Cronaca di un pomeriggio a Milano.

«Le gioie della vita? Michelle Pfeiffer, il cioccolato… e Kobe in campo aperto.»
– Federico Buffa
Sono trascorsi già cinque anni da quel 26 gennaio 2020. Ben sessanta mesi o, se preferite, milleottocento ventisette giorni da quando Kobe Bryant non è più fra noi. Cinque anni dilatati, difficili, in cui si è visto, letto e ‘scrollato’ di tutto. Ciò detto, la dipartita di Kobe non sembra aver esaurito la narrativa attorno al figlio di Joe “Jellybean” Bryant. Anzi, l’epica è ben lungi dall’esaurirsi e la Mamba Mentality, oggi più che mai, sembra essere la versione cestistica dello sdoganato Veni, vidi, vici con cui Giulio Cesare annunciava le sue straordinarie imprese. Nessuna immagine, nessuna biografia, nessuna videoclip o epitaffio da social network, sembra riuscire a consentire davvero di elaborare la perdita e superare il lutto di una generazione intera.
E dire che all’inizio della sua carriera erano tanti i dubbi sulla matricola da Philadelphia, classe ’78. C’era qualcosa che stonava in tutta quell’aneddotica sul fenomeno cresciuto in Italia fra Rieti, Reggio Calabria, Pistoia, e Reggio Emilia, sempre al seguito del padre giramondo dei canestri europei.

A diciassette anni il chiacchieratissimo Kobe aveva già programmato tutto. Così sicuro di sé, sbruffone quanto basta, era soprattutto un lavoratore indefesso, in perfetta antitesi con molti giovani promesse che non lavoravano in palestra quanto avrebbero potuto e dovuto e, soprattutto, per i quali, a quell’età, la pallacanestro era un favoloso mezzo, non un fine. Forse era solo invidia quella che circondava il Bryant adolescente. Sapere quanto si prendeva sul serio, vedere il modo in cui viveva la pallacanestro faceva storcere il naso. Riconoscere che là fuori c’era un ragazzo che lavorava più duramente di tutti gli altri per molti era insopportabile. All’inizio, anche fra gli appassionati di basket in Italia si tendeva a dare poco peso all’hype creatosi attorno al giovane americano che parlava un italiano sorprendentemente fluente. Appariva sulle pagine di American Superbasket e nelle trasmissioni su TMC2, attirando l’attenzione non solo per le sue abilità sul campo, ma anche per episodi curiosi, come l’invito al ballo liceale rivolto a una popstar come Brandy, o per la scelta di dichiararsi per il draft NBA ancora minorenne, bypassando del tutto l’università.

Anch’io, inizialmente, ero tra gli scettici. Eppure, i dissapori fra me e Kobe erano destinati a dissolversi in fretta. A farmi cambiare idea bastò un caldo pomeriggio di settembre a Milano. Da lì in poi, Kobe Bryant, per i fan della NBA, divenne una sorta di “fratello maggiore”, una figura con cui confrontarsi, sia nello sport che nella vita quotidiana. Un ragazzo speciale, ma al tempo stesso non così diverso dagli altri, con i suoi punti di forza e le sue debolezze. I suoi successi sul parquet — dall’MVP del 2008, agli 81 punti contro Toronto nel 2006, fino ai due campionati vinti con i Lakers da MVP delle Finals nel 2009 e nel 2010 — costruirono un legame invisibile ma forte con chiunque trovasse ispirazione nei suoi traguardi. Allo stesso modo, le sue difficoltà e controversie rispecchiavano le battute d’arresto e le sfide personali di molti: l’egoismo in campo, i litigi coi compagni e coach Phil Jackson che costarono il posto a Shaquille O’Neal, la sua competitività tossica, fino al presunto caso di stupro che lo vide entrare e uscire dai tribunali del Colorado a lungo, almeno fino a quando le accuse nei suoi confronti non vennero ritirate.
E senza dubbio alcuno furono proprio queste ‘luci e ombre’ a renderlo più umano, avvicinandolo ulteriormente agli appassionati. In lui, tanti poterono rivedere le proprie delusioni, i momenti di perdita di fiducia e le difficoltà; eppure, come Kobe, non si arresero. Fu grazie a lui che per molti divenne possibile contemplare l’idea di vivere di sola passione. Il cinque volte campione NBA dimostrò che una passione, in quanto dedizione pura e miracolosa, poteva rappresentare e incarnare l’andatura e il respiro dell’universo intero. Con il passare del tempo, come inevitabilmente accade, anche la parabola sportiva di Kobe Bryant iniziò a declinare, segnando la fine di un’era per molti appassionati di basket. Era semplicemente la vita che andava avanti, scorrendo davanti agli occhi di tutti senza aspettare nessuno. E immobili non potevamo stare. Ecco, quindi, che per Kobe arrivarono gli infortuni, le stagioni perdenti, il farewell tour lungo sei mesi, fino all’apoteosi un po’ posticcia culminata coi sessanta punti nell’ultima partita della sua carriera contro gli Utah Jazz.
Nel frattempo, molti fan che lo avevano seguito fin dall’inizio avevano appeso metaforicamente le scarpe da basket al chiodo, magari per inseguire altre passioni o per affrontare nuove sfide personali rimanendo aggrappati al corrimano della vita e provando a resistere ai suoi scossoni; traslochi, perdite, nuovi inizi. Lo smalto brillante della sua carriera e della passione dei fan sembrava ormai opaco, e ciò che una volta era stato un legame indissolubile appariva distante. Poi, il 26 gennaio 2020, arrivò la notizia. Nelle chat e nelle conversazioni si diffuse il messaggio dell’incidente a Calabasas, in cui Kobe, sua figlia Gigi e altre sette persone persero la vita, lasciando un vuoto profondo e doloroso nel cuore di milioni di appassionati in tutto il mondo. In molti sperammo in un errore. Magari l’ennesima fake news che, come i mattoncini della Lego, infestano le intercapedini della moderna comunicazione. E invece era tutto vero. Lo schiaffo ricevuto fu forte. Sembrava un’ingiustizia perdere Kobe così, in un incidente d’elicottero, una morte assurda per una figura che aveva sempre vissuto a cento all’ora.
Ci si chiedeva se avesse compreso cosa stava accadendo, se avesse cercato disperatamente di proteggere sua figlia, in un ultimo gesto d’amore, come un tagliafuori nella vita reale. Ma quella razionalizzazione, come la coperta di Linus, non bastava a colmare il vuoto. Così, in tanti si ritrovarono a cercare risposte e conforto ovunque: aprendo articoli della stampa estera, da Bleacher Report a The Ringer, leggendo commenti su Reddit e persino i necrologi sui media italiani, spesso sterili traduzioni di testi americani. Le ore passavano, e nelle case silenziose, nel buio di cucine e camere da letto, la tristezza si diffondeva, profonda e persistente. Una tristezza che, con il tempo, non si è attenuata; è diventata più definita, meno onirica e più concreta, come una sagoma che avanza lentamente, indifferente, ma sempre presente.

