Una serie di storie di giocatori afroamericani in una città che ha combattuto con il razzismo

Questo contenuto è tratto da un articolo di Marc J. Spears per Andscape, tradotto in italiano da Davide Corna per Around the Game.
Dopo una partita della stagione 2016/17, Marcus Smart, guardia dei Boston Celtics, si aspettava un tranquillo tragitto in auto verso casa, quando ha incontrato una tifosa dei Celtics che difficilmente dimenticherà. La donna teneva per mano un ragazzino e si trovava a metà di un incrocio poco fuori dal TD Garden, quando il semaforo diventò verde per il traffico in arrivo. Smart suonò il clacson.
“Ho gridato dal finestrino”, ricorda Smart. “Scusi, signora, farebbe meglio a togliersi dalla strada prima che veniate investiti. Arrivano le auto, rischiate di essere investiti.”
“Non appena l’ho detto, mi ha guardato – indossava una maglia verde e bianca dei Celtics, con il numero 4 – e mi ha detto ‘Vaffanculo, fottuto negro’. Nei dintorni, chi l’aveva sentita era scioccato, tipo ‘Quello è Marcus Smart. Ha appena finito di vedere la partita, signora’… con addosso la maglia di Isaiah Thomas.”
Giustamente o meno, Boston è stata spesso considerata la più grande città americana in cui gli afroamericani non sono benvenuti – chiedere, ad esempio, a LeBron James o, più di recente, a Draymond Green. Una foto tristemente famosa scattata da Stanley Forman nel 1976 catturò il clima di tensione a Boston ritraendo un uomo bianco che punta un nero con il lato appuntito di un’asta a cui era appesa la bandiera statunitense, durante una manifestazione di protesta dopo l’annuncio che le scuole pubbliche dovevano dismettere la segregazione.
Quattro decenni più tardi, un sondaggio nazionale commissionato dal Boston Globe nel 2017 ha riportato che, fra le otto grandi città proposte, le persone di colore hanno indicato Boston come quella in cui si sentono meno ben accolti.

La percezione della città, che aveva una popolazione composta per il 53% da bianchi e per il 25% da neri nel censimento del 2010, non è stata aiutata dai recenti eventi che hanno coinvolto atleti neri e tifosi di Boston.
Nel 2014, P.K. Subban, giocatore di hockey allora in forza ai Montreal Canadiens, ha ricevuto tweet razzisi dopo un goal decisivo per la vittoria contro i Boston Bruins. Nel 2017 il pubblico del Fenway Park (baseball) si è rivolto più volte ad Adam Jones dei Baltimore Orioles usando la parola “negro”, e un tifoso gli ha tirato un sacchetto di noccioline. Nel 2019, un tifoso dei Celtics ha rivolto a DeMarcus Cousins, allora ai Warriors, un insulto razziale ed è stato bandito dal TD Garden per due anni.
Smart, scelto dai Celtics nel 2014 e attualmente il giocatore con la più lunga permanenza in squadra, vuole mettere in chiaro che adora giocare per Boston. Dice di aver assistito a episodi di razzismo in altri posti, in tutto il Paese, non solo a Beantown. Altri giocatori che hanno indossato il verde dei Celtics concordano che non è corretto puntare il dito contro Boston. Ma l’episodio della tifosa con la maglia di Isaiah Thomas ha fatto aprire gli occhi a Smart.
“Prima esultano per te, e appena dopo senti cose come quella. È stata una delusione, più che una ferita. Ho pensato ‘Ah, questa merda succede davvero’. Io gioco per la città di Boston, ma succede lo stesso.”
Quando si tratta di giocare per la franchigia NBA di Boston, tuttavia, per gli afroamericani è diverso. Per decenni, i Celtics sono stati una delle squadre più progressiste nello sport. Ci si dimentica spesso che hanno abbattuto molte barriere razziali nell’NBA, e che ciò ha avuto un grosso ruolo nei loro successi, anche in quelli di oggi.
“I Celtics non sono secondi a nessuno nel credere e nel personificare il rispetto per tutti e nell’abbattere le barriere razziali”, ha dichiarato l’attuale co-proprietario Wyc Grousbeck. “I Celtics sono stati la prima organizzazione NBA a rompere le barriere, e ancora oggi cerchiamo di essere una guida in termini di tolleranza, comprensione e rispetto.”
The Undefeated ha intervistato più di 30 Celtics di oggi e del passato, oltre a parenti di ex giocatori, riguardo alla loro esperienza come giocatori afroamericani a Boston. I giocatori hanno confermato che il razzismo esiste ancora a Boston, proprio come in molti altri posti nel mondo, ma le loro storie hanno anche mostrato quanto la vita è cambiata per i giocatori neri dei Celtics, nel corso degli anni.
