Un pensiero – con buona pace della retorica – sul ritiro di Manu Ginobili.

Dunque il gong è finalmente giunto. Inesorabile. Ma atteso.
A 41 anni, di cui oltre 30 spesi a vari livelli al servizio del Gioco, Emanuel David Ginobili ha deciso di chiudere definitivamente la propria carriera. Quando la leggo, la notizia dilaga già da più di due ore: giornali, Facebook, Twitter. Il carro della commemorazione, vestito a festa con i suoi i gonfaloni e colori ridondanti, è ormai partito sulle note di una marcia solenne. Non si fermerà più per giorni.
Quando si ritira un grande mi chiedo sempre dove si collochi la linea di confine della retorica. In ognuno di noi nasce quasi un’incontrollata esigenza di dire la propria, di ricordare in modo personale questo o quel personaggio che ha segnato in un diverso ambito la nostra epoca. Ma alla fine, nolenti o volenti, si cade sempre nella solita, vecchia, altisonante retorica. Uniformandosi agli altri credendo di essere originali.
Non che sia questo sia un male assoluto. Spesso, infatti, si parla di personaggi che fanno parte della cultura di massa, pertanto è normale che sia così. E quasi certamente io stesso, tanto confuso al riguardo, mi ci sto ritrovando seduto a cavalcioni. Su questo confine. Pronto ad invaderlo senza ritorno come chiunque altro con le mie “personali” emozioni.
Anche perchè Manu, rispetto ad altri grandi della storia del Gioco, per la sua essenza da’ come l’impressione di essere uno di noi. Di noi “normali” ma anche e soprattutto di noi italiani, solitamente tanto appassionati dalla suddetta retorica. Un amore reciproco che parte dalle sue origini, prosegue con Reggio e Bologna e trova il suo apice in una Lega che abbiamo iniziato a seguire con grande interesse anche e molto grazie a lui. Con il suo modo di giocare, geniale e sregolato, imprevedibile e passionale, Manu ha richiamato il modo in cui spesso interpretiamo e amiamo la vita. Fa parte del nostro popolo.
Ricordo una giocata, in Gara 1 di semifinale contro i Warriors. Erano i Playoffs del 2013. È il secondo overtime di una partita che pare infinita, chiusa dagli Spurs a più riprese e riaperta altrettante da un colpo di reni di Golden State. In un’epoca in cui la punta dell’Iceberg “Steph Curry” iniziava già ad intravedersi e non di poco. A 46 secondi dalla fine gli Speroni sono avanti di 3 e Ginobili, non si sa se per avere la certezza dell’ultimo tiro o per ammazzare la partita, riceve palla un metro e mezzo dietro la linea da tre, ci pensa su, e spara. Piccione che a malapena vola fino al primo ferro. Dall’altra parte Curry attacca Diaw e segna un floater insensato. -1 Golden State e poco più di 27 secondi dal termine.
Parker gioca col cronometro, dilata l’azione più che può e poi attacca Bazemore, che con una difesa monumentale lo induce all’errore. Per poi lanciarsi in contropiede, ricevere palla da Steph – di sinistra, dal palleggio… guess who? – e appoggiare il +2 Warriors comodo comodo al tabellone. A 3.4 secondi dal termine.
Un dramma, per l’intero AT&T Center. La scelta di tiro totalmente fuori luogo di Manu ha di fatto rigirato la situazione. Il time-out di Pop si apre con una eloquente grattata di capo e un sopracciglio rivolto all’insù in direzione del suo numero 20. Toccava uscire da questa situazione. Nella quale lui stesso li aveva infilati.
Leonard è deputato alla rimessa. Treno di blocchi portato da Diaw e da Ginobili per Parker, che non riceve sulla pressione di Jarrett Jack e Barnes. Manu, consegnato Bazemore sul blocco continuato di Diaw, si apre. Riceve. Spara.
“E figurati se dopo quella fesseria non ti mette questo tiro! Figurati!”
Come già altre volte, il pallone decisivo è passato dalle sue mani. E, come già altre volte, ha escogitato un modo diabolico per farlo fruttare.
Nell’arco di 40 secondi Ginobili ha ucciso e rianimato la partita. Con maestria e arte tali da far dimenticare il terrore vissuto pochi istanti prima. “Ho sbagliato. A modo mio. Rimedio. A modo mio.” Lasciandoti il piacere di poter scorrere sul suo volto tutta la declinazione delle emozioni che sta vivendo. Creando così una connessione, un rapporto di empatia che permette a chi lo ammira di vivere con lui la passione del momento. Senza freno inibitore alcuno, nella gioia e nel dolore, Manu è così. In controllo e fuori controllo. Sempre decisivo. Grazie, Manu.
E poi i tunnel, gli eurostep – autentica signature move – gli assist. Sotto le gambe dell’avversario, in no look, dietro la schiena, battuti a terra nella selva di una transizione offensiva. Irridente, geniale.
“Ho sempre giocato così: imprevedibile.”
Ne ricordo uno dopo aver attaccato la linea di fondo dall’angolo di sinistra. Il campo ormai è finito, e in area lo attende il traffico dell’ora di punta. Nel momento in cui chiunque lo darebbe per spacciato si inventa un passaggio ad effetto di mano sinistra, dal fondo per l’uomo in angolo dalla parte opposta; con la palla che, in volo, pare uscire e rientrare dal campo, prima di essere ricevuta e infilata nella retina dalla lunga distanza. Così… come bere un bicchier d’acqua.