Ma ora, come detto, voglio tornare al settembre del 1997. Quando a Milano conobbi il mio Kobe, che Mr. Bryant, quello vero, non l’ho conosciuto davvero mai. A conti fatti, fu anche l’unica volta in cui ci sfiorammo. Reduce dal suo primo anno di professionismo, era in Italia come testimonial di Adidas e del suo torneo di basket tre contro tre itinerante, lo Streetball. Solo una manciata di mesi prima, aveva gettato al vento le esigue speranze di titolo dei suoi Lakers sbagliando tre tiri nell’ultimo minuto nella serie di primo turno contro i Jazz (Utah, sempre lei…) che erano costati l’eliminazione ai playoff per LA. Io, da buon nerd NBA, in quell’anno avevo vivisezionato tutto il materiale a disposizione (non granché per i mezzi dell’epoca) e per il talento da Philadelphia avevo avuto uno sguardo attento e lucido. Immaginate la mia curiosità nel trovarmelo davanti, con quel fisico asciutto e dinoccolato, un fascio di nervi pronto a sprigionare il suo talento da un momento all’altro.
Da spettatore privilegiato lo osservai gigioneggiare sul campo da basket imbastito per l’esibizione dallo sponsor. Nonostante la sinuosità con cui deambulava nulla lasciava presagire che, dopo i soli sette punti di media tenuti in stagione, il ragazzo fosse in rampa di lancio per diventare il miglior giocatore del pianeta. Peraltro, in quegli occhi, ora così vicini, intravidi qualcosa, un guizzo, una scintilla che ardeva, nulla che si potesse immaginare coesistere nelle pupille di un diciannovenne. Eppure, solo un anno più tardi, avrebbe raccolto il testimone dal miglior giocatore della storia del gioco, sua maestà Michael Jordan. Quella consapevolezza non venne digerita subito. Mi ci vollero diverse ore per metabolizzarla. Fu una questione di percezione, come un’epifania a cui si assiste e per la quale i semi germoglieranno solo più avanti. Il tutto avvenne in modo spontaneo. Successe che ci guardammo, io e Kobe, in più di un’occasione.

