Dalle Twin Towers a Clyde Drexler, ripercorriamo la storia degli Houston Rockets e della straordinaria evoluzione che li ha condotti sino al leggendario back-to-back del biennio ’94-’95.

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“Squadra che vince non si cambia”.

Evitando di entrare in contesto calcistico e scomodare il compianto Vujadin Boskov, uno degli aforismi sportivi più famosi e inflazionati di sempre trova una verità di base anche nel mondo NBA.


Nella storia della Lega tutte le squadre che hanno vinto due o più Titoli consecutivi sono rimaste fedeli al proprio organico, mantenendo intatto lo zoccolo duro del roster e apportando solo alcuni lievi ritocchi.

C’è un’eccezione: gli Houston Rockets campioni 1994 e 1995, che hanno aggiunto a un nucleo vincente, una superstar come Clyde Drexler.

Una storia lunga e ricca di colpi di scena, degna di un film di Alfred Hitchcock, ma che ha portato la squadra texana alla conquista di due Larry O’Brien Trophy e a fregiarsi del soprannome di “clutch city”.


I Rockets vengono fondati a San Diego nel 1967 per mano di Robert Breitbard, che sfrutta appieno le mire espansionistiche verso Ovest della Lega.

La prima scelta nella storia della squadra è Pat Riley: un segno del destino perché le strade della franchigia e dell’ex Kentucky si incontreranno molti anni dopo in Finale.

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Complice una mediocre stagione da 67 sconfitte, la franchigia ottiene la prima scelta assoluta al Draft del 1968 e la scelta ricade su Elvin Hayes.

L’ex University of Houston vivrà una scintillante carriera NBA, condita da 12 chiamate per l’All-Star Game, tre inclusioni nel primo quintetto NBA e tre nel secondo, l’inclusione nei 50 Greatest Players in National Basketball Association History del 1996 e il titolo del 1978 coi Washington Bullets.

Anche se la maggior parte della carriera viene spesa nella capitale, Hayes ha un impatto immediato su San Diego ma il risultato finale vede una sola partecipazione ai Playoffs fino al 1971.

In quell’anno la proprietà della squadra passa di mano al Texas Sport Investments che decide di spostare il team a Houston.

La prima squadra NBA della storia dello stato mantiene il proprio appellativo di Rockets, che ben si sposa con la fiorente industria aerospaziale della città.

I colori sociali diventano i conosciuti giallo-rosso.

Il coach scelto per il nuovo corso è Tex Winter, passato alla storia per il celeberrimo Triple Post Offense dei Bulls di Michael Jordan.

Le cose non vanno molto bene in Texas, perché i risultati sono mediocri e Winter e Hayes non sono compatibili come filosofia cestistica.

Il giocatore chiede e ottiene di essere ceduto, mentre il futuro assistente di Phil Jackson viene licenziato nel gennaio del 1973.

Le annate successive si ricordano per l’arrivo nello spot di centro del re dei rimbalzi Moses Malone, del playmaker John Lucas e dell’apertura della nuova casa della franchigia, “The Summit”.

Nella stagione 1977-78, durante un incontro a casa dei Los Angeles Lakers, un evento segnerà per sempre la vita di uno degli uomini più rappresentativi di Houston, il capitano Rudy Tomjanovich.

Stiamo parlando ovviamente di “The Punch”.

Per i texani, le cose iniziano a girare per il meglio a partire dagli anni ’80. L’arrivo di una nuova franchigia in Texas nel 1980, i Dallas Mavericks, porta la Lega a traghettare i Rockets nella Western Conference.

Il cambiamento si rivela una manna dal cielo per la franchigia, che conquista il sesto e ultimo posto libero per i Playoffs del 1981 nonostante il mediocre record di 40-42.

Nonostante il fattore campo sfavorevole per tutta la post season, i giallo-rossi non si fanno intimorire ed eliminano nell’ordine Lakers, Spurs e Kings (all’epoca con sede a Kansas City).

Guidati da un indomabile Moses Malone, che chiuderà i Playoffs con 26.8 punti e 14.5 rimbalzi, Houston diventa la seconda squadra della storia ad accedere alle Finals con un record perdente.

L’avversario che la attende sono i temibili Boston Celtics. La squadra futura dominatrice degli anni ’80, insieme a Los Angeles si aggiudica Gara 1 in casa.

Nonostante i Rockets vincano addirittura al Boston Garden, e portino poi la serie sul 2-2, Larry Bird e compagni la spuntano in Gara 5 e 6 aggiudicandosi il Titolo.

I “Razzi” sembrano comunque aver intrapreso il percorso corretto. Dopo la Regular Season 1981-82, Malone viene eletto MVP e i Rockets terminano finalmente con record positivo (46-36) che vale comunque la sesta piazza a Ovest.

