Dopo 16 anni, il prossimo Hall of Famer sta per vivere le prime Finals della sua carriera. E come – quasi – sempre, ne sarà in pieno controllo.

“In ogni essere umano si celano possibilità infinite,

che non devono essere scatenate invano.

Poiché è terribile quando l’intero uomo risuona di tanti echi,

nessuno dei quali diventa una vera Voce”

(Elias Canetti, Appunti da Hampstead)

La Voce. Un concetto importante, fondamentale nella nostra storia, dato che è quella di un notorio floor general. Ma anche delle voci, spesso maligne, che ne hanno accompagnato la carriera, che fossero di commentatori, dirigenti o compagni di squadra, e in generale non di tifosi. Anzi, al massimo quelle di complotto provenienti da chi bramava i servigi del suddetto militare. E ora, immancabile, altra malizia nelle voci che parlano di un tragitto facile verso le Finals. Come se non fosse un percorso con dentro letteralmente 16 anni di carriera nei quali è successa ogni cosa immaginabile, tranne ottenere qualcosa facilmente.

I Phoenix Suns (assenti dal ’93) e Christopher Emmanuel Paul sono alle NBA Finals, affronteranno i Milwaukee Bucks, a loro volta lontani dal 1974, e il fatto che lui si trovi in Arizona non ha davvero nulla di casuale.

Sì, i Suns hanno eliminato i Lakers privi di Anthony Davis, i Nuggets privi di Jamal Murray, e i Clippers privi di Kawhi Leonard. Ma come sempre ci sono altri lati della medaglia: per esempio Paul assente o dolorante per tutto il primo turno, visto il problema alla spalla. Il Covid che l’ha tenuto fermo per due settimane. Il fatto che la top seed – gli Utah Jazz, nel quale il sottoscritto era cascato in pieno – sono andati 0-2 contro i Clippers in mano al solo Paul George. Secondo LeBron James tutto ciò era prevedibile per mere ragioni temporali riguardo alla pausa tra la scorsa stagione e questa, e chi meglio di lui sa come si curano quelle macchine; ma bisogna anche ricordare – in una storia che, come detto, dura 16 anni – che troppo spesso CP3 è stato dalla parte sbagliata di queste discussioni.

Quando si è trovato in quella giusta, ha ben pensato di passare quel traguardo sempre sfuggito con 41 punti, 8 assist – ovviamente palle perse – e sfoderando tutto il repertorio in quella che è stata la sua casa, e davanti a un pubblico che di fronte all’ennesima avversità del destino ha trovato la commovente forza di applaudire il suo giocatore storicamente più rappresentativo, più importante, più amato. E lui, che è hollywoodiano dalla nascita, sembrava ricambiare.

Down Memory Lane

Al terzo anno in NBA, tradizionalmente quello della consacrazione, Paul e gli Hornets mandano a casa in cinque partite i primi Mavericks di Kidd e Nowitzki, e il clutch gene così abusato e sparlato del prodotto di Wake Forest inizia a farsi vedere con una tripla doppia – al tempo non erano così frequenti – da 24 punti, 15 assist e 11 rimbalzi in Gara 5, dopo essere esploso all’esordio in post-season per 35 splendidi punti.

Già da allora, Chris faceva vedere le sue due facce, poi esasperate allo Staples: ecumenico e saggio nel primo tempo, killer spietato nel secondo. E’ stata forse questa la squadra più a sua immagine e somiglianza: precisa, metodica, esperta, ragionata e quando serviva anche sporca. Sono aggettivi buoni anche per i suoi Clippers, comunque.

Al turno successivo, serviranno 7 gare ai San Antonio Spurs campioni in carica per avanzare ed uscire poi contro i Lakers. Non male come prima post-season, ma nessuno, Paul compreso, poteva sapere quanto Popovich e Duncan sarebbero stati un tema ricorrente – e doloroso – della sua carriera.