“Ciò che senti riguardo a Boston prima di andarci è che si tratta di una città razzista”, ha detto Kevin Garnett, che ha condotto i Celtics al titolo nel 2008 (e la franchigia ha appena annunciato che ritirerà la sua maglia numero 5 dalla prossima stagione).
“Ma una volta che diventi un Celtic, c’è tutta un’altra prospettiva. È come uno scudo, un altro lato della moneta”.
Molti giocatori di colore dei Celtics si sono sentiti a casa a Boston.
“I Celtics hanno abbattuto la barriera razziale”

I Boston Celtics hanno aperto più porte contro il razzismo rispetto forse a qualunque altra franchigia nello sport americano, compresi i Brooklyn Dodgers.
“Se oggi chiedete a un qualunque giocatore nero dell’NBA quale squadra ha preso al draft il primo giocatore nero della storia, molti non sapranno che è stata Boston”, ha detto Cedric Maxwell, una leggenda dei Celtics e analista radiofonico per la squadra.
Nel 1950, Chuck Cooper divenne il primo afroamericano scelto al draft da una squadra NBA quando Walter Brown, proprietario dei Celtics, lo chiamò con la quattordicesima scelta assoluta. Quando gli dissero che Cooper era “un negro”, e quindi ineleggibile per giocare in NBA, Brown rispose che fintantoché sapeva giocare bene a basket, per lui poteva anche avere la pelle a pois.
Sessantanove anni più tardi, Cooper è stato introdotto nella Basketball Hall of Fame.
La prima star di colore dell’NBA arrivò nel 1956, anche lui con la maglia dei Celtics, che scelsero Bill Russell con la seconda scelta assoulta. Red Auerbach scambiò Cliff Hagan e Ed Macauley, entrambi bianchi e Hall of Famers, per la scelta che condusse a Russell.
“Tutti ridacchiavano di nascosto, credendo che Auerbach avesse fatto un tremendo errore”, ha riportato Satch Sanders, vincitore di otto titoli con i Celtics. Russell guidò Boston alla conquista di 11 titoli NBA ed è probabilmente stato il miglior difensore della storia.
I Celtics fecero ancora più scalpore schierando il primo quintetto iniziale nella storia dell’NBA interamente di colore. Il 26 dicembre 1964 Russell, Sanders, K.C. Jones, Sam Jones e Willie Naulls (che rimpiazzò Tommy Heinsohn, infortunato) iniziarono la partita contro i St. Louis Hawks. I Celtics vinsero 97-84 e schierarono lo stesso quintetto in altre 12 partite della stagione.
Nel 1966, i Celtics assunsero il primo head coach di colore nella storia NBA, quando lo stesso Russell rimpiazzò Auerbach. Russell è stato allenatore-giocatore dei Celtics dal 1966 al 1969, vincendo due titoli e registrando un record complessivo di 162-83.
“I Celtics diedero un calcio a quella barriera razziale mentre molte altre squadre non avevano nemmeno iniziato a pensarci”, secondo Cedric Maxwell.
La città di Boston, tuttavia, era meno benevola verso i giocatori neri, in quegli anni.
“Un mercato delle pulci del razzismo”

Russell, che ha declinato l’intervista per questo articolo, sì riferì a Boston come un “mercatino delle pulci del razzismo” nella sua biografia del 1979, Second Wind.
“Ce n’era di tutti i tipi, nuovo e antico, e nella sua forma più virulenta. La città vantava funzionari corrotti e razzisti, razzisti che lanciavano mattoni, altri del tipo ‘rimandateli in Africa’, e nelle aree universitarie anche falsi razzisti radical-chic… A parte questo, la città mi piaceva”.
Russell, nativa di Oakland, in California, giunse a Boston nel 1956 dopo aver frequentato l’università di San Francisco. Pur essendo la prima star nera di Boston, fu abusato verbalmente da alcuni tifosi Celtics, e non si sentì mai il benvenuto durante i suoi giorni da giocatore. La sua casa nel sobborgo di Reading fu vandalizzata mentre lui veniva celebrato a un country club nella stessa zona. Karen K. Russell, figlia di Bill, scrisse un articolo per il New York Times nel 1987 in cui riportò che la casa era un “disastro”.
La N-word era stata scritta con lo spray sulle pareti, era stata versata birra sul tavolo da biliardo, vari trofei distrutti. I vandali avevano anche defecato in vari punti della casa, incluso il letto. Russell era distrutto dopo quell’episodio, secondo quanto riportato da diversi compagni.
“Tutto quello che gli è accaduto ha reso Russell un uomo molto arrabbiato”, ha detto Sanders.

