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Per arrivare in paradiso, a volte, devi passare dall’inferno.

 

I Brooklyn Nets sono stati dichiarati vincitori indiscussi della free agency 2019 prima ancora della sua apertura ufficiale, con la garanzia delle firme di Kevin Durant e Kyrie Irving, pochi giorni fa. Ma il percorso che li ha portati dove sono oggi non è stato dei più convenzionali.

 

 

There’s a lady who’s sure
All that glitters is gold
And she’s buying a stairway to heaven
When she gets there she knows
If the stores are all closed
With a word she can get what she came for
Oh oh oh oh and she’s buying a stairway to heaven

 

 

Nel 2010 Mikhail Prokhorov, poco dopo aver completato l’acquisto dell’80% delle azioni dei New Jersey Nets ed essere diventato il primo proprietario straniero di una franchigia NBA, fece una singolare promessa. Ai tempi era il secondo uomo più ricco di Russia, inserito nella lista degli “Scapoli più appetibili del pianeta”, e disse che si sarebbe sposato nel caso in cui il suo nuovo giocattolo preferito non gli avesse regalato un titolo. Quello di Campione del Mondo, entro cinque stagioni.
Di anni, da quel giorno, ne sono passati quasi il doppio, e di fedi al dito di Prokhorov ancora non se ne vedono. Ma questo non perché la franchigia – che nel frattempo ha cambiato sede e nome, migrando dalle paludi del New Jersey alla più sexy Brooklyn – sia riuscita a dargli ciò che desiderava. E che evidentemente considerava non particolarmente difficile raggiungere. Forse oggi sarebbe disposto a sposarsi pur di vincerlo, quel titolo, che pure è sicuramente più vicino.
Non che non ci abbia provato fin da subito, Prokhorov. L’aggressività, specialmente economica, con la quale è sbarcato nell’universo NBA era ed è senza precedenti. Convinto di poter far sua a suon di milioni una Lega che per la maggior parte degli ultimi nove anni lo ha guardato dall’alto in basso, ha dovuto scontrarsi con una realtà meno prevedibile di quanto immaginasse.

Entrati nella NBA nel 1976, i Nets non hanno mai vinto un titolo nella massima lega professionistica del basket americano nonostante un certo numero di talenti che si sono succeduti nel vestire le loro casacche e due partecipazioni consecutive alle Finals nei primi anni 2000, con Byron Scott in panchina e Jason Kidd in cabina di regia. Prima del loro ingresso nella NBA in nove anni di militanza nella ABA avevano conquistato due titoli.

Quando Prokhorov è diventato proprietario degli allora New Jersey Nets, a tirare le redini della franchigia era Rod Thorn. Deus ex machina della squadra dal 2001, era stato lo stratega della costruzione di quel nucleo nato intorno a J Kidd, Richard Jefferson e Kenyon Martin che aveva sfiorato l’anello, e delle sue seguenti versioni, che avevano visto passare dal New Jersey dei Dikembe Mutombo e Alonzo Mourning in fase calante, oltre a un grande Vince Carter. Thorn ha lavorato a più riprese ai vertici dell’NBA (di cui è stato vicepresidente in due periodi diversi) ed era stato il General Manager dei Chicago Bulls che scelsero Michael Jordan al Draft del 1984. Nonostante la propensione di Prokhorov a confermarlo nel suo ruolo di General Manager e President of Basketball Operations, Thorn non firmò mai l’offerta del prolungamento di contratto che gli aveva avanzato il magnate russo. Nell’estate del 2010 Billy King, ex General Manager dei Philadelphia 76ers, venne nominato al suo posto.

King è il protagonista di una storia che parla di come si può tentare di prendere d’assalto una Lega che ha costrizioni salariali molto rigide e nella quale non dovrebbe valere il principio per cui il più ricco è anche il più forte; e di quanto profondamente, oltre a fallire, si può compromettere il futuro sul medio-lungo periodo di una franchigia. Una storia che dimostra che le scorciatoie nell’NBA – salvo rari casi- non funzionano, e anzi, possono essere molto pericolose.