L’anno successivo venne alla luce un’altra trama della sua storia, quella dei problemi fisici che concausarono l’eliminazione al primo turno.

Due stagioni dopo Chris fece tutto quel che si poteva fare in una squadra media priva del suo top scorer, David West, e fu eliminato dai Lakers campioni in carica prima che questi ultimi vedessero un tedesco di Wurzburg aprire una nuova pagina della pallacanestro mondiale.

Lob City

Quella squadra, e quel Chris Paul, ebbero degli alti incredibili in sei anni, soprattutto se si pensa che appena due settimane prima i Lakers gridavano all’alto tradimento da parte dell’allora commissioner David Stern per aver rifiutato l’offerta che avrebbe messo insieme Paul, Kobe e Dwight Howard.

New Orleans all’epoca dei fatti era commissariata, quindi a livello legale non ci fu nulla da fare, e a livello pratico forse una vecchia volpe come il commissioner che ha reso l’NBA lo sport americano più popolare nel mondo, aveva previsto la dannosa deriva dei ‘superteam’. Ma questa, è un’altra storia.

Stern optò quindi per l’altra squadra di LA, con al timone Doc Rivers. In quelle sei stagioni oltre ai sopracitati momenti alti, quelli bassi furono dei dritti allo stomaco, conditi da svariate campagne Playoffs rovinate dagli infortuni. Al primo anno (2011/12), le cose divennero estremamente personali tra il Nostro e Tony Allen, con Chris che ebbe la meglio in Gara 4 ma arrivò sfinito alla settima per merito del “best defender I’ve ever faced”, a sentire Kobe Bean Bryant. Fu una delle migliori partite di Blake Griffin in California, ma con sorpresa di nessuno, al secondo turno i Clippers salutarono contro gli Spurs. Sweep, con non troppi complimenti al dito rotto e ai problemi al bacino del #3.

L’anno successivo a rendere impossibile la corsa fu la caviglia di Blake Griffin, e poi ci fu la vera implosione di Paul, la sua versione delle Finals 2011 di LeBron, la ferita più lenta a rimarginarsi, se mai sarà possibile: i Clippers erano avanti di 7 a 49 secondi dalla fine in una pivotal Game 5 in Oklahoma. Successe di tutto, qualche fischio controverso magari indirizzò la questione, ma di certo da un giocatore cerebrale come Paul non ci si aspettava una sequenza così disastrosa nel momento più importante della sua carriera. A casa, di nuovo.

L’anno dopo, nel turbinio dello scandalo di Donald Sterling, un altro alto momento di clipperismo: sul 3-1 contro i Rockets di Harden, Howard e l’elettrico Josh Smith, trovarono un modo per perdere la serie. In quella Gara 7 non ci fu storia, fondamentalmente i ragazzi di Kevin McHale alzarono le percentuali trovando linfa vitale da gente come Corey Brewer e Pablo Prigioni, e i Clips non tennero botta sul perimetro.

In mezzo, paradossalmente prima che affiorassero tutti i dubbi del mondo sul Nostro, regalò la sua prestazione più romantica e più assurda in un raro caso di Gara 7 al primo turno che la nazione guarda pensando che chiunque vinca sia una seria contender. C’è chi può ancora raccontarla meglio di chi scrive.

Purtroppo, Chris non può sempre costruirsi il suo tiro. Semplicemente, non è alto abbastanza. Nelle tre infami sconfitte contro Houston, ha portato in media 26 punti, 10 assist col 51% da tre, eppure per ‘marcarlo’ McHale scelse Prigioni e un attempato Jason Terry, potendo quindi affidarsi al vecchio adagio ‘battimi da solo’.

Ad aspettarlo, oltre queste sconfitte ci sarebbero stati gli Spurs nel 2014 (…), o i Warriors nel 2015 – altra dinastia che ha avuto modo di conoscere fin troppo bene – mentre di San Antonio bisogna ricordare che smantellarono gli Heat dei BigThree.