Per non parlare di quando raccolse una palla vagante a centrocampo con una sola mano – ovviamente, la sinistra – e sparò in un solo movimento un missile terra aria nelle mani di un meravigliato Matt Bonner. “Per me due punti. A te mille grazie, Manu.”
Una lista di movimenti e giocate che le generazioni successive gli hanno “copiato”; da James Harden a Steph Curry: quanto c’è in loro di Ginobili?
E quante altre volte ha fatto impazzire gli avversari? Facendo letteralmente scomparire e riapparire la palla in penetrazione. Oplà. A turno, molti difensori si sono accomodati al bar del palazzetto, a prendere un cocktail con tanto di ombrellino. Tanto offre Manu. Grazie.
Per non parlare di alcuni veri e propri scippi, palloni sottratti pur nel tentativo di non palleggiargli sotto al naso. “Grazie mille del regalo.” O su un passaggio apparentemente banale. Ne sa qualcosa Yao Ming, di palle rubate… e poster dunk.
Già, i poster. O IL Poster? Perché in quella schiacciata su Bosh, in Gara 5 delle Finals 2014 c’è tutto il Manu che c’è in Manu.
Gli occhi rivolti al ferro colmi di cattiveria. Di rabbia. Per quel titolo perso a 5.2 secondi dal traguardo, con il capolavoro di Ray Allen. Un dolore troppo grande. Il cuore ancora sanguinante. Il desiderio di rivincita. A spingerlo oltre l’ostacolo, a ridargli a 37 anni l’esplosività di un ragazzino. La stessa di quando levitava cambiando di mano il pallone in aria, appoggiandolo poi al tabellone con la leggerezza del volo di una piuma. La schiacciata con cui fa detonare in un boato assordante le poche speranze di Chris Bosh di fermarlo e dei Miami Heat di riprendere la partita ha un solo significato: “ci avete tolto qualcosa che era già nostro. Oltre che una parte del nostro cuore. Vi abbiamo voluto. Vi abbiamo trovato. Grazie.” Una gemma, in una delle gare più belle della storia delle Finals. Ciliegina sulla torta di una stagione nella quale gli Spurs, spinti dalla sete di vendetta, hanno regalato al mondo una pallacanestro celestiale destinata ad entrare per sempre nella memoria collettiva.
Con i compagni di una vita, Timmy e Tony, ha segnato macroscopicamente la storia della Lega. Componendo un trio che verrà ricordato come uno dei più forti e vincenti di sempre. Ed è il sorriso di Duncan che accompagna, assieme ad un buffetto, quella schiacciata. Un sorriso di consapevolezza: che quel quinto titolo è ormai saldamente nelle loro mani. Ancora una volta con la firma del Mascalzone Latino. Il quale, dopo una manciata di secondi, manda al tappeto la difesa degli Heat con uno step back da tre fantascientifico. Due giocate antologiche. Ancora una volta, grazie Manu.
E infine Popovich. Un amore, quello tra i due, nato dalle difficoltà iniziali. Di accettare – per Pop – il puro istinto di Ginobili. Lui, che sulla forza e l’ordine di un sistema aveva costruito una macchina perfetta. Lui, che aveva ideato e realizzato The Spurs Basketball. Difficoltà accantonate ben presto, grazie al carisma e allo spessore di due esseri umani speciali capaci di affascinarsi magneticamente. E ad una partita contro Memphis. Nel febbraio del 2002. Quando El Narigon è solo un cambio, ma nell’occasione sorprende il coach mutando radicalmente con la sua freschezza il volto del match. Un rapporto di profondità indescrivibile, tanto da portare Popovich a brindare “a Manu Ginobili” con Ettore Messina, in occasione di una cena durante il soggiorno dell’allora coach del CSKA a San Antonio.
Stesso responso che diede ad un bordocampista, reo di avergli chiesto il motivo per il quale avesse avesse schierato il 20 all’inizio del terzo periodo di una partita che lo aveva visto ampiamente sotto tono.
Eccomi. A rileggere quella che non voleva essere né una lettera né un commiato. Ma un tentativo di raccogliere le idee, e tentare di darmi una risposta sul perché personalmente Manu Ginobili abbia avuto un così grande spessore. E proprio mentre rifletto su cosa potrei aggiungere, su quale azione o giocata ho dimenticato, se non sia il caso di parlare meglio del quadriennio Reggio-Virtus e dell’importanza che ha avuto per il nostro movimento, o della sua olimpiade, della sua Argentina, o forse di quella volta che fece impazzire Pop fingendo di prendersi un tiro, o ancora di quando abbattè con una manata un pipistrello che svolazzava sul parquet dell’AT&T, … mi ritrovo a chiedermi: sono caduto anche io nella tanto temuta retorica?
Una parte di me risponde “Sì” senza nemmeno rifletterci per un istante. L’altra, la più passionale, la più istintiva, la più… imprevedibile se ne infischia. Perché, al di là di enfasi, episodi non citati, e uniformità alla massa resta una cosa soltanto: che ognuno di noi, capace di entusiasmarsi e guardarlo con gli occhi estasiati di chi vuole lasciarsi trasportare dalla contagiosa elettricità che scorre – non ancora “scorreva” – nella sua pallacanestro, non potrà mai cadere nella trappola della retorica nell’esprimere tutta l’ammirazione che nutre per lui.
E allora, ancora una volta, grazie caro Manu. Anche per questa tua capacità, chi più chi meno, di metterci tutti d’accordo.