L’era di Joel Embiid ai Philadelphia 76ers sembra dover finire lasciando a tutti l’amaro in bocca, ma era davvero lecito aspettarsi qualcosa di diverso?

Questo contenuto è tratto da un articolo di Mike Sielski per Philadelphia Inquirer, tradotto in italiano da Emil Cambiganu per Around the Game.
La critica fondamentale a Joel Embiid per gran parte della sua carriera con i 76ers si può ridurre alle richieste più basilari rivolte a un atleta d’élite: essere in forma e restarci. Essere sano e fare tutto il possibile per rimanerlo.
Tutte le affermazioni secondo cui gli undici anni di Embiid a Philadelphia siano stati, in sostanza, uno spreco derivano da questa premessa. Certo, Embiid ha dato più di un motivo per dubitare del fatto che sarebbe mai riuscito a portare i Sixers a un titolo, per non parlare di una serie di stagioni dominanti che avrebbero giustificato, agli occhi di tutti, i sacrifici estremi imposti da The Process, con anni di tanking.
Dai tempi in cui, da rookie, beveva litri di Shirley Temple zuccherati, agli episodi più recenti in cui è stato ripreso per la sua scarsa puntualità da Tyrese Maxey, passando per le serie di Playoff non chiuse come avrebbe dovuto e il suo crescente senso di intoccabilità e indignazione, Embiid ha offerto ai critici un’infinità di argomenti. Tuttavia, ciò che ha alimentato più frustrazione e scetticismo sono state le sue ripetute e prolungate assenze dal campo, diventate ormai il punto focale di ogni discussione su di lui. Soprattutto in questa stagione, ormai persa, in cui i problemi al ginocchio sinistro sollevano il dubbio che possa tornare anche solo vicino al giocatore che ha vinto l’MVP due anni fa.
Il dilemma della resistenza
Joel Embiid, in undici anni di carriera, non ha mai disputato più di 68 partite in una singola stagione. Se solo avesse giocato alle Olimpiadi… Se solo si fosse allenato di più… Se solo avesse fatto di più…
D’accordo. Supponiamo che si fosse impegnato di più. Supponiamo che si fosse allenato e avesse giocato con maggiore costanza. Dopo aver saltato i primi due anni in NBA a causa di infortuni, Embiid ha disputato 452 delle 738 partite di regular season disponibili nei nove anni successivi. Non ha mai superato le 68 partite in una stagione. Supponiamo che lo avesse fatto. Supponiamo che nessuno avesse mai parlato di “load management” durante la sua permanenza ai Sixers e che, dal 2016-17 in poi, lui e la squadra avessero deciso di giocare ogni singola partita con l’obiettivo di raggiungere la grandezza a tutti i costi. Nessuna visione a lungo termine, nessun discorso sulla maratona che è una carriera NBA. Solo uno sprint senza freni. E se si fosse rotto nel tentativo, pazienza.
La sua carriera sarebbe stata migliore?
I Sixers avrebbero avuto più successo?
Realtà e storia
Si è detto tante volte che i lunghi NBA hanno spesso visto le loro carriere rovinate dagli infortuni. Ma vale comunque la pena rivedere la storia e alcune delle evidenze scientifiche che aiutano a contestualizzare il percorso di Embiid.
Nell’agosto del 2022, la rivista Arthroscopy, Sports Medicine, and Rehabilitation ha pubblicato uno studio che evidenziava una correlazione tra il carico fisico e il rischio di infortunio al ginocchio nei giocatori NBA. L’analisi multivariata ha mostrato che un alto minutaggio e un elevato tasso di utilizzo non solo erano correlati a un maggior rischio di infortunio, ma anche a un aumento delle partite perse. Questi fattori risultavano significativi anche tenendo conto di variabili come età, indice di massa corporea e numero di partite disputate. In altre parole, più un giocatore è in campo, più è probabile che si faccia male e che debba stare fermo a lungo.
Lo studio si concentrava sui problemi al ginocchio, ma è chiaro che non siano solo le ginocchia a soffrire quando un atleta di circa due metri e tredici, che pesa intorno ai 130 chili, è costantemente sottoposto a movimenti esplosivi, torsioni, tagli e salti.
Brad Daugherty riuscì a giocare almeno 71 partite in sei delle sue otto stagioni con i Cleveland Cavaliers, ma la sua carriera si concluse comunque presto a causa di problemi alla schiena. Greg Oden disputò appena 105 partite in NBA prima che le sue ginocchia lo fermassero. Sam Bowie, limitato da fratture da stress alle gambe, passò dall’essere un centro dal grande potenziale alla risposta a una domanda di trivia amara: chi è stato il giocatore scelto prima di Michael Jordan dai Portland Trail Blazers nel Draft del 1984?
Almeno i Blazers, prima che gli infortuni lo stroncassero, riuscirono a vincere un titolo nel 1977 con Bill Walton, che guidò Portland al successo contro Julius Erving e i Sixers. Forse questo lo rende “migliore” di Embiid sotto certi aspetti. Ma non cambia il fatto che Walton abbia saltato quattro stagioni intere per infortunio e che, nelle dieci stagioni in cui ha giocato, abbia disputato 67 o meno partite in nove di esse.
Il confronto con Yao Ming
Ma se c’è un giocatore che rappresenta il dilemma di un centro dominante ma fragile, quello è Yao Ming. Come può una franchigia massimizzare il talento di un lungo dal fisico fragile prima che il suo corpo lo tradisca?
“Era un giocatore dominante, dominante,” raccontò Jeff Van Gundy, che allenò Yao per quattro stagioni agli Houston Rockets. “La gente dimentica quanto fosse forte. Distruggeva Dwight Howard, lo umiliava ogni volta.”
Alto 2,29 metri, Yao cercava di mantenere il suo peso il più basso possibile — tra i 136 e i 138 chili, con appena il 4-5% di grasso corporeo. “Era incredibilmente in forma, ma comunque, l’impatto sul suo fisico era tremendo,” spiegò Van Gundy. “Bisogna gestire un giocatore del genere, sia in partita che in allenamento.”
Quando era al massimo della forma, Yao era uno dei giocatori più dominanti della lega: per tre stagioni consecutive mantenne una media di 23 punti, oltre 10 rimbalzi e quasi 2 stoppate a partita. Ma il suo corpo non resse: prima l’alluce, poi il piede, poi il ginocchio. Dopo appena sette stagioni, la sua carriera era sostanzialmente finita.
“Abbiamo cercato di limitarlo il più possibile,” disse Van Gundy. “Puoi provare a farlo riposare, ma devi anche mantenerlo in ritmo per farlo giocare bene. È il sottile equilibrio che devi sempre trovare. Guardando indietro, forse avrei dovuto rallentarlo un po’, ma poi non sarebbe stato il giocatore che è stato. Se non lo fai allenare mai, quanto bene può giocare?”
L’era Embiid: successo o delusione?
Lo stesso dilemma ha segnato l’era di Joel Embiid: due titoli di miglior marcatore, un premio MVP, tante speranze infrante. Nove anni ai Sixers e, forse, il meglio di lui è già passato. E non è stato abbastanza per vincere un solo titolo. Non è stato abbastanza per raggiungere nemmeno una finale di Conference. Non è stato abbastanza per lasciare tutti soddisfatti.
Ma se, alla fine, fosse semplicemente il massimo che si potesse ottenere?