Il 13 marzo 1972 i Celtics tennero una cerimonia privata al Boston Garden per ritirare la maglia numero 6 di Russell. La canotta fu innalzata al soffitto di fronte a giocatori e amici circa un’ora prima che il Garden aprisse le porte per una partita contro i New York Knicks. Quando i reporter gli chiesero per quale motivo la cerimonia non fosse stata aperta al pubblico, Russell rispose: “Sapete che non faccio cose del genere”.
Il vero motivo stava invece nel fatto che Russell credeva di non aver avuto il rispetto e l’adulazione che meritava per aver portato i Celtics a 11 titoli, a causa del colore della sua pelle.
“Russell disse che credeva che Boston fosse il posto più razzista in cui era mai stato”, ha detto Sanders.
Negli anni ’60 e ’70, Sanders ricorda che per i neri era difficile addirittura trovare un taxi, per non parlare di un appartamento da affittare.
Deborah White, vedova dell’ex leggenda dei Celtics Jo Jo White, ricorda che il marito le aveva raccontato alcuni episodi di razzismo che Russell e Sam Jones avevano dovuto affrontare. Jones raccontò di alcuni “oggetti inappropriati”, inclusa una croce in fiamme, lasciati davanti a casa sua.
“Le cose erano diverse, erano complesse e furono molto difficili per loro, ma loro sono stati forti, e sono stati i pionieri, pavimentando la strada per i vari Jo Jo, Don Chaneys, Paul Pierce, Kevin Garnett, Kyrie Irving, Jayson Tatum , e tutti gli altri”.
“Ero a 212 miglia da New York City”

Non ci sono molti locali a Boston, nel passato o nel presente, frequentati in maggioranza da neri. Durante i suoi giorni da giocatore, Sanders disse che se qualcuno voleva restare in città e trovare una comunità nera, c’erano alcuni ristoranti a Dorchester e Roxbury, che erano noti come quartieri afroamericani a Boston. Ma Sanders stesso preferiva andare fuori città.
“Ero a 212 miglia da New York City. A volte finivo gli allenamenti alle 12:00, salivo in macchina e guidavo fino a New York, per tornare la mattina successiva”.
Dagli anni ’30, il più famoso locale legato ai Celtics di proprietà di un nero è lo Slade’s Bar and Grill a Lower Roxbury. Russell ne diventò proprietario negli anni sessanta e oggi il ristorante è di Terry Calloway e Darryl Settles, afroamericani, assieme a Leo Papile, bianco ed ex-assistente direttore esecutivo dei Celtics.
Il ristorante, soprannominato “The Soul of Boston”, fa anche serate con musica R&B e hip-hop. La clientela nel corso degli anni ha incluso Muhammad Ali, Martin Luther King Jr., Malcolm X, Joe Louis e il Presidente Franklin D. Roosevelt. Ex giocatori NBA e dei Celtics si sono intrattenuti allo Slade’s nel corso degli anni, così come alcuni giocatori di oggi.
Ma mentre Slade’s ha avuto successo in un quartiere nero di Boston, Tom Sanders ricorda gli episodi di razzismo che ha subito quando ha tentato di aprire il primo locale di proprietà di un afroamericano sulla famosa Newbury Strett, verso la fine degli anni settanta.
“Non c’erano locali gestiti da persone di colore nel centro di Boston, e questo era uno dei problemi. Volevo assicurarmi che ce ne fosse uno.”
Il suo entusiasmo si arrestò nel 1976, dopo che alcuni volantini anonimi vennero sparsi in giro per la città, riportando le sue intenzioni di aprire un ristorante.
“Il modo in cui lo scrissero era ‘Tom Sanders di Roxbury stava aprendo un ristorante su Newbury Street’. Non menzionavano il fatto che ero head coach ad Harvard, e che avevo giocato per i Celtics. Scrissero Tom Sanders, e non Tom ‘Satch’ Sanders. Nulla che la gente potesse riconoscere. Sapevano solo che ero di colore”.
Sanders riuscì finalmente ad aprire Satch’s a Boston, ma non su Newbury Street. Era un club chiamato The Green Gang che trasmetteva partite dei Celtics. Sanders ne fu fondatore, proprietario e direttore operativo, e restò aperto dal 1979 fino al 1984, per poi chiudere a causa dei costi del cibo. “Avevo una band in sala, una discoteca al piano di sopra, e una sala dedicata al jazz”, racconta Sanders. “Oh, era il paradiso…”

Fletcher Wiley e sua moglie, Benaree, hanno vissuto a Boston per più di cinquant’anni. Considerano Boston una “città di bianchi”. Sono stati testimoni dei problemi della città relativi al razzismo, ma hanno anche visto dei progressi.