 

 

Ambizioni Megalomani

 

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Dicevamo: nel 2010 Prokhorov diventa proprietario di una franchigia che chiude la stagione con un record di 12 vittorie e 70 sconfitte e ne accumula 46 complessive nelle due quasi speculari campagne successive. Per evitare il matrimonio però c’è ancora tempo e la strategia di Mikhail da Mosca si delinea chiaramente. Il trasferimento a Brooklyn per la stagione 2012-2013 palesa il chiaro intento della società di affermarsi come prima squadra di New York. I Knicks, da questo punto di vista, hanno nel frattempo cercato di aiutarli in tutti i modi possibili, ma il Madison rimane sempre il Madison, e Beyoncè a bordo campo non basta a invertire la rotta.

I Nets hanno preso alla deadline della stagione precedente uno dei migliori playmaker della Lega, Deron Williams, in rotta con coach Sloan e in uscita da Utah in cambio di Devin Harris, Derrick Favors, un paio di comprimari e due prime scelte in draft futuri. Tanto, delle scelte al Draft, che se ne fanno?

 

Per il momento, i Brooklyn Nets pensano che sia meglio un uovo oggi che una gallina domani. A Deron Williams si aggiunge Gerald Wallace (costato un’altra prima scelta) e soprattutto Joe Johnson. Titolare del contratto più oneroso dell’NBA, arriva da Atlanta in cambio di cinque giocatori e di una prima scelta al Draft del 2013. Completano il quintetto Reggie Evans e Brook Lopez, che i Nets hanno scelto nel Draft del 2008 e deciso di rifirmare a cifre importanti in estate, dopo aver fallito l’assalto a Dwight Howard.

La prima stagione a Brooklyn si conclude con un record di 49-33 e l’approdo ai Playoffs per la prima volta in quasi dieci anni. In panchina c’è PJ Carlesimo, fautore di un basket non precisamente indimenticabile ma evidentemente (almeno in quel caso) efficace. E’ subentrato a stagione in corso a Avery Johnson, malgrado l’inizio fosse stato positivo. Johnson aveva anche vinto un titolo di allenatore del mese, ma evidentemente ai piani alti sono armati di parecchi dollari e poca pazienza. La sconfitta al primo turno dei Playoffs – perdendo Gara 7 in casa, contro i Bulls (orfani di Derrick Rose) – costa a Carlesimo la panchina. E porta la coppia Prokhorov-King a decidere che è tempo di dare una svolta, decisa e irrimediabile, alla situazione.

Il 13 Giugno del 2013 Jason Kidd (che aveva deciso di ritirarsi dal basket giocato appena dieci giorni prima) viene annunciato come nuovo capo allenatore della franchigia.

Il 28 Giugno 2013, nel corso del Draft, avviene qualcosa che ha cambiato la storia recente dell’NBA. Brooklyn ottiene Kevin Garnett, Paul Pierce, Jason Terry e DJ White dai Boston Celtics in cambio di Gerald Wallace, Kris Humphries, MarShon Brooks, Kris Joseph, Keith Bogans e tre future prime scelte (2014, 2016 e 2018), oltre al diritto di invertire la propria scelta con quella dei Nets nel Draft del 2017. 

All’epoca della trade Garnett e Pierce sono reduci da un ciclo a Boston che si è chiuso con un’eliminazione al primo turno dei Playoffs. Hanno rispettivamente 37 e 36 anni. Ma un quintetto con questi due, Joe Johnson, Deron Williams e Brook Lopez, sulla carta, fa un certo effetto. In uscita dalla panchina (oltre che da un contratto ben più remunerativo con Minnesota – storie russe?) c’è Andrey Kirilenko. L’allenatore è l’esordiente Jason Kidd, il più grande giocatore nella storia della franchigia, pronto ad entrare nella leggenda. Il tutto a Brooklyn, con Beyoncè in prima fila: Mikhail Prokhorov è un uomo felice. Pronto a prendersi l’NBA, e destinato a rimanere scapolo.
 

