Ci sono storie al limite dell’irreale: esageratamente romantiche da essere quasi incredibili, troppo singolari per essere inventate. Quella di Juan Toscano-Anderson è una di queste.
C’è un ragazzo che, da San Francisco, ha raccontato la pallacanestro a tutti i figli illegittimi di Simon Bolivar: dal Messico alla punta più a sud del Cile, passando per lo stretto di Panama.
Quello di Juan Toscano-Anderson potrebbe essere il solito racconto, sentito e risentito innumerevoli volte: un’infanzia difficile con pochi centesimi e senza padre. Ma non è così. O meglio: c’è di più.
Siamo nel 1965 e dopo un lungo e pericoloso viaggio nonno Macario Toscano arriva a Oakland, in California, da Michoacán, profondo Messico. Trova casa sulla 95esima Strada, in uno dei quartieri più pericolosi e poveri della città.
Juan è fin da subito un unicum. Non con il pallone in mano, per quello ci vorrà del tempo. Però è un fenomeno particolare: nel suo corpo scorre il sangue latino di abuelo Macario – come lo chiama lui – e di mamma Patricia, ma anche quello afroamericano, di un papà mai conosciuto.
Così cresce con la garra, la voglia di lottare, di non mollare mai, di non lasciare un tiro facile agli avversari, ma anche con un fisico lungo e forte, degno del migliore guerriero Ashanti. Un uomo predisposto alla battaglia, alle botte e agli spintoni sotto canestro.
D’altronde questo è il Toscano-Anderson giocatore: non un eccellente trattatore di palla e nemmeno un grande passatore, ma uno che non si tira mai indietro.
La gente, però, guarda male il piccolo Juan, con disprezzo. Per gli ispanici è “el negrito”, per gli altri “the mutt”, il bastardo. Pochi sembrano volergli veramente bene. Lui è “il diverso”.
Eppure, tra i pochi c’è Wilhelmina, una sua insegnante delle elementari. Cos’ha di particolare la maestra? È un ex campionessa di basket all’Upsala College e moglie della leggenda dei Warriors Al Attles.
Toscano è ancora giovanissimo, già abbastanza alto e soprattutto follemente innamorato della palla a spicchi: Wilhelmina lo presenta subito al marito.
Nessuno lo sostiene. Per nonno Macario dovrebbe diventare un calciatore, la mamma e i fratelli pensano, invece, che debba studiare. Ma Juan da retta solo ad Al.
Così ha inizio la lunga ascesa di Juan Toscano-Anderson nel mondo del basket americano, sempre nel segno della sua squadra del cuore: i Golden State Warriors.
«Era incredibilmente atletico e aveva talento – racconta Attles – Gli volevo bene. Era uno dei miei ragazzi».
Partecipa a diversi basketball camp dei Warriors, poi gioca con gli Oakland Rebels, in AAU (Amateur Athletic Union) e infine inizia a farsi conoscere una volta arrivato alla Castro Valley High School, sempre in California, portando i suoi Trojans a un record di 30-2.
Texas, Baylor, UCLA, California-Berkeley e Oregon. Tutti vogliono la “piccola” ala-grande di 198 cm con metà sangue latino e metà afroamericano. Juan, però, sceglie Marquette University.
Il suo rapporto con la pallacanestro è complicato. Sogna fin da bambino i grandi palcoscenici, l’NBA, ma la realtà è che non è abbastanza bravo per raggiungerli. Per lo meno, è quello che gli dicono tutti, e per un momento ci crederà anche lui.
Così la sua carriera si divide in due parti, scandite dal nome che porta sulle spalle.
Pre-Toscano
Assieme all’università di Milwaukee decide di essere “Juan Anderson”, lasciando da parte “Toscano”. Non lo fa per cancellare il ricordo latino dalla sua vita, rifiutando la metà messicana, ma semplicemente per essere chiamato con più facilità.
Eppure qualcosa cambia. Non è più il solito Juan. Con solo “Anderson” sulla canotta gli stimoli vengono a meno, le battaglie a Oakland per arrivare in Winsconsin dimenticate e i grandi sogni sembrano rimanere tali.
Gioca pochissimo e segna altrettanto. Nella prima stagione, tra il 2011 e 2012, sono 4.5 minuti a partita con 0.7 punti di media. Nelle due successive poco cambia, mentre nell’ultima, nel 2014, 8 punti e 6 rimbalzi. Mai una prestazione in doppia cifra fino al Junior Year. Numeri di certo non da NBA.
Non si rende nemmeno eleggibile al Draft del 2015, quello di Karl-Antony Towns per intenderci. Prende la laurea in diritto penale: la sua via è nella Silicon Valley.
«Onestamente: con il basket ho chiuso».
Ma nella vita, a volte, si presentano occasioni imperdibili. Arrivano nei momenti peggiori, quando si sceglie di mollare. E non tutti hanno la forza di rialzarsi. Non tutti hanno il coraggio di accettare una nuova sfida, rimettendosi in discussione. Non tutti: Toscano-Anderson sì.
