Ogni Draft, dalla nascita della Lega, ha alternato scelte provvidenziali a clamorosi fallimenti. Ne è un esempio quello del 2009, in cui a futuri MVP sono stati preferiti giocatori finiti nel dimenticatoio.

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La cosa più affascinante del Draft NBA è l’infinita quantità di sliding doors, di se e di ma che si generano automaticamente ad ogni scelta.

Ogni anno il manager di una squadra, spinto da motivazioni in cuor suo incontrovertibili, affida parte del futuro della propria franchigia a giocatori poco più che adolescenti, cercando di prevederne, spesso affidandosi a suggestioni o pura fantasia, tutti gli step della loro futura carriera. Sempre con le dita incrociate.

E quindi Portland preferì Bowie a Jordan per non togliere spazio a Drexler. Ben quattro franchigie si lasciarono scappare un neodiplomato di buone speranze come Kevin Garnett, perché considerato troppo acerbo. Stesso motivo per cui l’anno dopo un certo Kobe Bryant slittò addirittura alla numero 13.


Situazioni del genere si sono verificate ogni anno dalla nascita del Draft, fino ai casi più recenti di Darko Milicic, Andrea Bargnani, Anthony Bennett, tutte scelte in fondo comprensibili, ma che il senno di poi ha condannato senza pietà. Senno di poi che è stato particolarmente crudele con alcune squadre nell’estate del 2009.

L’NBA viene da una stagione interessante. È la prima senza i Seattle Supersonics, trasferitisi ad Oklahoma City, lasciando una ferita aperta nel cuore di molti tifosi. Entrano nella Lega due futuri MVP come Derrick Rose e Russell Westbrook. LeBron vince il primo di una lunga serie di titoli di MVP. Kobe è nel primo quintetto generale e difensivo, e vince il primo titolo dal divorzio con Shaq.

Anche nella parte bassa della Lega succedono tante cose. Tra l’estate 2008 e quella 2009 cambiano 15 panchine. Le vittorie sommate di Clippers, Kings e Wizards non sarebbero sufficienti neanche per un primo posto di Division a Est.

Alla Draft Lottery di maggio, sono i cugini dei campioni NBA ad assicurarsi la prima chiamata. Con un deprimente record di 19-63, i Clippers hanno un roster che sembra più frutto del caso che di una reale progettualità.

La seconda scelta è per i Memphis Grizzlies, che da gennaio si sono affidati a Lionel Hollins come allenatore. La franchigia del Tennessee viene da una stagione da 24 vittorie, con conseguente ultimo posto nella Southwest Division, ed è una squadra giovane, con addirittura tre rookies in quintetto.

La terza scelta è per i neonati Thunder, che hanno terminato la stagione con un non esaltante record di 23-59, ma che hanno trovato in Durant e Westbrook due solidi investimenti per il futuro.

Ad accomunarle tutte, lo sguardo attento nei confronti del bacino NCAA ed internazionale, alla ricerca di giocatori in grado di migliorare le sorti della propria squadra.

I Clippers sono alla ricerca di un faro che possa fare luce su una realtà che vaga da troppo tempo nell’oscurità. In cabina di regia c’è Baron Davis. Il Barone ha visto giorni migliori: emozioni le regala ancora, ma non sarà la point guard del futuro. Eric Gordon viene da un anno da rookie incoraggiante, con 16 punti a gara, e un buon impatto sulla Lega. Parco lunghi: DeAndre Jordan, rookie da Texas A&M, ha un potenziale fisico mostruoso, ma deve ancora sostanzialmente imparare i fondamentali del gioco. Zach Randolph inizia la stagione a New York ma dopo solo 10 partite approda nella città degli angeli. Dopo un inizio promettente, decide di colpire con un pugno Amundson in un match contro Phoenix, con conseguente sospensione. Anche qui, i dubbi sul fatto che possa essere il leader di cui i Clippers hanno bisogno possono sorgere…

Veniamo ai Grizzlies. Dopo la partenza di Pau Gasol, la squadra latita per talento e leadership. L’anno da rookie di OJ Mayo ha fatto ben sperare, ma i problemi comportamentali che ne hanno contraddistinto la carriera non tarderanno ad arrivare. A dividersi il posto con lui in regia, un giovane Mike Conley, in cui la franchigia crede molto. Secondo le mere statistiche, la star potrebbe essere Rudy Gay ma l’ex UCONN, poco propenso alla leadership, non sembra della stessa opinione. Nota lieta è sicuramente l’anno d’esordio di Marc Gasol, che mostra un gran senso del gioco e ampi margini di miglioramento.

