In questo viaggio nel tempo, torniamo a Gara 6 delle Eastern Conference Finals del 2012, Heat contro Celtics. Quando il Re si è definitivamente preso il suo Trono.

Questo contenuto è tratto da un articolo di Justin Tisley per Andscape, tradotto in italiano da Marco Cavalletti per Around the Game.
LeBron James, allora MVP della Lega in carica, si trovava a un passo dall’infamia. Era il 7 giugno 2012.
Il nativo di Akron era seduto nello spogliatoio degli ospiti del TD Garden, probabilmente a leggere “Mockingjay” di Suzanne Collins, ultimo libro della serie di “Hunger Games”. Poi si è sottoposto alla seduta di allungamento con i trainer dei Miami Heat. Il pomeriggio diventava sera. Era giunta l’ora di Gara 6 delle Eastern Conference Finals, e tutti gli occhi del mondo dello sport erano puntati su James. Nessun atleta aveva mai avuto sulle spalle una tale pressione per vincere un titolo, figurarsi una singola partita.
48 ore prima, James aveva giocato Gara 5. Con i Celtics in vantaggio per 87-86, Paul Pierce, con meno di un minuto sul cronometro, aveva segnato una tripla proprio in faccia a LeBron. Quel tiro aveva aiutato a portare i Celtics in vantaggio per 3-2 nella serie. E soprattutto sembrava il preludio di una storia già vista: Boston che pone la parola fine ad un’altra stagione di King James. Dopo il tiro che aveva ucciso la partita, Pierce, pervaso da tutta la fiducia del mondo, era tornato in difesa affermando: “I’m cold-blooded! I’m cold-blooded!”
Nonostante i suoi 30 punti e 13 rimbalzi, James non era riuscito a lasciare il segno negli ultimi minuti di G5. Dopo averlo visto segnare un solo canestro negli ultimi otto minuti, i critici si sono subito gettati alla carica, sostenendo che a James mancasse il killer instinct, e che il nativo di Akron non avrebbe mai vinto nulla.
LeBron non proferiva parola da dopo la sconfitta. Silenzio con i coach, silenzio con i compagni. Silenzio, apparentemente, con tutti. L’allora assistente allenatore degli Heat, David Fizdale, comprendeva il silenzio di James e gli ha lasciato il suo spazio, e così ha fatto l’intera organizzazione.
“Non l’ha fatto perché voleva essere scorbutico. Ma si capiva benissimo: quando abbiamo perso Gara 5, non ci avrebbe mai permesso di perdere quella serie.”
All’esterno, però, le uniche voci che giravano prima di Gara 6 raccontavano altro.
“James si trova sull’orlo della più grande vergogna sportiva professionale dell’era moderna. Si è crogiolato nella fama portata dal nome di ‘King James’, il soprannome più riconoscibile nel mondo dello sport. Gli è mancato il killer instinct dei Michael Jordan e dei Kobe Bryant. Come può LeBron essere il miglior giocatore del mondo senza un palmarès minimamente paragonabile?”
Non era così che l’esperimento Miami Heat si sarebbe dovuto concludere…
Non si sarebbe dovuto concludere, il primo anno, con la devastante sconfitta per mano di Dirk Nowitzki e dei Dallas Mavericks. Nel 2011, nelle sue seconde Finals in carriera, James aveva segnato solo 8 punti in Gara 4, e aveva faticato a tenere testa a JJ Barea, un uomo che, a confronto di James, era delle dimensioni di un pupazzo da ventriloquo. Alcuni dicevano che di LeBron fosse a rischio perfino il potenziale di marketing.
E di sicuro il secondo anno non sarebbe dovuto finire sotto virtualmente le stesse circostanze che avevano decretato la fine della stagione 2010 del LeBron di Cleveland. Quell’anno, il Re aveva subito una disastrosa sconfitta in casa in Gara 5, seguita da un’altra sconfitta (che avrebbe concluso la stagione di James e cambiato l’intero panorama NBA) in Gara 6 al TD Garden, per mano di Pierce, Kevin Garnett, Ray Allen, Rajon Rondo, coach Doc Rivers e i Celtics.
In bilico fra l’immortalità e l’infamia cestistica: era lì che si trovava LeBron James in quella sera di inizio estate, a Boston, nel 2012.