I Playoffs del 1982 sono un clamoroso passo indietro e si chiudono con un’eliminazione al primo turno.

“Potrebbe andare peggio, potrebbe piovere” è il celebre commento di Marty Feldman nel film “Frankenstein Junior”. E in effetti in casa Rockets inizia a diluviare, perché nell’estate del 1982 Moses Malone firma da free agent con Philadelphia.

Perso il proprio leader la squadra precipita nei bassifondi della classifica, chiudendo con un’angosciante record di 14-68.

La buona notizia tuttavia sta nell’aver ottenuto la prima scelta assoluta al Draft 1983.

La chiamata si traduce in Ralph Sampson.

Il prodotto di University of Virginia è un centro di 2.24 mt che ha un impatto immediato nella Lega (21.0 pts, 11.1 rbs e il titolo di ROY 1984).

Nonostante la nuova stella il destino dei giallo-rossi non sembra voler cambiare, con l’ennesima stagione chiusa nei bassifondi (29-53).

La fortuna tuttavia non volta le spalle alla squadra, regalando la prima scelta assoluta anche per il 1984.

Quel Draft è passato alla storia come quello del peccato originale dei Portland Trial Blazers, che scelgono Sam Bowie con la seconda chiamata, ignorando Michael Jordan.

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In precedenza i Rockets avevano chiamato Akeem Olajuwon, idolo locale dalla University of Houston.

Nonostante la scelta di Sampson di dodici mesi prima, il menagement punta dritto sul centro nigeriano.

C’è la convinzione che i due lunghi possano convivere in campo, senza pestarsi i piedi.

Nasce così l’epoca delle Twin Towers.

La grande duttilità e l’alto QI cestistico dei due talenti, permettono a coach Bill Fitch di non avere problemi nel trovare la giusta chimica di squadra.

Sampson si sposta nel ruolo di power forward, lasciando al rookie nigeriano lo spot di centro.

L’ex Virginia è dotato di una sorprendete agilità e rapidità, considerando l’altezza.

Tali qualità gli permettono di allontanarsi senza problemi dal canestro, utilizzando il suo tiro dalla media e il suo 1vs1, e di lasciare il pitturato a Olajuwon, fortemente incisivo nei movimenti spalle a canestro.

Le Twin Towers sono altamente complementari anche fuori dal campo: Sampson, schivo e introverso di carattere, lascia volentieri al n. 34 l’onere di gestire la pressione dei giornalisti, in particolare in merito alle domande extra basket.

I risultati non tardano ad arrivare. Houston chiude terza a Ovest con Sampson che sciorina 22.1 punti e 10.4 rimbalzi, il nativo di Lagos aggiunge 20.6 + 11.9.

Al primo turno dei Playoffs la squadra incappa in un’inaspettata eliminazione contro Utah (2-3), ma il futuro pare tutt’altro che nero.

La Regular Season 1985-86 vede i giallo-rossi attestarsi al secondo posto a Ovest (51-31 di record) dietro solo ai campioni in carica dei Los Angeles Lakers.

Olajuwon è il nuovo leader offensivo (23.5 pts) e di concerto con Sampson, trascina i suoi anche nella postseason.

I razzi eliminano nell’ordine Sacramento e Denver e si preparano a fronteggiare Magic Johnson e compagni nella finale della Western Conference.

Se in Gara 1 i Lakers mantengono il fattore campo, nelle successive tre partite sono i ragazzi di coach Fitch ad avere la meglio.

Col matchpoint sulla racchetta, i Rockets tornano a L.A.

I campioni del 1985 non vogliono cedere lo scettro tanto facilmente e la partita viaggia sul filo.

Il n. 34 viene espulso nel secondo tempo per una rissa con Mitch Kupchak, ma anche senza il proprio leader offensivo si arriva sul 112-112 con solo un secondo da giocare.

La rimessa da metà campo è per gli ospiti e affidata alle mani Rodney McCray.

Sampson parte in punta, fuori dai tre punti e scende forte in verticale, simulando un possibile blocco per una guardia in uscita.

In realtà il n. 50 prende posizione molto profonda in post basso, marcato da Jabbar.

Il passaggio parte preciso verso l’ex Virginia che riceve la palla al volo con le spalle rivolte al tabellone e con una torsione aerea tira la palla verso il canestro con un rilascio più simile a un palleggio della pallavolo.

Lo Spalding rimbalza una volta sul ferro ed entra.

Il Forum è allibito, Houston è in finale per la seconda volta nella propria storia.

La grande occasione di redenzione vede ancora lo stesso avversario di cinque anni prima, i Boston Celtics

Gara 1 vede le Twin Towers lottare più coi problemi di falli, piuttosto che con McHale e Parish. Boston vince tra le mura amiche, ripetendosi anche nella seconda partita.