Infine OKC, che ha bisogno di giocatori che possano integrarsi bene con le due stelline della squadra. Licenziato PJ Carlesimo dopo una “travolgente” partenza 1-12, si riparte affidando la squadra a Scott Brooks, alla prima esperienza come head coach. Oltre a KD e Russ, però, il talento è quello che è: Jeff Green è un ottimo all-around ed è ancora sano, ma oltre a lui il deserto. Desmond Mason, Nick Collison, Malik Rose… C’è bisogno di altro per diventare una squadra da Playoffs nella Western Conference.

Le possibilità di pescare bene al Draft di giugno, però, sono alte.

La stagione 2008/09 del college basket ha mostrato molto talento, soprattutto nel reparto guardie, in controtendenza rispetto agli anni precedenti: 7 dei primi 10 giocatori scelti saranno point o small guard.

La stagione è stata dominata da North Carolina, che dopo la cocente delusione del 2008 (sconfitta in semifinale contro Kansas) torna l’anno successivo con una squadra pressoché invariata e domina il Torneo, laureandosi campione per la quinta volta nella sua storia. L’unica partita che ha destato qualche preoccupazione ai Tar Heels è la sfida di Elite Eight contro Oklahoma. I Sooners hanno compiuto una splendida cavalcata fino a quella partita, nella quale dovranno soccombere contro un avversario troppo più completo e profondo. A guidarli, il nome sul taccuino di tutti gli scout NBA: Blake Griffin.

Il ragazzone, che in Oklahoma è nato e cresciuto, è la numero uno designata: non si è mai visto un mix simile di forza, agilità, capacità di assorbire i contatti e chiudere nel traffico. Il 25 giugno 2009, alle 19.15, David Stern chiama il suo nome e Mike Dunleavy Sr gongola dalla sala delle Basketball Operations in South Centinela Avenue.

Ora è il turno dei Memphis Grizzlies. Gli uomini di Lionel Hollins hanno bisogno di un po’ di tutto. Jeff Van Gundy, sempre delicato, disse che la franchigia del Tennessee avrebbe dovuto “distruggere l’intero roster per poi ripartire”. La squadra veniva da un penultimo posto per punti fatti a gara e un ultimo posto per numero di spettatori: l’idea che serva talento non sembra peregrina.

L’executive Chris Wallace non gode di ottima fama. Nel febbraio 2008 spedì Pau Gasol, detentore di 12 record di franchigia, ai Lakers in cambio di Kwame Brown, Javaris Crittenton, Aaron McKie, il fratello Marc Gasol e due future scelte. Sembra quasi uno scherzo. I giornali si scatenano, Wallace si è sempre difeso sostenendo di non aver trovato offerte migliori. Gregg Popovich arriva addirittura a caldeggiare la formazione di un comitato che analizzi le trade NBA e che abbia il potere di impedire operazioni del genere.

È in questo clima sereno che Wallace e il suo staff approcciano la seconda scelta assoluta. Che fare? Prendere un giocatore con grande potenziale offensivo attorno al quale ricostruire? Fidarsi del talento che si ha e ripartire con un rim protector, che sostituisca Pau Gasol? I dubbi vengono fugati poco dopo: la scelta di Memphis ricade su Hasheem Thabeet, il centro che tanto bene ha fatto in NCAA con Connecticut.

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Il giocatore più alto al Draft (2.21m) ha vinto due volte il premio difensore dell’anno della Big East, della quale è anche Co-Player of the Year con DeJuan Blair. Nato e cresciuto in Tanzania, ha cominciato a giocare a 15 anni, prima di trasferirsi negli States per finire il liceo a Houston e venir arruolato da Jim Calhoun. Il coach, indotto nella Hall of Fame nel 2005, lo definisce come “uno dei giocatori più dominanti della storia del college basket” e nessuno ebbe nulla da ridire al momento dell’affermazione: un potenziale difensivo infinito, grande tempismo e atletismo, capacità d’intimidazione a là Mutombo e buoni piedi per tenere i piccoli sul perimetro. In tre anni nell’NCAA ha fatto passi da gigante e i suoi deficit offensivi e di forza non preoccupano, perché sembra essere un ragazzo pronto a lavorare sodo per migliorarsi.

Molti analisti hanno dimenticato di citare una singola partita, che ha visto Thabeet fronteggiare proprio il co-giocatore dell’anno con lui, l’atipico lungo dell’università di Pittsburgh DeJuan Blair, giocatore molto più piccolo (2.01) ma con una fisicità più prorompente. Alla sfida tra i due viene data ampia risonanza e finisce in un bagno di sangue per il tanzaniano. Blair registra 22 punti e 23 rimbalzi, segnando in tutti i modi possibili, vincendo ogni scontro fisico con Thabeet, che chiude la gara con un imbarazzante 5 punti e 4 rimbalzi a referto. Un gigante diventato invisibile all’improvviso.