Le scelte al Draft saranno buone per qualcun altro, la sua squadra non ne ha bisogno. L’assedio ai Miami Heat dei Big Three è dichiarato.
Arrotondando per difetto, nella stagione NBA 2013-14 i Nets pagano Joe Johnson 21 milioni, D-Will 18, Pierce 15, Brook Lopez 14 e Garnett 12, per un totale che sommato a quello dei contratti degli altri componenti del roster è di 102 milioni di dollari. Niente di che, oggi. Ma ai tempi il salary cap era fissato a 58 milioni di dollari. La soglia per la luxury tax, di poco al di sotto dei 72 milioni.
Ai blocchi di partenza della stagione 2013-14 i Brooklyn Nets sono pronti a spendere quasi 200 milioni di dollari tra stipendi e tasse punitive, pagando alla Lega 4,25 dollari per ogni dollaro speso al di sopra della soglia dei 71 milioni. Cifre mai viste nella storia dell’NBA, ma che non sembrano impressionare più di tanto Prokhorov, deciso a vincere il titolo, letteralmente, a qualsiasi costo.

I Nets nella stagione precedente hanno allungato a Deron Williams un prolungamento di contratto da quasi 100 milioni divisi su cinque stagioni e non è stato propriamente un caso che Atlanta abbia lasciato andare Joe Johnson e (insieme al suo indiscusso talento) uno dei peggiori contratti della storia recente dell’NBA. Brooklyn si ritrova con una squadra di veterani in là con gli anni e più ricordi che sogni da realizzare; con un Deron Williams lontano parente di quello visto nello Utah e zero scelte al primo giro nei Draft tra il 2016 e il 2018, anni nei quali anche nel migliore dei casi l’onda degli effetti positivi (ovviamente mai pervenuti) della trade con Boston sarà inevitabilmente esaurita.Il piano non contempla – e non può contemplare – l’ipotesi di un fallimento.

 

 

Disillusione

 

La stagione dei Nets si conclude con un record di 44 vinte e 38 perse e un’eliminazione al secondo turno dei Playoffs per mano dei Miami Heat (1-4) alla loro ultima cavalcata nell’era dei Big Three.

Paul Pierce lascia la baracca alla fine dell’anno da free agent. Recentemente, in una delle sue sporadicissime dichiarazioni, Billy King (che verosimilmente non lavorerà mai più come General Manager nella NBA) ha dichiarato che se avesse saputo che Pierce non avrebbe rinnovato il suo contratto non avrebbe mai concluso quell’affare – dichiarazione un po’ tardiva e non sufficiente per decretarne l’assoluzione. La tragica situazione salariale dei Nets gli impedisce comunque di muoversi per un qualsiasi giocatore di livello sul mercato dei free agent. Con Garnett, Williams, Lopez e Johnson nel salary cap non c’è lo spazio per acquisire nessun giocatore, e i contratti in mano a Brooklyn non possono interessare ad alcuna squadra.

 

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Di Kevin Garnett a Brooklyn si è presentata una versione opaca, come logico che fosse. Joe Johnson e Deron Williams sono rimasti in città fino al momento in cui non hanno trovato un accordo con la franchigia per essere liberati, a fronte di un pagamento solo parziale di quanto gli sarebbe spettato nei rimanenti anni di contratto, e si sono potuti accasare in lidi più felici, alla ricerca delle vittorie che avevano solo potuto sperare di ottenere a Brooklyn, sotto l’egida di quel proprietario che aveva promesso grandi cose e si era scontrato contro il muro di un sistema che aveva pensato di poter sconvolgere prima ancora di averlo compreso.

Jason Kidd è rimasto una sola stagione sulla panchina dei Nets: ha fatto vedere buone cose, ma ha lasciato la nave che affondava e si è poi accordato coi Milwaukee Bucks del proprietario e amico Mark Lasry. Kidd è stato aspramente criticato per aver “ricattato” i Nets, chiedendo maggiori poteri decisionali ai danni di King (un po’ arrogante come mossa per un capo allenatore al primo anno, ma gli si poteva davvero dare torto?); e per aver cercato di sistemarsi su una panchina che ai tempi un proprietario l’aveva già. Forse aveva intravisto giocare Giannis e, guardando in casa a Deron Williams, Garnett e Joe Johnson aveva pensato che Brooklyn era sì bella, ma il futuro poteva essere più roseo altrove. E anche qui, come dargli torto?