“Direi che il periodo in cui le tensioni razziali erano più visibili è stato quello degli anni settanta, in cui la gente aveva paura di andare in certe zone della città, e si notavano facilmente le differenze razziali. Ma questo è cambiato drasticamente in meglio durante gli anni”, ha detto Wiley, un avvocato ben conosciuto.
“Non ci sono più confini di quel tipo che separano una comunità dall’altra, fino al punto di aver paura di andare da una parte all’altra della città. E la gente è più amichevole e lavora per cercare di rendere le cose migliori in città”.
Alcuni giocatori recenti sono stati sorpresi nel trovare una tale varietà razziale a Boston, che ha molti residenti da Capo Verde, un arcipelago di 10 isole al largo delle coste del Senegal. Al Horford ha anche dichiarato che si è sentito a casa a Boston dopo aver firmato nel 2016, grazie alla sua vasta comunità dominicana: “l’ho considerato un punto a favore”.
Per quanto riguarda Newbury Street, i neri alla fine sono riusciti a lasciarci un’impronta. Patrick Petty aprì un negozio chiamato Culture Shock nei primi anni novanta, conosciuto per il suo stile hipster. I suoi abiti sono stati indossati da vari musicisti, inclusi Toni Braxton, Boyz II Men, Naughty by Nature, Tony Toni Tone e New Kids on the Block, ma anche da atleti come l’ex Celtic Dominique Wilkins e l’ex star dei New England Patriots Lawyer Milloy.
Shellee Mendes, presenza abituale alle partite dei Celtics, è stata la prima donna afroamericana a possedere un’impresa su Newbury Street aprendo Salon Monet nel 2002, a cui ora si è aggiunto un secondo negozio sulla stessa strada.
“Essere una donna di colore e un’imprenditrice su Newbury Street ha qualcosa di magico, per me”, ci ha detto. “Nessuna l’ha mai fatto prima, e io sento che il mio talento è degno di quel posto”.
Tuttavia, per molti giocatori NBA di colore ci è voluto un bel po’ di tempo prima di considerare Boston come una possibile destinazione.
“Ho seriamente pensato di andarmene”

Negli anni Ottanta, quando gli All-Star Larry Bird e Kevin McHale erano i volti della franchigia, i Celtics erano spesso oggetto di scherno nei circoli afroamericani. Nel film di Spike Lee del 1989 “Fa’ la cosa giusta”, un gruppo di ragazzi neri a Brooklyn litiga con un bianco a cui il regista fa indossare una maglia di Larry Bird.
Intanto i Los Angeles Lakers, storici rivali dei Celtics, erano guidati da un’appariscente point guard di colore di nome Magic Johnson e dal centro musulmano Kareem Abdul-Jabbar.
Secondo Heinsohn “molte persone sono salite sul carro di quelli che sostenevano che i Celtics fossero razzisti. Forse perchè avevano McHale e Bird, no? Ma diciamocelo, chi diavolo non avrebbe preso McHale e Bird? O anche Danny Ainge…”
Negli anni della rivalità Celtics-Lakers, Boston ha avuto anche molte star di colore come Robert Parish, Cedric Maxwell, Dennis Johnson e M.L. Carr, oltre ad aver avuto un coach afroamericano come K.C. Jones. Eppure, apprezzare i Boston Celtics, per un nero fuori da Boston, era difficile negli anni Ottanta. Maxwell, scelto alla 12 dai Celtics nel 1977 (e inizialmente non voleva andare a Boston, preferendo altre città con maggiore varietà razziale), ci ha raccontato che qualunque giocatore afroamericano dei Celtics era visto come un mercenario, a quei tempi.
“In quegli anni, la maggioranza della squadra era di colore. Ma tutti noi siamo stati stereotipati come traditori della nostra razza. E credo che nulla fosse più lontano dalla verità per gente come me, Robert Parish, M. L. Carr, o Dennis Johnson. Eravamo fieri di essere neri. Ma giocavamo in una città che a quei tempi, qualunque cosa accadesse, la gente considerava razzista”.
Quando Dee Brown si è unito ai Celtics nel 1990, fu presto sul punto di andarsene, a seguito di un episodio di razzismo. Brown e la sua fidanzata di allora, Jill Edmondson, erano appena diventati proprietari di una casa in zona e stavano lasciando un ufficio postale, quando sono stati circondati da alcuni poliziotti.
“Ero in un parcheggio, nella mia auto, con una penna in mano mentre firmavo alcune bollette, e ho sentito urlare ‘Mani in alto’. Ho guardato fuori dal finestrino e ho visto circa otto poliziotti con la pistola puntata su di me. Ho avuto paura, perché ho sentito un paio di loro dire ‘Metti giù la pistola’, perché pensavano che la penna fosse una pistola. Quando sono uscito dall’auto, hanno urlato di nuovo ‘Metti giù la pistola’, e io ho risposto ‘Non è una pistola, è una penna’. Mi hanno buttato faccia a terra sul cemento e mi hanno puntato una pistola alla testa”.