È una chiamata: viene da Mexico City.
Post-Toscano
Torino, Piemonte, Italia: al Pala Alpitur si giocano le qualificazioni delle Olimpiadi per Rio 2016.
Semifinale: Italia-Messico. Partita a senso unico, stravinta dagli azzurri 79-54 con un grande ultimo periodo.
Però tra i messicani c’è un ragazzino che ha tentato di tutto, che ha tenuto la sua squadra viva fino al terzo quarto: è Juan Toscano.
Ecco la svolta della sua carriera.
Non è più Anderson, ma Toscano. Non è più el negrito o the mutt, ma solo Juan: un giovane sconosciuto, che parla a mala pena lo spagnolo e che è stato una sola volta in Messico, a 6 anni. Eppure è stato convocato dalla Nazionale e brilla incredibilmente con quella canotta.
Così scatta di nuovo la scintilla tra Toscano-Anderson e la pallacanestro. Riprende in mano il sogno di una vita, e non lascia andare vani gli sforzi di una gioventù.
Le prestazioni al preolimpico colpiscono tutti, tanto da portarlo nella prima divisione messicana, al Soles de Mexicali. Poi volerà in Venezuela, ai Bucaneros de La Guaira, per tornare di nuovo in Centro America, nella squadra di Monterrey. Sono anni difficili, in città complicate, dove il basket conta meno di zero.
Eppure gli bastano 4 stagioni, un MVP de La Liga Nacional de Baloncesto Profesional, due Slam Dunk Contest e due campionati messicani vinti per convertire tantissimi latini americani dal calcio alla pallacanestro, per diventare il miglior giocatore del Messico e l’idolo di tantissimi ragazzi.
Dall’essere a un passo da qualche azienda intorno a San Francisco, si ritrova a schiacciare in qualche decadente palazzetto messicano, con ogni probabilità vuoto. Ma è questo quello per cui vive: la pallacanestro.
E quindi continua a sognare, pensa sempre a casa sua, a Oakland, ai Golden State Warriors. Così nell’estate del 2018 si presenta a un allenamento aperto per i Santa Cruz Warriors. 30 giocatori, pochissime possibilità di entrare a far parte della franchigia di G-League, ma nulla da perdere. Juan Toscano-Anderson dà tutto per farsi notare.
«Chi è il numero 46? Juan chi? – racconta Aaron Miles, allora head-coach di Santa Cruz, ora nello staff di Kerr – Mi piace. Si è fatto il culo, ha giocato bene: lo voglio nella mia squadra». Firma, rifiuta più soldi in Messico e, questa volta, decide di tenersi tutto il nome sulle spalle: finalmente è Toscano-Anderson.
Così esplode letteralmente. Juan è felice, sa che ora può veramente farcela. E gioca come se avesse l’impressione di guadagnare qualche attimo di paradiso – di NBA – solo con tiro, un rimbalzo o una stoppata.
«Ha scommesso su di sé – dice Ryan Atkinson, GM di Santa Cruz – Poteva guadagnare di più altrove, invece ha voluto perseguire il suo obiettivo: giocare in NBA per la sua squadra, per la sua città. Dobbiamo tutti imparare da Juan: a volte basta credere in se stessi».
Il 7 febbraio 2020 viene chiamato dai piani alti, viene chiamato dai suoi Warriors, firma al minimo salariale. Sceglie il numero 95, proprio come la 95th Avenue, la prima casa di nonno Macario. È il quinto messicano della storia NBA. «Giocare per il Messico ha salvato la mia carriera, ma soprattutto ha salvato me».
Debutta l’8 febbraio 2020, prima della pausa per il Covid. La prima è contro i Lakers di LeBron (di cui sarà compagno qualche anno dopo), una sconfitta, ma a 26 anni, dopo essere stato vicino a lasciare definitivamente la pallacanestro, ha realizzato il suo sogno. La prima stagione sono 13 partite, 6 da titolare, 5.3 punti, 4 rimbalzi e 2 assist. Coach Kerr lo vuole ancora lì, anche per l’anno successivo.
«Sono un grande fan di Juan – racconta Steve Kerr – È uno di quei ragazzi che capisce il gioco. Non è facile. Fa tutto al momento giusto. Taglia, blocca, raddoppia e aiuta sempre quando deve farlo. È un po’ come Draymond. D’altronde la sua è una storia fantastica, e non ne esci così bene se non hai quella personalità.»
Nella stagione successiva è in prima fila, giocando quasi 30 minuti a partita nelle due gare di Play-In contro Lakers e Grizzlies. Nel 2022, invece, i Playoffs li guarda dalla panchina… ma li conclude, insieme ai suoi Warriors, da campione NBA.
Altro che “Steph’s teammate”, come diceva JTA. E adesso, dopo un’annata tra Lakers e Jazz, anche se tutto dovesse finire, nulla potrebbe cancellare questo viaggio.