Con i Bucks, poi, le cose hanno seguito per Giasone più o meno lo stesso corso. Visto il personaggio, fossi in Frank Vogel non dormirei sonni tranquillissimi.

Nonostante un record al di sotto del 50%, i Nets centrano i Playoffs anche l’anno seguente (sconfitta al primo turno) sotto la guida dell’ex Memphis Lionel Hollins. Prima di perdere anche Garnett e non poter comunque prendere sostanzialmente nessuno, per merito della situazione salariale costruita dalla sapiente opera degli anni precedenti. Dal Draft, per ovvie ragioni, nessuna soddisfazione. I contratti in essere non potevano far gola a nessuno, di qui la decisione di liberare alcuni giocatori cercando, se non altro, di risparmiare qualche milione di dollari in future tasse.

L’ultima stagione di Lionel Hollins si chiude con 21 vittorie e 61 sconfitte. I Nets avrebbero diritto alla quarta scelta assoluta nell Draft di giugno, ma la loro chiamata appartiene ai Boston Celtics (che selezionano Jaylen Brown). In un’NBA che in quegli anni ha scoperto il problema del tanking, ai Brooklyn Nets non rimane neanche la consolazione che perdere possa portare a un futuro più felice.

 

 

U Turn

 

La stagione 2016-17 si chiude con un record molto simile, 20-62, eppure qualcosa sembra essere cambiato sulle sponde dell’Hudson e i Nets arrivano alle soglie della stagione 2017-2018 (al termine della quale devono cedere a Cleveland l’ultima delle scelte dovute a Boston) con prospettive poco entusiasmanti per quanto riguarda il record auspicato e con una situazione salariale non tra le più entusiasmanti della Lega per quanto riguarda il futuro prossimo ma con nuovo entusiasmo e la sensazione di aver trovato una strada.

Mikhail Prokhorov aveva deciso di voltare pagina. Fallito il piano A, stava perseguendo un piano B che si sarebbe poi rivelato (nel tempo) di tutt’altro livello rispetto a quello che ne aveva fino ad allora garantito il celibato.

 

Nell’inverno a cavallo tra il 2015 e il 2016 Mikhail Prokhorov e i suoi decidono di ridisegnare l’organigramma dirigenziale della franchigia. Toccava armarsi di pazienza, tanto valeva accettarlo, perché le cose nell’NBA puoi provare a farle di fretta una volta soltanto. L’obiettivo non sarebbe stato modificato, il fattore temporale era inevitabilmente annullato (o pazienti, Mikhail, o pazienti): bisognava cambiare metodo. Drasticamente. Volenti o nolenti, bisognava effettuare un’inversione a U.

 

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Se il protagonista della prima parte della storia recente dei Brooklyn Nets è Billy King, quello della seconda è Sean Marks.
 

Neozelandese, eccellente giocatore di basket ma mediocre nella sua carriera NBA, Marks aveva un fascino particolare agli occhi dello smarrito Prokhorov che conduceva le ricerche per trovare il suo nuovo General Manager: veniva da una scuola molto particolare, che Prokhorov e i suoi consiglieri avevano imparato ad ammirare non poco (come tutto il resto del mondo, d’altronde): quella dei San Antonio Spurs.

Marks era stato impiegato in praticamente tutti i settori del mondo Spurs. Nel giro di cinque anni era stato a capo della franchigia di sviluppo di San Antonio nella D-League, assistente di Gregg Popovich in panchina (titolo contro Miami) fino a diventare spalla del General Manager più quotato della Lega: R.C. Buford.

Il matrimonio tra i Nets e Marks è andato in porto non senza qualche tribolazione. Forse infastidito dal fatto di non essere stato la chiara prima scelta della franchigia, forse scoraggiato dalla situazione che avrebbe trovato a Brooklyn, Marks ci mette del tempo prima di sciogliere la riserva legata al posto che gli viene offerto. Per uno che lavora nelle alte gerarchie dei San Antonio Spurs, l’idea di prendere in mano i Nets – negli anni precedenti quanto di più lontano dal sistema in cui era abituato a muoversi – poteva non essere immediatamente allettante.