Al Summit i padroni di casa impongono la propria legge, nonostante un mediocre terzo quarto, ma devono issare bandiera bianca in Gara 4.

Sotto per 1-3, i Rockets devono lottare anche contro la storia, poiché nessuna squadra ha mai rimontato un simile svantaggio nelle Finals.

Infatti, nonostante un sussulto giallo-rosso in Gara 5, Larry Bird decide di chiudere i giochi tornati al Boston Garden e stampa una tripla doppia da 29+11+12.

4-2 e titolo in Massachusetts.

Il futuro dei texani però pare roseo, considerati giustamente come una seria contender della Western Conference.

In realtà il destino si rivela ancora beffardo.

L’inizio di stagione non è dei migliori, con la squadra che appare ben distante da quella di pochi mesi prima.

Oltre a un non spumeggiante record di 23-22, si aggiunge la tegola del possibile K.O. tecnico: durante una partita contro i Denver Nuggets, Sampson si infortuna al ginocchio sinistro e appare ben chiaro che la stagione del giocatore sia già terminata.

I Rockets risentono dell’assenza della loro ala grande, chiudendo al sesto posto a Ovest e con una prematura eliminazione al secondo turno per opera di Seattle.

All’inizio della Regular Season 1987-88 Sampson è di nuovo al proprio posto nello starting five, ma appare piuttosto evidente che il ginocchio sia tutt’altro che a posto.

La condizione del nativo di Harrisonburg sono talmente critiche, che la dirigenza opta per la scelta drastica: il 7 dicembre Ralph Sampson viene ceduto ai Golden State Warriors, chiudendo di fatto l’era Twin Towers.

L’ex Rookie of the Year 1983 non riuscirà mai più a tornare al proprio livello pre infortunio.

La leadership di Houston passa quindi nelle sole mani di Olajuwon.

Il n. 34 è ormai un All-Star e i suoi numeri in campo dimostrano che il soprannome affibbiatogli al college, The Dream, sia perfettamente calzante anche nella Lega.

Negli anni a seguire il centro nigeriano vince due volte la classifica dei rimbalzi (1988-89 e 1989-90), realizza una incredibile quadrupla doppia contro i Warriors il 29/03/1990 (18 punti, 16 rimbalzi, 10 assist e 11 stoppate), vince la classifica come miglior stoppatore nel 1989-90, 1990-91 e 1992-93.

Nonostante le grandi performance del proprio leader, Houston non riesce a ripetere la straordinaria cavalcata che aveva portato al Titolo della Western Conference nel 1986.

Tra il 1988 e il 1991 si registrano solo partecipazioni ai Playoffs con cocenti eliminazioni al primo turno.

Nella stagione 1991/92 addirittura arriva una mancata qualificazione alla post season che scoperchia il vaso di Pandora.

Hakeem Olajuwon (da marzo 1991 ha aggiunto un “H” al proprio nome) chiede di essere ceduto.

Il giocatore è scontento dell’operato degli executives, sia per il mancato allestimento di una squadra all’altezza della propria stella, sia per il proprio contratto, giudicato non idoneo al proprio valore.

La franchigia, di contro, accusa The Dream di aver talvolta accentuato qualche infortunio.

Il risultato di queste frizioni, è che tutti in città sono convinti che all’inizio della Regular Season 1992-93 il nativo di Lagos non indosserà più la canotta giallo-rossa.

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In realtà la nuova stagione inizia senza che venga imbastita alcuna trade.

Sul finire del precedente campionato, complici i mediocri risultati, Bill Fitch era stato licenziato e sostituito col proprio assistente, Rudy Tomjanovich.

L’ex capitano della squadra viene confermato anche nella nuova stagione.

Il protagonista in negativo di “The Punch” si rivela un allenatore dal grande carisma, ben voluto dai propri giocatori, ed estremamente motivato e motivante.

I risultati non tardano ad arrivare, perché i Rockets chiudono la Regular Season al secondo posto a ovest, dietro solo ai Phoenix Suns.

Nonostante le lamentele di Olajuwon, la dirigenza di Houston non è rimasta del tutto immobile negli anni ed è riuscita ad aggiungere elementi di qualità riportando la squadra a livello competitivo.

Già nell’estate del 1988, poco dopo la cessione di Sampson, tramite trade era arrivato in Texas Otis Thorpe.

L’idea era quella di affiancare nuovamente al n. 34 un’ala grande di spessore per ricreare l’assetto “Twin Towers”.

Il prodotto di Providence si rivela subito una scelta azzeccata, diventando il nuovo secondo violino della squadra, fornendo anche un gran contributo sotto le plance.

Nel febbraio del 1990 era arrivato via San Antonio Vernon Maxwell. La guardia era soprannominata “Mad Max” per il carattere tutt’altro che docile e pacato, ma aveva trovato un proprio ruolo come guardia nel quintetto dei razzi.