Brown ha temuto per la sua vita, fino a che un passante lo ha riconosciuto. “Qualcuno passava di lì e, vedendo cosa stava succedendo ha detto ‘Ehi, quello lì è appena stato draftato dai Celtics’. Se non avesse detto nulla, sarei sicuramente stato portato in prigione, ammanettato”.
Brown ha raccontato che i poliziotti sospettavano che avesse rapinato una banca lì vicino una settimana prima, dopo aver ricevuto una chiamata da un impiegato che lo aveva visto. Alla fine Brown ebbe modo di vedere una foto del vero rapinatore, che aveva la pelle molto più chiara della sua.
“Ho seriamente pensato di andarmene. Credevo che sarei morto, quel giorno. Davvero. Ero lì solamente da tre mesi. È stata dura. La cosa buffa è che alla fine mi sono trasferito in città e dopo quella volta non ho avuto il minimo problema”, ha concluso Brown, che ora è general manager della squadra di G-League dei Los Angeles Clippers.
Robert Parish, che ha giocato 14 stagioni a Boston dal 1980 al 1994, ha apprezzato la città. Il nativo di Louisiana ci ha raccontato che l’unico problema a Boston erano il freddo e la neve.
“A parte il clima, Boston era un bellissimo posto in cui vivere e giocare. Non sono mai stato vittima di razzismo, il che comunque non significa che non ce ne sia. È solo che non è mai stato rivolto a me. Mi riferisco a come Boston ha trattato me, ma non direi che la percezione è sbagliata. Ovviamente, il razzismo qui c’è, solo che non è evidente e all’aria aperta. Qui, come in moltissimi altri posti.”
Maxwell, che vive ancora a Boston, concorda: “Da quello che continua a dire la gente, sembra che Boston abbia il monopolio del razzismo, ma non è vero. Lo si vede in ogni grande città”.
Anche nei primi anni 2000 i Celtics hanno fatto fatica ad attrarre giocatori di colore, ma con l’arrivo di Garnett è cambiato tutto.
“KG ha cambiato tutto”

Doc Rivers, coach dal 2004 al 2013, ha capito com’era percepita la città nel momento in cui è stato assunto. Sapeva che sarebbe stato difficile costruire una squadra tramite la free agency: “Ero effettivamente preoccupato, e non eravamo una buona squadra. Ma KG ha cambiato tutto.”
Prima del draft del 2007 i Celtics avevano già un pre-accordo per una trade per Kevin Garnett. Ma KG disse che avrebbe preferito andare sulla costa ovest, in una città con un clima più mite; inoltre, non era entusiasta di unirsi a una squadra in via di ricostruzione.E allora i Celtics acquisirono Ray Allen a una scelta al secondo giro (Glen Davis) dai Seattle SuperSonics in cambio di Delonte West, Wally Szczerbiak e la quinta scelta assoluta (Jeff Green).
“Boston non è una città in cui si pensa di andare a giocare”, secondo Paul Pierce, 10 volte All-star. “Non è mai stata una destinazione rinomata per i free agent… Potete andare a chiedere a quei giocatori che sono arrivati ai Celtics tramite scambio, e che non avrebbero mai pensato di vivere a Boston. Vi diranno ‘Non pensavo che Boston fosse così’, in termini positivi. La reputazione è quella di una città razzista. Ma come personaggio sportivo, non lo vedi”.
Fu proprio dopo la trade per Allen che Garnett divenne interessato a giocare a Boston. Esaudì il suo desiderio più tardi quella stessa estate quando i Celtics mandarono Al Jefferson, Ryan Gomes, Sebastian Telfair, Gerald Green, Theo Ratliff, due scelte al primo giro e soldi ai Minnesota Timberwolves, in cambio di Garnett. “KG disse di no”, racconta Rivers. “Poi aggiungemmo Ray Allen a Paul Pierce, e Garnett disse ‘Voglio dare una mano a quel gruppo’”.
L’arrivo di Garnett aiutò i Celtics a firmare altri free agent, come racconta Rivers: “Pensate a chi abbiamo firmato dopo aver preso KG: James Posey, Eddie House, P.J. Brown, Sam Cassell. Avevano voglia di venire da noi. La mossa per Garnett ha aperto la porta e ha cambiato la situazione.”
“Quando ho accettato quel lavoro, tutti dicevano che è difficile far arrivare free agent di livello. Continuavano a dirmelo tutti. Quindi, alla fine ero orgoglioso di aver dimostrato che è possibile farlo. Se crei la giusta cultura e l’ambiente ottimale, tutti vogliono venire da te…”
Garnett, nativo del South Carolina, ha sposato Boston e tutto ciò che ne concerne.