L’NBA non è un luogo in cui gli errori vengono perdonati facilmente, e se non sfrutti bene la prima opportunità che ti viene data, non è detto che se ne presenterà una seconda. Come dire: scegli bene dove andare a fare la tua cosa, perché potrebbe essere l’unica volta nella tua carriera che avrai quel posto, e se ti bruci, addio futuro.

Si era sparsa la voce che Marks avesse rifiutato il posto che gli era stato offerto e Prokhorov smentì dal canto suo di averglielo mai offerto (anzi, disse, letteralmente: “Io questo Sean Marks non so neanche chi sia”). Rassicurato sul fatto che avrebbe potuto dirigere la franchigia come meglio credeva, senza interferenze né scadenze, Marks decide infine di accettare la sfida e prendere in mano le redini dei Brooklyn Nets. Siamo nella pausa per l’All-Star Game 2016. I Nets viaggiano con un record di 14 vittorie e 40 sconfitte.

Brooklyn completa la stagione vincendo sette delle successive ventotto partite sotto la guida di Tony Brown, subentrato nel mese di gennaio a Lionel Hollins e a cui Marks lascia terminare la stagione. L’approccio di Sean non è traumatico e nonostante una rivoluzione bolla in pentola non ci sono scossoni sino al termine della stagione. Unica, doverosa, mossa, è quella di liberare Joe Johnson a pochi mesi dalla scadenza del suo contratto.

 

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La situazione salariale dei Brooklyn Nets nella stagione 2015-16, al momento dell’insediamento di Sean Marks come General Manager

 

 

A Brooklyn non piove, grandina. E se i Nets, dopo aver salutato Pierce e Garnett, finalmente non hanno più sul groppone la ventina di milioni di dollari annui dovuta a Joe Johnson e possono, teoricamente, avere un discreto spazio salariale grazie al quale attrarre allettanti free agents, grazie alla florida situazione economica dell’NBA il Salary Cap passa nel giro di una sola estate da 70 a 94 milioni di dollari, regalando a praticamente tutte le franchigie della Lega spazio salariale e la possibilità di inseguire giocatori senza contratto (con i disastri che questo ha causato). Viene annullato, di fatto, l’ipotetico vantaggio che un team nella posizione di Brooklyn potrebbe avere.

 

E così ella sua prima estate da General Manager dei Brooklyn Nets Sean Marks lascia andare Jarrett Jack non esercitando l’opzione presente nel suo contratto, cede Thaddeus Young a Indiana in cambio della ventesima chiamata del draft (Caris Levert) liberando 14 milioni di spazio salariale, firma in free agency Jeremy Lin ($36M/3 anni), Trevor Booker ($18.5M/2 anni), Justin Hamilton ($6M/2 anni), oltre che – con contratti annuali – Luis Scola, Greivis Vasquez, Randy Foye, e al minimo salariale Anthony Bennett e Joe Harris (!).
Le cose più interessanti però Marks le fa all’interno della restricted free agency: offre un contratto da 50 milioni per 4 anni a Tyler Johnson (Miami Heat) che il giocatore firma, ma Miami (che ha il diritto di pareggiare qualsiasi offerta per il suo giocatore e tenerlo nel proprio roster) si oppone: Johnson rimane a South Beach. Stessa cosa accade per Allen Crabbe (4 anni, 75 milioni complessivi), con Portland questa volta a pareggiare l’offerta dei Nets.

