Questo articolo è una traduzione autorizzata. La versione originale è stata scritta da Sean Keeler e pubblicata su The Denver Post, tradotto in italiano da Emil Cambiganu per Around the Game.


 

Aaron Gordon non ha sbagliato nemmeno dopo la partita.

«Com’è stato essere il peggior giocatore in campo?», ha chiesto un giornalista a Nikola Jokic dopo una serata no piuttosto rara per l’MVP.

Gordon, che si stava vestendo al suo armadietto a circa un metro e mezzo dal capannello di giornalisti intorno al Joker, si è improvvisamente voltato.

Era una battuta. Simpatica, ironica, almeno nelle intenzioni.

Solo che AG non ha riso.

«Non è stato il peggior giocatore in campo», ha detto il lungo dei Nuggets con un sussurro incredulo. «Che razza di domanda è…»

Ne avevo una migliore.

«Il nome Robert Horry ti dice qualcosa?», ho chiesto ad AG dopo la vittoria folle per 113-104 ai supplementari contro i Thunder, che ha portato Denver in vantaggio 2-1 nella serie prima di Gara 4, in programma domenica.

«Intendi Big Shot Bob?», ha risposto Gordon con un sorriso.

«Esatto», ho detto io.

«Ha bisogno anche lui di un soprannome così», ha suggerito un compagno. «Qualcosa che faccia rima.»

Captain Clutch?

AG3?

Splash Gordon?

«Lascio decidere a voi», ha detto Gordon ridendo.

Il polpaccio fa male. Il cuore pesa. Il tiro è poesia. Il tempismo, da cinema. Gordon ha salvato i Nuggets ancora una volta venerdì notte al Ball Arena, infilando il suo terzo canestro da pareggio o da vittoria di questi Playoff NBA.

Con 27 secondi da giocare e Denver sotto 102-99 in una battaglia – e combattere è il miglior modo per i Nuggets di andare avanti – la stella dei Thunder, Shai Gilgeous-Alexander, ha sbagliato un tiro dal palleggio da 6 metri e mezzo. Jamal Murray ha preso il rimbalzo e ha lanciato la transizione.

La Freccia Blu ha superato la metà campo, rallentando fino all’arrivo dei compagni. Gordon lo seguiva alla sua destra, poi ha tagliato verso sinistra, attraversando l’area come una ruota libera, senza marcatura. Murray lo ha trovato nell’angolo.

Quando Chet Holmgren, snodato lungo dei Thunder, si è reso conto che era lui il più vicino a Gordon, era già tardi. AG aveva colpito ancora, per la seconda volta in tre partite, sfruttando il caos.

«Quante ore hai passato ad allenarti su quella tripla dall’angolo?», gli ho chiesto dopo.

«Tantissime», ha risposto Gordon, con un altro sorriso. «Tantissime.»

I Nuggets hanno fatto scambi più appariscenti, ma quello di marzo 2021 che ha portato Gordon da Orlando, col senno di poi, potrebbe essere stato il migliore.

Ogni momento a Denver, Gordon lo ha affrontato di petto. Ogni sfida, l’ha accolta. Ogni ruolo, lo ha abbracciato.

È arrivato dalla Florida come uno scorer spettacolare e ad alto volume. Ma quei tiri, a Denver, erano già prenotati.

Quando la squadra aveva bisogno di un picchiatore, si è rinforzato. Quando serviva un difensore, ha studiato ore di filmati. Quando, persi Bruce Brown e Kentavious Caldwell-Pope, c’era bisogno di un tiratore da tre, è tornato nella sua palestra personale, in quel magazzino che ha trasformato in sala d’allenamento. Ha tirato, tirato, e ancora tirato, limando ogni difetto, raddrizzando la meccanica.

«È davvero un ottimo giocatore, prima di tutto», ha detto di lui l’allenatore di OKC, Mark Daigneault. «Non sta facendo più di quanto possa. Questo è ciò che è. È un elemento fondamentale per loro da tempo, e in queste partite si è fatto sentire.

«Ha messo tiri e fatto giocate enormi venerdì. Onore a lui. Ma, nel complesso, penso che abbiamo fatto un buon lavoro nel limitarlo in penetrazione (in Gara 3). Rivedremo le immagini, ma… dobbiamo essere pronti alla sfida.»

Senza Gordon, i Nuggets sarebbero probabilmente già a sorreggere l’economia locale di Cancun e a curare i cavalli nelle stalle di Sombor.

«La gente capisce il sudore», gli ho chiesto, «che serve per cambiare il tuo gioco, per evolverlo?»

«Sì, ci vuole tanto lavoro. Ma la ricompensa è il lavoro stesso», ha risposto il numero 50. «Non m’interessa se gli altri lo lodano o meno. Non mi importa.»

In sette partite di questi Playoff, AG ha tirato col 56% dal campo (15 su 27) e col 50% da tre (7 su 14) nei quarti quarti o nei supplementari, con punteggio entro i 15 punti di scarto.

«Quanto è alta la tua fiducia in questo momento?», gli ha chiesto un giornalista.

«Alta», ha detto Gordon.

«Il canestro ti sembra… più grande?»

Un cenno.

«Mm-hmm.»

I Nuggets, nelle serate buone, hanno cinque marce. OKC può spingersi fino a otto. Denver non è abbastanza profonda, né abbastanza spettacolare, per asfaltare una squadra da 68 vittorie.

Ma nel finale conta la calma. Le cicatrici ti portano oltre il traguardo. Quattro vittorie brutte valgono più di tre sconfitte nette. Se serve, anche così.

«C’è continuità in tutto questo. Ci siamo già passati», ha spiegato Gordon. «L’abbiamo fatto al massimo livello. Abbiamo grandi giocatori. C’è fiducia.»

C’è una vibrazione. Se metti i Thunder in una presa, si irrigidiscono.

«Quello che (Gordon) sta facendo in questi Playoff è stato incredibile per noi», ha detto Peyton Watson, super riserva dei Nuggets. «Ci ha fatto vincere delle partite, e abbiamo bisogno di tutto ciò che può darci. Sono felicissimo per AG, per tutto quello che ha passato, per la persona e il compagno di squadra che è. Non poteva capitare a uno migliore.»

Un uomo che sta crescendo i suoi nipoti, Brody e Zayne, figli del fratello Drew, scomparso la scorsa primavera a soli 33 anni.

«So che Drew è con me», ha detto Gordon. «Ho con me i suoi figli. Sto solo cercando di essere un esempio per loro.»

Solo che è diventato un esempio per tutti noi. Quando voli a questi livelli, non vuoi più scendere. L’MVP della serie, finora, indossa il 32 per Drew. Da solo sull’ala, con gli angeli alle spalle. E lame negli occhi.


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