglese.
Una nuova vita. Lontano dalle atrocità di un’esistenza senza futuro. La famiglia Deng aveva ricevuto la sua nuova opportunità.
La giornalista del Times lo ascoltò in religioso silenzio: non aveva avuto il piacere di aver declinati tutti gli aspetti emotivi della questione, anche e soprattutto perché talvolta le emozioni non sono traducibili. Tuttavia percepiva quella risposta come affascinante e diretta al contempo. Ed era quello che cercava, soprattutto per un fatto di arricchimento personale.
Era necessario creare l’atmosfera propedeutica alla vera domanda: cosa pensa una stella africana della lega più globale che esista, emblema dei Rifugiati e paladino della fratellanza tra popoli, di un ordine esecutivo profondamente discriminatorio come il Travel Ban recentemente varato dal controverso neo eletto presidente Donald Trump?
Sostanzialmente un bando che annunciava ai cittadini dei sette principali paesi musulmani (tra cui il Sudan) di non essere ospiti graditi negli Stati Uniti d’America. Per “proteggere i cittadini americani da potenziali terroristi”. Questo significa frontiere chiuse ed espulsioni, con tutto quel che ne consegue.
Ciò che colpisce magneticamente della personalità di Luol Deng è, oltre all’estrema riflessione e pacatezza nel modo di porsi, la capacità di comunicazione del suo sguardo. Apparentemente privo di qualsiasi emozione, è in realtà lo specchio del suo cuore. Per questo, i suoi occhi non si caricarono di odio, ma di preoccupazione e angoscia.
“L’esperienza da rifugiato mi ha insegnato una cosa fondamentale: che bisogna conoscere, e non solo credere per sentito dire. Nel senso, non mi pare di aver visto molti rifugiati compiere attentati terroristici in questo paese.
Quindi, se davvero si vuole comprendere profondamente una questione, bisogna indagare i fatti e distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è.
Comprendo pienamente che vi sia paura e diffidenza: se qualcuno mi raccontasse una storia e fosse la mia unica versione dei fatti, probabilmente sarei portato a credervi e a reagire di conseguenza.
Onestamente non so quale sia la soluzione. Tuttavia credo che molte persone supportino questo decreto per ciò che hanno sentito dire, prendendolo per vero.”
Andare oltre le apparenze. Non lasciarsi bloccare dalla coltre nebulosa della superficialità e non rinunciare al sentimento più umano che esista: la compassione.
La parola “compassione”, nel suo significato più profondo, ha un’accezione paritaria che si distanzia da quella “distaccata” tipicamente occidentale. “Compassione” significa “soffrire con qualcuno”, e nella sua sfumatura più positiva contribuisce a creare un legame stretto tra gli uomini.
La voce di Deng è ferma: conoscere e comprendere il dolore di colui che sembra all’apparenza diverso è la base granitica su cui fondare la propria compassione. Coltivando la fratellanza e il rispetto.
La conoscenza non deve essere mediata da terzi, ma diretta e onesta.
È un messaggio di unione, cui prestare ascolto attentamente e da non sottovalutare.
Perché proviene da chi ha conosciuto entrambi i lati della medaglia: l’angoscia della fuga e la stabilità di una vita agiata.
FAR VINCERE LA LUCE
La multietnicità della NBA è meravigliosa al contempo sia dal punto di vista tecnico che umano. Differenti culture cestistiche si incontrano nella loro massima espressione su un rettangolo da gioco, pronte a stupire i presenti.
Tuttavia, l’enorme hype che questa lega di artisti porta con sé diviene ancor più rilevante quando si intreccia con l’attualità del pensiero politico.
Kanter e Deng sono due fari, due esempi per chiunque vi entri in contatto ed abbia il cuore e le orecchie per ascoltare le loro storie.
La loro rilevanza sta nel comprendere fino in fondo il potere esponenziale del loro privilegio: siamo giocatori NBA conosciuti in tutto il globo, ma siamo anche e soprattutto uomini. Con un vissuto complesso e l’esigenza di raccontarlo, di essere la voce sonante anche di altri fratelli vessati nelle medesime condizioni.
Nella loro ottica è un dovere morale preoccuparsi dei propri connazionali e spendere se stessi per le proprie convinzioni. Soprattutto se queste ultime sono fondate su principi di libertà di autodeterminarsi e sull’orgoglio della propria origine. Della propria terra.
Enes Kanter non fa ritorno in Turchia ormai da circa due anni. Luol Deng si può dire che il Sudan quasi non lo abbia mai vissuto. Entrambi hanno imparato a chiamare “Casa” un paese che non era la loro terra natìa, apprezzandone l’accoglienza ma soprattutto la grande opportunità: quello di dare animo alle loro voci, di permettere loro di raccontare le proprie storie raggiungendo un numero altissimo di persone grazie alla dirompente visibilità del loro status.
Per essere portavoci, esempi ed ispiratori.
Guide per le nuove generazioni, che possono già guardare in Thon Maker un esempio di questo spirito di abnegazione. Anch’egli sudanese come Deng. Anch’egli profugo della nuova ondata di violenze che hanno martoriato il Sudan sul finire degli anni ’90. Anch’egli rifugiato in Australia.
Dicono che l’astro nascente dei Bucks viva di una positività e di un ottimismo ai limiti dell’incredibile. A ciò lui risponde in modo molto conciso: “Valorizzo ogni singolo giorno ciò che la vita mi ha donato. Per poter essere il migliore uomo e giocatore possibile.”
Kanter e Deng devono molto al loro talento.
Il loro spessore umano è stato quello di non fermarsi ad esso, ma di utilizzarlo come strumento per eccellere non solo come giocatori ma anche e soprattutto come uomini.
Diffondendo il messaggio della tolleranza e del rispetto (grazie anche alle loro fondazioni benefiche) per insegnare cosa significhi valorizzare e proteggere la propria libertà.
E soprattutto non smettere di lottare per raggiungere e far vincere la propria luce.
Affinché la luce di uno possa essere faro per molti.
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