 

Ma perché i Brooklyn Nets offrono così tanti soldi a giocatori che sono tutt’altro che star NBA, anzi che al momento non erano neanche titolari? Intanto perché (come molti nella pazza estate 2016) hanno spazio salariale, e non riempirlo poco gli cambia. In secondo luogo, con il cap in continua e vertiginosa crescita, bisogna ripensare al valore medio di tutti i contratti: quelle che prima sembravano cifre faraoniche ormai non lo sono più. Salgono i contratti massimi, e crescono di conseguenza tutti gli altri “livelli”. Come abbiamo visto Brooklyn non può sostanzialmente programmare un futuro vincente a breve termine, quindi ciò che può sperare è che un giocatore preso adesso (a un prezzo di mercato superiore al suo reale valore sul campo) possa arrivare a valere i soldi che il contratto gli riconosce, se non addirittura di più. I Nets non hanno niente da perdere. Possono provare a scommettere su giocatori sottostimati nella Lega sperando che possano crescere, essere funzionali al loro progetto, e rivelarsi in futuro giocatori di interesse per altre squadre o fondamentali per la loro. Nessuno dei due contratti è un massimo salariale e può essere un domani nella media per un giocatore da quintetto in una qualunque squadra NBA. Si tratterebbe in ogni caso di impegni non eccessivamente lunghi e che non comprometterebbero il futuro a lungo termine della franchigia; ma, anzi, potrebbero diventare interessanti pedine di scambio per chi in futuro volesse: a) usufruire delle prestazioni al di là delle aspettative di uno di questi giocatori; b) rilevare un contratto sostanzioso e vicino alla scadenza (che dunque andrebbe nel giro di poco tempo a liberare spazio salariale; e lo spazio salariale – anche futuro – è qualcosa di cui le squadre che puntano forte sulla free agency non sono mai abbastanza piene).
 

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Marks ha fatto della restricted free agency un’arte (a perdere, per la verità), ma non ha avuto paura di rischiare nel fare offerte monstre a giocatori che pensava di poter valorizzare; e dato che queste offerte sono poi state regolarmente pareggiate dalle squadre che ne avevano la possibilità – e il talento poi non valorizzato – può essere considerato il responsabile di almeno un paio dei peggiori contratti attualmente presenti nella Lega (quelli di Tyler Johnson e Allen Crabbe appunto – Crabbe poi i Nets lo acquisiranno via trade dai Blazers e per liberarsi del suo contratto durante le ultime Finali NBA Marks ha dovuto mandare agli Hawks due prime scelte, ammettendo la sua forse unica sconfitta da quando è GM dei Nets: ma è importante saper ammettere una sconfitta, e capire quando è giunto il momento di massimizzare, costi quel che costi.) 

 

Sempre nel 2016, Bojan Bogdanovic aveva il suo contratto (quello firmato da rookie) in scadenza al termine della stagione. I Nets avrebbero avuto diritto in estate a raggiungere un accordo per il prolungamento o a pareggiare qualsiasi offerta che gli fosse pervenuta in quanto restricted free agent, oppure ancora a fargli firmare (in assenza per lui di migliori possibilità) una qualifying offer già stabilita dal valore di circa 4,5 milioni di dollari – che sarebbe valsa per l’ultimo anno di contratto, dopo il quale sarebbe stato unrestricted free agent. In sostanza, Bodganovic sarebbe diventato o un giocatore costoso per Brooklyn o un giocatore da lasciare andare senza ricevere in cambio niente (se non l’esiguo spazio salariale liberato dall’uscita del suo contratto). E’ buona abitudine che le squadre (soprattutto quelle che si sentono incomplete e hanno la speranza di potersi in qualche modo sistemare all’ultimo momento per fare il salto decisivo) siano più generose all’approssimarsi della trade deadline. Ed è stato proprio a ridosso del weekend dell’All Star Game che Sean Marks ha acconsentito a mandare Bogdanovic a Washington, in cambio di una scelta protetta al primo giro dell’ultimo draft, oltre ad Andrew Nicholson e Marcus Thornton. I Nets sono riusciti ad ottenere quella first round pick (anche se non di particolare prestigio) che avrebbero tanto voluto avere e che il loro sciagurato passato gli aveva portato via. In cambio di un giocatore che poi Washington in estate ha puntualmente deciso di rendere unrestricted free agent non proponendogli neanche la qualifying offer (ben fatto, Wizards!) e che è finito a firmare a 11 milioni annui per le successive due stagioni con gli Indiana Pacers (e oggi ha appena firmato un, per lui glorioso, per l’immediato della franchigia dello Utah pure, contratto da oltre 70 milioni di dollari per quattro anni con i Jazz).