Oggi è facile minimizzare, ma in quel periodo, al di fuori di Miami, buona parte del mondo cestistico si augurava davvero il fallimento di LeBron. Considerato il prossimo Jordan, non era ancora riuscito a portare il Larry O’Brien Trophy né in Ohio né a South Beach. Secondo molti, gli Heat avevano rovinato la pallacanestro, e LeBron James era il principale responsabile.
Un giorno dopo “The Decision”, l’approdo di James agli Heat era stato festeggiato in maniera piuttosto stravagante. Lo sfarzo e l’ostentazione di South Beach infastidivano molti all’interno della Lega, dei media e dei fan.
“James si è sostanzialmente arreso e ha detto: Basta. Non sono in grado di condurre una squadra al titolo da solo” – ha scritto il giornalista del New York Daily News, Mitch Lawrence.
“E questo qui pensa di poter essere il nuovo Michael Jordan? Non si avvicina neanche a Kobe Bryant.”
L’affermazione fatta da LeBron nel 2010 di “non due, non tre, non quattro, non cinque…” titoli era sempre stata una mosca accanto al suo orecchio, ma arrivati alla sera del 7 giugno 2012, quel ronzio irritante si era trasformato in un assordante boato. Prima di scendere in campo, Fizdale ha preso da parte Dwyane Wade, il migliore amico e compagno di James. Se c’era qualcuno che sapeva cosa stesse succedendo nella testa di LeBron, quel qualcuno era Wade.
“Come andiamo?”
“Non abbiamo nulla di cui preoccuparci stasera, coach.”
E le parole del commentatore Mike Breen a pochi minuti dall’inizio di Gara 6, con 19.000 tifosi assordanti intorno a lui?
“Che cosa ne sarà dei Miami Heat stasera? Si trovano di fronte all’eliminazione.”
Il TD Garden era traboccante, pronto ad una festa doppia. In primo luogo, infatti, i fan erano impazienti di celebrare il terzo viaggio alle Finals dal 2008. In secondo luogo, fremevano per l’attesa di vedere i Celtics stroncare i sogni da titolo di LeBron sul loro campo. E anche in questo caso, per la terza volta dal 2008.

“Doveva vincere quella partita”, ha detto Fizdale, quasi con timore reverenziale cinque anni dopo. “Chi può sapere cosa sarebbe successo se avessimo perso? Poteva davvero essere la fine dell’esperimento.”
Dopo la sua conversazione con Wade, Fizdale si è diretto verso la panchina assieme al veterano Juwan Howard, ed entrambi sapevano che stavano per diventare testimoni qualcosa di storico.
Il sorriso da telecamera di James non l’aveva seguito a Boston. In un momento che è da allora stato immortalato nella cultura della pallacanestro, James ha piegato il busto e si è afferrato i pantaloncini… e il suo volto ha assunto l’espressione più infernale di tutta la sua carriera. Sembrava come se la sua stessa vita fosse stata minacciata, come se quello fosse l’ultimo momento in cui l’avremmo visto: quella sera avrebbe fatto fuoco e fiamme.

“È stato il momento in cui ha detto: Bene, sono il miglior giocatore della Lega e non permetterò a nessuno di mettersi sulla mia strada verso il titolo. In quel momento l’abbiamo capito tutti” – ha affermato Fizdale. “Non saprei come definirlo, ma si è immerso in sé stesso. Aveva una calma che non avevo mai visto prima d’ora.”
A lungo ridicolizzato per la supposta mancanza di mentalità da closer, il Re ha fatto vedere al mondo una faccia che nessuno aveva mai visto. James aveva fiutato il sangue, forse il proprio. Gara 6 era diventata una questione personale.
Fizdale dice che il game plan di coach Erik Spoelstra era molto semplice: a prescindere dal gioco che venisse chiamato, doveva finire con un post-up o un isolamento di LeBron. Quella sera sarebbe stato lui l’uomo al comando. Wade, Bosh e tutti gli Heat si sono attenuti pienamente al piano.
“Appena ha fatto quella schiacciata al volo appena prima dell’intervallo lungo, Juwan ha detto: Tutto a posto, torniamo a Miami. Lo sapevamo e basta. Aveva quello sguardo.”
LeBron James quella notte ha disputato una partita dal dominio raro quanto incontestabile. Non si sarebbe fermato fin quando tutta Boston fosse stata rasa al suolo.