Scelta numero 3: è il momento di OKC. Le opzioni per Sam Presti sono diverse. Molti insistono su Ricky Rubio, il playmaker che ha entusiasmato tutta Europa a soli 18 anni, soprattutto in ottica di ricambio per Russell Westbrook. C’è chi sostiene che sia impossibile lasciar scendere Tyreke Evans, one-and-done da University of Memphis, sotto la terza scelta. Ma l’executive dei Thunder ha altre idee: quando viene chiamato James Harden da Arizona State, la folla presente al WaMu Theatre al Madison Square Garden è scioccata.

Harden è passato inosservato al grande pubblico, forse per il percorso non entusiasmante della sua scuola, ma tutti gli analisti lo davano entro la settima chiamata. Viene descritto come un giocatore particolare, old school, e sono le sue stesse, lucide parole, a spiegare questa definizione: “Gioco a un ritmo diverso, non sono il più veloce né il più esplosivo, ma in ogni caso vado dal punto A al punto B”. Nessuno, probabilmente neanche lo stesso Harden, aveva una vaga idea di cosa sarebbe diventato The Beard.

Dopo le (scontate, almeno nella percezione di quella sera) chiamate di Tyreke Evans (4, Sacramento) e del Pistol-Pete catalano Ricky Rubio (5, Timberwolves via Wizards) arriva un altro momento interessante.

Minnesota ha un’altra chiamata. Avendo ceduto Mike Miller e Randy Foye, il GM David Kahn (ex giornalista di NBC) vuole assicurarsi che il backcourt sia coperto: si punta su un’altra guardia. La scelta, non senza qualche dubbio, ricade sul piccolo Jonny Flynn, 1,83m da Syracuse, lasciando il prodigioso miglior realizzatore dell’NCAA Stephen Curry ai Golden State Warriors.

Curry ha mostrato molte delle qualità che gli daranno lo status di leggenda: estrema facilità realizzativa, visione di gioco, ball-handling, capacità di segnare i tiri che contano. Restano i dubbi sulla sua fragilità fisica, cosa che invece convince nel caso di Jonny Flynn, più basso di Curry ma che fisicamente sembra più integro e pronto ai contatti NBA. Certo, né LeBron né altre star dei professionisti si sono scomodati durante la stagione per andare a vedere dal vivo Flynn…

Che ne è di tutte queste chiamate, dopo l’estate?

Il 23 ottobre, durante l’ultima partita di Preseason, Griffin s’infortuna al ginocchio, problema che lo terrà fuori fino a gennaio, quando, visto il recupero non soddisfacente, verrà operato, saltando così l’intera stagione da rookie. La memoria va al 2007, quando la prima scelta Greg Oden ebbe lo stesso percorso. Nonostante la sicurezza ostentata da Dunleavy (“Blake ci è mancato tutto l’anno, dobbiamo solo andare avanti e continuare con l’obiettivo che ci siamo posti a inizio stagione: i Playoffs”), i Clippers chiuderanno 29-53, ovviamente fuori dalla post-season. Griffin però recupererà dall’anno di stop e diventerà uno dei protagonisti, insieme a Chris Paul, della “Lob City”. All’inseguimento di un anello, Griffin si è unito recentemente a Brooklyn Nets per provare a giocare le sue prime NBA Finals.

Capitolo Hasheem Thabeet.

La scelta di Chris Wallace si rivela presto un disastro. Le grandi doti difensive del tanzaniano si riducono alle sole stoppate, indice non sempre affidabile della qualità di un difensore. In attacco è del tutto inadeguato, spesso vaga sperduto nella metà campo offensiva alla ricerca di una posizione. Quand’anche riceve la palla, non sembra avere un’idea chiara di cosa farsene. Preoccupa anche l’inaspettata assenza d’intensità, la facilità con cui si sottrae allo scontro fisico.

A febbraio la prima di numerose spedizioni in D-League: è un attestato di fallimento per lui e per i Grizzlies, “colpevoli” di aver sopravvalutato il giocatore e di aver male interpretato il proprio roster. Per la cronaca, Thabeet chiuderà la stagione con 3 punti, 3 rimbalzi e una stoppata a gara, i numeri migliori della sua carriera NBA…

Harden, invece, è un’aggiunta perfetta per OKC, che, anche grazie al suo contributo dalla panchina, centra l’ottavo posto ad Ovest, impensierendo non poco i Lakers, futuri campioni, al primo turno di Playoffs. La sua maturazione avverrà a Houston, dove si consacrerà come uno dei migliori giocatori dell’NBA (vincendo un MVP) e si iscriverà al dibattitto sui migliori scorer all-time.