“Vengo dal sud, sono abituato al razzismo, sono abituato ad averci a che fare. Ero a mio agio nel gestirlo, nel controllarlo. Quando sono arrivato a Boston, è stato diverso. La gente non era razzista nei miei confronti. Erano più ‘Oooh, Big Ticket! Posso fare una foto, amico?’… Nero, bianco, verde, viola… non aveva importanza. Tutti erano felici, tutti volevano parlare della partita, dovevi fermarti e parlare. Era naturale, era bello. C’era così tanta trasparenza. Davi il cinque, e facevi la foto. Mi vedevano correre in campo, e lottare sul parquet. Sei un come un dio, lì. Sei dai tutto ai tifosidi Boston, anche loro ti danno tutto.
“Boston è cresciuta in così tanti aspetti”

I Celtics hanno appena subito una pesante sconfitta casalinga contro i Cleveland Cavaliers di LeBron James. Ma in quella domenica pomeriggio del 2018, una folla a maggioranza bianca ha aspettato più di un’ora per onorare un vecchio amico: Paul Pierce, la cui maglia numero 34 verrà issata verso il soffitto del TD Garden accanto a quelle di altre leggende dei Celtics.
“In nessun altro posto avrebbero potuto fare quel tipo di celebrazione dopo una partita del genere, e avere comunque la gente lì ad attendere”, ha detto Rivers. “Hanno subito una sconfitta pesante, e non una singola persona se n’è andata. L’arena era ancora piena per Paul… Boston è cresciuta in così tanti aspetti”.
Pierce venne chiamato dai Celtics con la decima scelta assoluta nel 2018, e ha giocato 15 stagioni a Boston. Durante tutto quello che ha passato – gli anni di sconfitte, un accoltamento in club di Boston, e infine la vittoria del titolo del 2008 – Pierce ha sottolineato che i tifosi lo hanno sempre supportato.
“Mi hanno accolto e coccolato. Mi hanno visto sin da quando ero un giovanotto, un ragazzo immaturo appena arrivato. Mi hanno visto crescere. Hanno visto i miei momenti migliori e quelli peggiori. Mi hanno accolto come uno di loro sebbene venissi da Inglewood, Los Angeles. A giudicare dal modo in cui mi hanno trattato, si sarebbe pensato che fossi nato a Boston.”
“Boston è una città tosta”, ha detto Garnett. “Devi avere le palle per vivere e giocare qui. Devi volerlo davvero. Le persone vogliono che tu sia convinto. Ecco perchè Paul era perfetto. Paul vuole sempre prendersi il tiro. Gli dicevamo ‘Sei a 0 su 14’, ma lui rispondeva: ‘ Lo so, ma questo lo metto’”.
Molti dei giocatori che hanno militato nei Celtics fra la metà degli anni ‘90 e gli anni 2000 che abbiamo intervistato, e che hanno vissuto principalmente nei quartieri vicini alla palestra di allenamento a Waltham, prima che gli allenamenti si spostassero più vicini al centro nel 2018, hanno condiviso esperienze positive con i tifosi di Boston, pur riconoscendo che essere un Celtic ha probabilmente avuto un ruolo importante.
Rivers ha aggiunto che anche il essere parte di un team vincente dava una mano. “Quando siamo diventati una buona squadra, io ho avuto maggiore considerazione”.
Anche Rajon Rondo ha detto che Boston è stata accogliente per lui, ma suo fratello William non si è sempre sentito allo stesso modo. La point guard del titolo dei Celtics ha sottolineato come, che sia a Boston o nel resto degli Stati Uniti, un atleta nero venga tendenzialmente trattato molto meglio dell’afroamericano medio.
Anche Kendrick Perkins, membro del team campione NBA del 2008, concorda: “Non ho mai avuto problemi di razzismo in otto anni. Non sto dicendo che non c’era razzismo a Boston in generale. Ma direi che essere un atleta professionista è stato decisivo. Se fossi stato una normale persona di colore a Boston, non sono certo di come si sarebbero comportati”.
Avery Bradley, giocatore dei Celtics fra il 2010 e il 2017, ha raccontato un episodio di razzismo che ha visto protagonista uno dei suoi fratelli a una partita dei Boston Bruins: “La mia famiglia e i miei amici hanno percepito molto razzismo a Boston. Quando non erano con me, gli è capitato di tutto. A una partita di hockey, mio fratello è quasi rimasto coinvolto in una rissa con gente che si stava comportando in modo assurdo. Io non ho mai vissuto episodi di razzismo, ma ogni altra persona che era lì con me ne ha vissuti”.