Al primo eye contact non diedi troppa importanza. Ok, pensai, è solo il campione in carica dello Slam Dunk Contest. Certamente credevo che il suo cuore, il suo umore, fosse quello del ragazzino che a febbraio si era divertito al Rookie Game di Cleveland, in mezzo ad altri giovani fenomeni dal sicuro avvenire (fra i tanti, Ray Allen, Stephon Marbury, Steve Nash e Allen Iverson) in quel romanzo che è l’NBA colma di personaggi indomiti, intrisi di una vitalità luminosa e scintillante. Ragazzi come noi, ma anche giovani divinità inconsapevoli del posto che per puro caso gli è toccato in un mondo che guarda altrove, anzi non guarda proprio, perché non ha occhi. I nostri, di ’occhi’, invece, si incrociarono in altre due occasioni (lasciatemi dire che in questo, invero, fui avvantaggiato dall’altezza, centonovantaquattro centimetri che, in mezzo alla folla assiepata sugli spalti, mi permisero di svettare come un Robert Horry nella foto di classe delle medie). Il mio sguardo insistente, liquido, quasi parossistico, in qualche modo lo colpì. A un tratto, Kobe si prese un tiro da distanza impossibile e la palla mancò il ferro di un metro abbondante. Mentre tornava in difesa, d’impulso, ruggii in italiano:
«L’anno prossimo!»
Lui mi guardò accigliato. Conosceva bene la mia lingua. Gasato dalle sue attenzioni continuai, questa volta in inglese.
«You’ve got to remember stuff like that!»
Mi guardò ancora. Era troppo intelligente, studioso del gioco, per non sapere che avevo appena citato alla lettera Shaq il quale, dopo i suoi airball contro i Jazz, lo aveva difeso con la stampa dicendo che grazie a quegli errori sarebbe diventato più forte.
Dopo il mio urlo, il sorriso che colsi sul viso di Kobe mi lasciò di stucco: era di una timidezza feroce. Sulle tribune, tutti stavamo guardando Kobe, come satelliti risucchiati da un’orbita gravitazionale irresistibile. L’azione successiva, l’ex alunno della Lower Marion High School si fece dare il pallone e con un palleggio incrociato che ingannò il difensore, si prese l’area e decollò inchiodando una schiacciata in reverse. Quando si girò, dopo essere atterrato sinuoso come un aggraziato deltaplano, ci scambiammo un altro sguardo. Niente più timidezza, in quegli occhi, solo paurosa intensità, occhi da Medusa. Ebbi la netta sensazione di assistere all’inizio di ‘qualcosa’. But something big. Sempre fissandomi negli occhi, alzò un poco il mento, come a dire “amico, e questo è niente”. Nell’azione che seguì difese con pigrizia e il suo avversario andò a segnare un comodo lay-up. Dio quanto è arrogante, pensai. Ero rapito da quella tracotanza
Finì l’esibizione. La squadra di Kobe vinse ‘tanto a poco’. Uscendo dal campo si girò verso gli spalti. I suoi occhi mi trovarono. Un altro cenno. Stentavo a crederci. Fu il suo modo di salutarmi, senza farlo davvero. E così andò che grazie a quel pomeriggio capii un sacco di cose su di lui e quindi anche su di noi. Capii come i più giovani fra noi fossero ancora esseri indefinito che anelavano di trovare la propria strada. Kobe, più grande di due anni, l’aveva già imboccata la sua, invece. Il giorno seguente lo sponsor organizzò una sessione di autografi ma io preferii restarmene a casa. Sfumò così la possibilità di stringergli la mano e farmi firmare un poster. La verità è che non me ne importò granché, che tanto la mano era come se ce la fossimo stretta lo stesso. Il giorno dopo, spiaggiato sul divano, intuii altre cose di lui e, inevitabilmente, su di me. Realizzai che io ero ancora dentro la narrazione della mia vita. Kobe ne era uscito per prenderne il controllo. Io che dovevo ancora trovare il mio posto nell’universo. Comprendere a pieno la parola sacrificio. Bryant, di lì a poco, avrebbe reso il mondo del basket il suo personalissimo parco giochi. Nondimeno, gli sarebbe costato rinunce indicibili.
Dopo Milano, Kobe tornò in diverse occasioni in Italia, ma io non lo incrociai più. Tuttavia, non mi persi niente dei primi quindici anni della sua maestosa carriera. Solo che lo avrei fatto con una coscienza di me diversa, più radicata nella realtà, meno evanescente, che mi permise di capire che il talento, molto spesso, è un dono che piove dal cielo. Il rischio è di tirare avanti. Lui non si era fermato e, mentre noi tutti eravamo ancora immobili su quegli spalti, si era mosso di conseguenza. Poi, anche per me, la tensione si allentò e, come le storie d’amore che sembra impossibile finiscano, la carriera di Bryant terminò. Ma con un ultimo acuto, il cortometraggio ‘Dear Basketball’ scritto da lui e diretto da Glen Keane, basato sulle lettere scritte da Kobe e pubblicate il 29 novembre 2015 sul The Players’ Tribune, in cui annunciò il suo ritiro dal mondo della pallacanestro.
E oggi? Oggi sono cinque anni che Kobe Bryant non c’è più. Restano gli highlights un po’ sgranati su Youtube, i record, i trofei, la maglia ritirata col doppio numero, 8 e 24, che penzola dal soffitto della Crypto.com Arena e il ricordo dei nostri sguardi che si sfidarono in quel pomeriggio afoso con il Castello Sforzesco a farci da sfondo. Però, malgrado siano passati già cinque anni dalla sua dipartita, mi disorienta sempre realizzare che, quando guardo una partita di basket oppure quando corro ascoltando un podcast sull’NBA, o scrivo un racconto come questo, non potrò più pensare: chissà cosa starà facendo Kobe?
Che altro resta da dire? Ah, sì. Mamba out