Ha presentato un ricco menù di conclusioni: violente schiacciate in penetrazione, jumper in fadeaway in faccia a Pierce, tiri dalla linea di fondo contro Ray Allen e Mickael Pietrus, “and-one” in contropiede portando su palla e Greg Stiemsma, floater per eludere gli aiuti di Garnett e Pierce, jab step per disorientare Pietrus, triple con le mani di Stiemsma e Pietrus in faccia, jumper dalla linea di fondo dopo aver battuto Rajon Rondo…
James quella sera era un assassino con una palla da basket, che aggiungeva inesorabilmente alla lista delle vittime qualsiasi essere umano osasse pararglisi davanti. Il tutto senza il minimo sorriso, senza il minimo segno che quella sera ci fosse una coscienza a guidarlo.

I Celtics non riuscivano a fermare l’emorragia, cominciata nell’istante in cui James ha servito Mario Chalmers per la tripla che ha dato agli Heat il vantaggio per 3-2 nel primo quarto. Perché appena dopo, LeBron ha aperto un’altra ferita. Poi un’altra ancora. L’androide da Akron ha concluso la partita con 45 punti, 15 rimbalzi e 5 assist, tirando 19/26 contro la notoriamente pungente difesa di Boston (seconda per punti concessi nel 2011/12). James si è seduto con Wilt Chamberlain al tavolo degli unici giocatori ad aver fatto registrare cifre del genere in una partita di Playoffs.
Nelle successive battaglie del Re nei Playoffs, la stoppata su Andre Iguodala in Gara 7 delle Finals 2016 è passata alla storia come la giocata che ne ha definito la carriera, e lo stretch fra Gara 5 e Gara 7 della stessa serie viene considerato il suo capolavoro più assoluto. Ma con una carriera fino ad allora apparentemente definita solo da pressioni insensate e aspettative folli, il riflettore su LeBron non è mai stato tanto luminoso quanto in quella Gara 6 contro Boston. Nella sfida più grande della sua carriera, quando tutto era in bilico, James non è solo sopravvissuto, ma ci ha regalato la sua opera magna.
E l’atteggiamento di James non è cambiato quasi per nulla neanche dopo il termine della partita. Era ancora completamente concentrato. “Era come Leonida, quando i soldati di 300 hanno vinto la prima battaglia”, ha detto Fizdale. “Mentre tutti festeggiavano, Leonida è rimasto lì e ha detto: No, c’è ancora del lavoro da fare.”
James non avrebbe permesso a sé stesso o ai suoi compagni di rilassarsi con una Gara 7 all’orizzonte. E ciò ha dato i suoi frutti: gli Heat hanno vinto anche la partita decisiva, con 23 punti di Wade, 19 di Bosh dalla panchina e i 31 con 12 rimbalzi del Re, che ha giocato l’intera partita meno 28 secondi. Poco più tardi, gli Heat e in particolare James hanno finalmente centrato il titolo che cercavano così disperatamente, sconfiggendo i giovani Thunder capitanati da Kevin Durant, Russell Westbrook e James Harden.
Ma a reindirizzare la storia della carriera di LeBron James è stata proprio quella notte a Boston. E lo sapevano entrambe le parti coinvolte. “Spero che ora possiate smetterla di dire che LeBron non fa la differenza quando conta”, ha affermato Doc Rivers dopo Gara 6.
La cosa che ha reso il tutto ancora più speciale è stato il fatto che sia successo nella città che prima di allora gli aveva così tante volte spezzato il cuore (cestisticamente parlando). LeBron, in sostanza, aveva prepotentemente preso il controllo del suo stesso funerale. “A nessuno piace vedersi tirare la terra in faccia”, ha dichiarato Spoelstra, “prima ancora di essere morto.”
Oggi, invece, James è alla ricerca del quarto anello e della definitiva consacrazione come miglior giocatore di sempre. E i suoi pari, come Paul Pierce, tanto quanto i suoi predecessori, affermano che non si tratti di una conversazione così peregrina.
Tutt’ora, coach Fiz, rimasto in ottimi rapporti di amicizia con il Re, non è in grado di individuare una singola performance che possa essere paragonata alla gemma di LeBron in quella Gara 6:
“Non ha mai visto nessuno rispondere alla chiamata, cogliere l’occasione in quella maniera. That’s one for the ages.”