Come ha imparato Smart quella sera fuori dal TD Garden, la differenza può anche finire fra essere in vestiti borghesi, piuttosto che con la maglia dei Celtics. Glen Davis ha detto che i tifosi di Boston gli hanno sempre mostrato amore e rispetto “perché indossavo la maglia dei Celtics”, ma in altre occasioni in giro per la città a volte ha sentito insulti razzisti.
“C’erano momenti in cui eri in giro, e un fan esagerava. Ad esempio ‘Sai schiacciare, scimmione?’ Andavi nei club o nei bar e potevi trovare tifosi ubriachi che dicevano cose del genere”.
Ma Posey sostiene che non c’è paragone con quello che le precedenti generazioni di Celtics di colore hanno dovuto affrontare. “Era tutto diverso. A me non è accaduto nulla di negativo”.
“Celtic una volta, Celtic per sempre”

Jeff Twiss, per lungo tempo portavoce dei Celtics, ha un detto abituale che ha rubato a Auerbach: “Celtic una volta, Celtic per sempre”.
I Celtics stendono il tappeto rosso per le ex star. Non è insolito vedere leggende del passato come Russell agli allenamenti. E la squadra è nota per dare biglietti gratis agli ex giocatori.
Rondo racconta di essersi quasi commosso quando i Celtics hanno mostrato un video tributo per lui in occasione della sua prima partita dopo essere passato ai Dallas Mavericks, nel 2015. “Sono un’organizzazione di classe, non è stata una sorpresa. L’avevo visto in occasione del primo ritorno di Pierce e poi anche di Garnett… Ogni volta che torno a Boston, i tifosi mi ringraziano. Apprezzano molto quello che ho fatto con i Celtics”.
Deborah White riferisce che la sua famiglia considera Boston e i Celtics come una casa per il modo in cui hanno trattato suo marito mentre combatteva con la malattia. Jo Jo White ha subito un intervento chirurgico nel 2010 per rimuovere un tumore benigno al cervello, delle dimensioni di una noce. I Celtics hanno fatto in modo che Jo Jo fosse seguito dai migliore dottori e, una volta guarito, ha riavuto il suo lavoro come direttore dei progetti speciali per i Celtics. È morto nel 2016 a 71 anni.
“Per quanto concerne i Celtics, non si potrebbe chiedere di più. Ne sono stata testimone. Ho visto la situazione nel corso degli anni e sono stata vicino a tutti i giocatori e alle loro mogli, e so che Boston non è come la gente la percepisce dall’esterno”.
James Cash, uno dei due afroamericani che fanno parte del gruppo proprietario dei Celtics dal 2002, racconta che ha colto al volo l’occasione di essere parte della franchigia. “Sono stati così importanti per me da giovane, negli anni Sessanta, mentre crescevo in un ambiente segregato… Guardare i Boston Celtics, che schieravano il maggior numero di afroamericani nella Lega, era davvero un’ispirazione. Quindi, quando ho avuto l’opportunità di far parte della franchigia, non ci ho pensato due volte”.
Il 26 Maggio 1999 i Celtics hanno tenuto una seconda cerimonia di ritiro della maglia per Russell. Fra gli spettatori figuravano le leggende NBA Larry Bird, Wilt Chamberlain, Kareem Abdul-Jabbar, Julius Erving, John Havlicek e Oscar Robertson, nonché leggende della boxe (Muhammad Alì), del football (Jim Brown) e della musica R&B (Aretha Franklin). Anche i tifosi erano i benvenuti, in quello che è stato un momento importante per la città.
“Se c’è un atleta che merita riconoscimenti per aver messo Boston sulla mappa, dovrebbe essere Bill Russell”, ha detto Sanders. “Russell li ha collocati sulla mappa sportiva a livello nazionale e internazionale. E lui è il motivo principale per cui i Celtics sono stati ciò che sono stati.”
Al termine di una cerimonia di quasi tre ore, Russell e Auerbach si sono posizionati ai lati di uno striscione rappresentante la maglia numero 6 dei Celtics. Mentre i due tiravano insieme la corda che portava la maglia verso il soffitto, i tifosi hanno tributato a Russell ciò che meritava già 27 anni prima: una standing ovation.
Russell era in lacrime.
“Questa città mi ha davvero conquistato”

Anche i Celtics di oggi sentono ancora certe voci.
“La prima cosa che mi hanno detto quando sono stato scelto al draft è che Boston è storicamente razzista”, ha raccontato Jaylen Brown. “Ma vedi certe cose sia in città che fuori che sono molto varie ed eclettiche. È una città che si muove velocemente. Probabilmente è molto diversa da com’era quando giravano quelle voci. Noti un sacco di cambiamenti, molte occasioni in cui la gente si riunisce… Questa città mi ha davvero conquistato”.