Tyreke Evans parte fortissimo. In una squadra con poche aspettative, eguaglia Oscar Robertson, Jordan e LeBron come unici giocatori ad aver registrato 20 punti, 5 rimbalzi e 5 assist di media al primo anno, vincendo a mani basse il premio di Rookie of the Year. Anche nel suo caso, però, è il miglior anno della carriera: grande attaccante ma anche grande accentratore, poco incline alla difesa e al coinvolgimento dei compagni.

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Veniamo al caso Rubio. I Timberwolves sono pronti a pagare alla Joventut Badalona il buyout (ben 8M$) per averlo subito a disposizione, gli agenti del giocatore si dicono ottimisti. Quando sembra tutto fatto, però, Rubio cambia idea: decide di restare ancora due anni in Spagna, per crescere ed essere più pronto per la NBA. Firma così un biennale con il Barcelona.

Kahn sembra prenderla bene: “Sono deluso ma dobbiamo vedere la cosa nella giusta prospettiva: è ancora molto giovane! Tra 2 anni ne avrà solo 20, sarà più sviluppato, più pronto. Ci sono cose peggiori che possono accadere a una franchigia.”

Ma avverte Rubio, con un velato fare minaccioso: “Gli ho spiegato che non posso prevedere il futuro, ma che al suo rientro Flynn avrà due anni di vantaggio…”

Già, Jonny Flynn. Ciò che tranquillizza Kahn è la scelta subito successiva del playmaker da Syracuse che ha ben impressionato nella Summer League di Las Vegas. Ed effettivamente la sua prima stagione è abbastanza buona. Riesce a sopperire alla mancanza di centimetri e chili in contesto NBA, segna 13.5 punti a gara. In compenso, mostra poca propensione verso la triangle offense proposta da coach Rambis e le 3 palle perse a gara non sono poche. Certo, il resto della squadra non lo aiuta: Minnesota chiude con 15 vittorie e 67 sconfitte, peggiore record della sua storia. Nell’estate 2010, Flynn sarà costretto a una delicata operazione all’anca che ne ritarderà il ritorno sul campo e dalla quale faticherà a riprendersi del tutto.

Maledetto senno di poi…

Stephen Curry mostra già al primo anno quello che potrebbe diventare. Chiude secondo nelle votazioni come Rookie of the Year e nonostante i limiti difensivi, dimostra che anche a un livello superiore resta un attaccante di primissima fascia.

Come Flynn, negli anni successivi Steph attraverserà diversi problemi fisici. Due operazioni alle caviglie a maggio 2011 e aprile 2012 faranno largo a ingombranti preoccupazioni sul suo futuro – ed è così che proprio nel 2012 firmerà un’estensione da 4 anni e 44 milioni di dollari: un momento decisivo per i successi degli Warriors nell’ultima decade.

A differenza di Flynn, infatti, il figlio di Dell recupererà diventando quello che conosciamo tutti: due volte MVP, quattro volte campione NBA (l’ultima da Finals MVP), miglior realizzatore della Lega nel 2016, otto volte All-Star. Un vero e proprio game changer, col suo range di tiro, il suo ball-handling e la sua capacità di condizionare le difese anche lontano dalla palla.

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Gli anni che seguono il Draft sono quelli dei rimorsi per la maggior parte delle squadre. Statisticamente, i fallimenti superano i successi. Molti errori di valutazione sono difficilmente programmabili: infortuni, perdita di fiducia dei giocatori, difficoltà d’inserimento in un sistema.

Ciò che resta utile nell’analisi postuma di queste vicende è, come nello studio della Storia (con la S maiuscola), conoscere il passato per capire il presente: immagazzinare informazioni per cercare il più possibile di evitare errori futuri.

In pochi potevano prevedere l’impatto di Curry o l’inarrestabile ascesa di Harden, questo è certo. Ma scommessa per scommessa, forse una squadra come Memphis o come Minnesota avrebbe potuto puntare su un attaccante come il ragazzo da Davidson o su un catalizzatore di gioco intelligente come il Barba, con tutti i rischi del caso, piuttosto che su un nuovo Mutombo o un 18enne catalano.

Che ne sarebbe delle franchigie citate, oggi, con qualche scelta diversa? Maledetto senno di poi…