Nell’ultimo triennio, ovvero da quando LeBron ha lasciato Cleveland per i Lakers, la Eastern Confernce si è rinforzata, ma non bisogna dimenticare quanto fosse ampio il gap al tempo. Un perdente ad Ovest sarebbe stato con ogni probabiltà il favorito a Est.

Failure to launch

Paul era ben felice, per il successivo passo del suo viaggio, di avere meno la palla in mano, di avere finalmente una guardia capace di crearsi il suo tiro dal perimetro e con capacità di playmaking.

Fa sorridere sempre la dialettica “chi era il problema?” tra lui e James Harden, laddove il problema è stato sempre lo stesso, persino di fronte all’unanime squadra più forte di tutti i tempi, i Golden State Warriors del 2018. Comunque, i due fenomeni su cui D’Antoni provò a costruire il suo idealismo perimetrale sfrenato, non si sono lasciati bene, e dopo questo poteva essere difficile il contrario:

La caviglia impedì a Chris di giocare Gara 6 e Gara 7 di quella splendida serie, e il momentum sembrava ben indirizzato verso il Texas e verso una carriera diversa per Kevin Durant. Quest’ultimo, avendo capito i sentimenti di Harden, se l’è portato oltre il Ponte, dopo che The Beard aveva reso praticamente nulle le possibilità dei Rockets di costruirgli un roster competitivo, spingendo con la consueta delicatezza – eufemismo – Daryl Morey a scambiare il Nostro per Russell Westbrook.

Il due volte MVP resta il vero anello di congiunzione per quei quattro che in Oklahoma avrebbero potuto scrivere un’altra storia, nonostante siano palesemente scappate da lui, le due stelle dei Nets.

L’importanza di essere in controllo

Paul stava allenando la sua squadra AAU in Georgia mentre il mondo NBA veniva avvertito da una notifica sul telefono, secondo cui il “peggior contratto della storia” – secondo il proprietario dei Rockets, Tilman Fertitta – veniva scambiato ai Thunder. Pare che Morey abbia provato a chiamare prima, non ricevendo risposta. Per la prima volta dalla notte del suo Draft nel 2005, Chris non era in controllo del suo destino.

Ma un Hall of Famer sa gestire anche questo. Sulle Nike che indossava la notte di Gara 6 contro i Clips, c’era scritto Can’t Give Up Now. Una canzone delle Mary Mary che stava ascoltando la sera della trade. La stessa trade che, se non si fosse verificata, non avrebbe portato il suo contratto nelle mani di Sam Presti.

Commosso da come si era quasi preso una rivincita tarantiniana nella bolla, portando quei deludenti Rockets fino a Gara 7 con una squadra che ESPN dava con l’1.7% di speranze Playoffs a inizio anno, Presti ha lasciato che CP3 potesse scegliere. Scegliere di riunirsi con coach Monty Williams, vice di Byron Scott in Louisiana; scegliere il suo amico James Jones dietro alla scrivania – Executive of the Year; scegliere Devin Booker, un talento che ha giocato al liceo con le CP3 ai piedi, ed è fiero di raccontarlo. Scegliere di riportare i Suns alle Finals per la prima volta dal ’93, quando a guidare c’era Charles Barkley, e capace di fermarli furono solo i Bulls di Michel Jordan.

Chris Paul è in top-15 nelle maggiori advanced stats relative alla post-season. E potrebbe presto essere sesto per assist ai Playoffs, superando Bryant, Pippen, Nash e Bird. Andare avanti risulterebbe lapalissiano.

Sapete perché l’NBA è una lega meravigliosa? Perché un Hall of Famer può lottare contro il destino per 16 anni per arrivare alle Finals, e capire solo l’ultimo giorno come davvero tutto ciò che gli sia successo abbia portato a questo momento.

Il momento che lui ha voluto, e si è costruito, e ha strappato e litigato. A modo suo, a modo di Christopher Emmanuel Paul from Winston, North Carolina.