I Celtics degli ultimi anni hanno anche esplorato la città in cerca di ristoranti che fossero loro familiari.
Horford ha trovato cibo dominicano; Bradley ha raccontato che lui e sua moglie, che viene da Trinidad & Tobago, andavano a Dorchester per mangiare caraibico; e Tatum frequenta un ristorante che propone cibo soul. “Ci sono stato per la prima volta quando ho chiesto a Jerome Allen, assistant coach dei Celtics, che è di Philadelphia, dove potevo andare per trovare del cibo soul, pollo fritto o qualcosa del genere. Slade’s è il primo posto che mi ha raccomandato. È lì che vado sempre”.
Anche Tatum ha sentito della reputazione di Boston subito dopo il draft del 2017, ma riferisce di non aver mai avuto problemi.
Pierce fa notare che molti dei giocatori di oggi stanno avendo modo di conoscere meglio Boston, dopo che la palestra d’allenamento dei Celtics è stata trasferita al nuovo Auerbach Center nel 2018, localizzato a Boston Landing vicino al quartier generale mondiale della New Balance, e visibile dalla superstrada Massachussets Turnpike.
“Nel giro di 10 minuti, c’è tutto”, ha detto Pierce. “Molti giocatori ora hanno appartamenti da quelle parti, il che è buono. Possono avvicinarsi a Boston ed essere accolti dai fan quando escono per la città”.
I Celtics hanno anche firmato Kemba Walker, ai tempi uno dei migliori free agent in circolazione. Walker, che viene dal Bronx, New York, ha dichiarato che il razzismo non è stato un fattore nella sua decisione.
“Come giocatore in procinto di affrontare una nuova situazione, non è stato qualcosa di cui mi sono preoccupato. Non fraintendente, ne avevo sentito parlare… è solo che per me non è stato un problema.”
Walker si è concentrato maggiormente sulla storia dei Celtics. “È una franchigia piena di storia. La prima volta che entri nell’arena, vedi subito tutti quegli striscioni. Conosciamo tutti Bill Russell, la sua storia, e i riconoscimenti che ha ottenuto. Pensate anche solo a tutti i titoli che hanno vinto. È una franchigia vincente, è qualcosa di speciale. Per me, è motivante. Mi rende volenteroso di portare me stesso e la mia etica di lavoro a un livello superiore. È una squadra che compete ogni anno, e sono entusiasta di farne parte”.
Oggi nella City Hall Plaza di Boston c’è una statua in onore di Russell. Ann Hirsch, artista di Boston, ha creato una statua che rappresenta Russell in procinto di fare un passaggio dal petto, con altri 10 blocchi di granito nei dintorni, per un totale di 11 elementi, in rappresentanza degli 11 titoli NBA. Ciascun blocco riporta citazioni e riconoscimenti di Bill Russell. Prima che fosse svelata al pubblico nel Novembre 2013, l’allora presidente Barack Obama si è unito a Russell per una veloce anteprima della statua.
“Non dimenticherò mai quel giorno”, racconta il co-proprietario dei Celtics Steve Pagliuca. “È stato un grande momento per i Celtics e per la città di Boston I Celtics sono veramente orgogliosi della storia storia inclusiva della franchigia, e la proprietà si impegna nel rendere Boston un posto accogliente per gli atleti. Lavorano ogni giorno per rendere questo posto il migliore possibile perché un giocatore ci giochi e competa al massimo livello, vincendo sul campo e diventando ottimi esempi per la comunità”.
“Boston è un posto meraviglioso”, ha aggiunto Cash. “Vado a South Boston e ripenso a 40 anni fa. È quel tipo di cosa che ti rende consapevole del fatto che là fuori ci sono molte più persone che cercano di fare la cosa giusta, rispetto a quei pochi cretini di cui si sente parlare fin troppo”.
Non si sa se la città riuscirà mai a liberarsi della sua reputazione, ma molti Celtics di colore, del passato e del presente, raccomanderebbero Boston come destinazione per un free agent.
“È una delle migliori franchigie per cui abbia giocato, e ho adorato la città”, ha detto Bradley, che ora gioca nei Los Angeles Lakers. “Ci vivrei ancora. È come una cassa per me”.
Anche Smart la pensa allo stesso modo, nonostante l’episodio di qualche anno fa.
“Ovunque vai puoi trovare ignoranti bigotti e gente che non capisce. Gente strana, diversa. Boston è solo una delle città in cui mi è successo di trovarne. Ma la città in sé è stupenda e adoro giocare qui. La raccomando a chiunque abbia l’opportunità di giocare. Adoro la città, è stupenda”.