Nel settembre del 1990 si era deciso di affidare le chiavi della squadra al playmaker Kenny Smith, atterrato da Atlanta.

L’ex Tar Heels è un giocatore con un tiro dalla distanza in crescita, dotato di buona visione di gioco e qualità offensive, oltre che discrete qualità atletiche.

Dal Draft del 1992, infine, era emersa l’ala Robert Horry. Il futuro “Big Shot Bob” si rivela un giocatore subito prezioso per lo scacchiere di Houston.

Coach Tomjanovich lo schiera in campo come ala piccola, dato il suo pericoloso tiro da fuori e l’agilità, ma il suo fisico (2.06 mt) lo rende pericoloso vicino a canestro se marcato da avversari più piccoli e rapidi.

Di fatto un vero rebus per le difese, già parecchio impegnate contro il duo Olajuwon-Thorpe.

I Rockets possono così schierare un temibile frontcourt tra i 2.06 mt e 2.13 mt.

I Playoffs 1993 vedono finalmente il passaggio del primo turno, anche se con un sofferto 3-2 contro i Clippers.

L’avversario successivo però si rivela alquanto ostico, perché i Seattle Supersonics sono squadra quadrata e concreta, guidata dal duo Kemp-Payton.

La sfida è tirata fino alla fine, ma nella decisiva Gara 7 al Summit la squadra dello stato di Washington riesce ad avere la meglio dopo un overtime.

Nonostante tutto, Houston è di nuovo tornata nella parte alta della classifica, con la convinzione di riprovarci nella stagione successiva.

Durante la off season il management vuole fornire maggiore pericolosità sul perimetro da Portland arriva Mario Elie.

Con la 24° scelta assoluta, il Draft 1993 porta in dote Sam Cassell da Florida State, scelto per avere un buon back up nel ruolo di playmaker.

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La partenza dei ragazzi di coach Rudy T è straordinaria: subito 15-0 e poi 22 vittorie nelle prime 23 gare.

I Rockets giocano in modo ordinato affidandosi al proprio leader, che è virtualmente inarrestabile.

Le sue immense qualità tecniche gli forniscono un arsenale illimitato in attacco, mentre in difesa è un ostacolo invalicabile in aiuto (3.7 stoppate).

Inoltre, grazie al gioco di Tomjanovich, The Dream è fortemente migliorato come passatore, diventando abilissimo nel punire i raddoppi con passaggi precisi per i compagni.

Il n. 34 viene giustamente eletto MVP e Difensore dell’anno per la stagione 1993/94.

I texani terminano la Regular Season con un record di franchigia di 58-24 e il secondo posto nella Western Conference, proprio dietro Seattle.

Il primo turno della post season questa volta fila via più liscio (3-1 contro i Blazers).

Nelle semifinali di Conference si incrociano le spade contro i finalisti della passata stagione, i Phoenix Suns.

La squadra dell’Arizona vince sorprendentemente le prime due partite al Summit, con Gara 2 che si rivela un autentico incubo per Houston: sopra di 18 all’intervallo, i padroni di casa subiscono la rimonta degli avversari, guidati da Charles Barkley.

Si vola a Phoenix. Data per certa ormai la disfatta, in molti iniziano a soprannominare malignamente Houston come “the Choke City”.

In realtà adesso i Rockets sono una squadra più consapevole del proprio potenziale e dei propri mezzi.

Grazie a un super Maxwell in Gara 3 e al solito Olajuwon in Gara 4, i giallo-rossi riportano la serie in parità e di nuovo in Texas.

L’aria di casa e l’inerzia conquistata, spingono Houston a demolire i Suns e a conquistare il primo match-point.

Phoenix trova l’ultimo sussulto di orgoglio, portando tutti alla decisiva Gara 7, ma la squadra dell’Arizona nulla può contro The Dream e una prestazione monstre da 37 punti, 17 rimbalzi e 3 stoppate.

Il soprannome di Houston è cambiato: “welcome to the clutch city”.

Finali della Western Conference conquistate e prossimi avversari già messi nel mirino: è la volta degli Utah Jazz.

Il team concentra il proprio potenziale sulla coppia Stockton-Malone e sul loro immarcabile pick’n roll.

Nonostante l’ottimo gioco espresso dai ragazzi di Sloan, semplicemente non ci sono armi per contenere il n. 34.

Olajuwon è inarrestabile in single coverage ed è sempre più chirurgico nel punire i raddoppi, per la gioia di Kenny Smith e di tutti i tiratori della squadra.

La pratica Salt Lake City viene archiviata con un rapido 4-1.

Per la terza volta nella storia i Rockets accedono alle NBA Finals.

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