Nel frattempo, nell’aprile 2016 Marks aveva effettuato la prima fondamentale scelta della sua gestione, chiamando Kenny Atkinson ad allenare la squadra per la stagione successiva. Ex assistente in diverse franchigie NBA e da ultimo principale consigliere di Mike Budenholzer ad Atlanta, Atkinson predica(va) un gioco ad alto ritmo e ad alto numero di possessi, aposizionale e con enfasi sull’uso del tiro da tre punti. I suoi credo sono stati e saranno fondamentali non solo nella scelte tecniche di Marks, ma anche nella decisione di alcuni giocatori di credere nel progetto Brooklyn nelle sue fasi embrionali.

I Nets si trovano ancora una volta a non possedere la propria scelta al Draft della stagione a venire, stesso dicasi per la scelta 2018. Inoltre, con uno spazio salariale importante ma non importantissimo e l’evidente mancanza di talento in casa (Brook Lopez è per distacco il miglior giocatore della franchigia), quelli che si prospettano sono anni, inevitabilmente, vuoti. Quasi privi di significato. L’unica possibilità per Brooklyn è quella di costruire per il futuro. Sì, ma come? E poi, per quale futuro, se non ci sono nemmeno le prospettive per poter scegliere i migliori giocatori in uscita dai college?

Le possibilità di successo dei Nets erano inevitabilmente da proiettare sul lungo periodo. Difficilmente la squadra potrà tornare su una buona onda prima della stagione 2018-19, e probabilmente ben più in là. Dovendole vivere, però, queste stagioni, tanto valeva farle in qualche modo fruttare. Pure se in mezzo a un mare di sconfitte, i Nets di Atkinson giocano da subito il basket a più alto ritmo della Lega e per la prima volta da anni riescono a dare l’impressione di essere ciò che i dollari non erano riusciti a farli diventare: una squadra. Brooklyn decide, se proprio deve perdere, di incominciare a farlo nel modo giusto.

L’idea di Marks e Atkinson è prima di tutto quella di mettere in campo una squadra tosta, combattiva, capace di giocare ad alto ritmo. Per far divertire il pubblico, per sviluppare i propri talenti, per far vedere al Mondo (e soprattutto a quei giocatori che un domani saranno liberi di scegliere in quale squadra giocare) che i Brooklyn Nets sono seri, e sono un’opzione, valida.

 

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Nell’ottica di sviluppare talento e di provare a riscoprire giocatori interessanti (per il proprio futuro o per quello di una eventuale trade), anche laddove magari in passato si era pensato a dei fiaschi, si spiegano diverse delle operazioni condotte da Marks nella sua prima estate alla guida dei Nets. Stando sempre attento a non legarsi le mani a lungo termine in maniera compromettente, dando massima importanza alla flessibilità.

Thaddeus Young è un giocatore discreto ma senza motivo di esistere a Brooklyn, nel centro di una ricostruzione e con attorno una squadra giovane. Scambiare il suo contratto per un prospetto ancora acerbo e soprattutto con un brutto passato a livello medico, ma dotato di talento puro come Caris LeVert, segna la linea di ciò che il GM vuole provare a fare.
Di Lin abbiamo detto e Justin Hamilton non è né un giocatore né un contratto che sposta gli equilibri (anche se quel contratto tornerà utile, vedremo più avanti come), se non che probabilmente piace ad Atkinson in quanto è un 7 piedi che tira da tre punti. Lo sviluppo di Brook Lopez in tiratore da tre punti, del resto, è stata una delle cose più godibili della storia recente della NBA.
Trevor Booker porta a casa dai Nets un buon numero di quattrini per un paio di stagioni e la sua acquisizione è comunque qualcosa da segnalare, perché si tratta di un giocatore sottovalutato per tutta la sua carriera, che combatte e va a rimbalzo in maniera mirabile, e sembra essere un ottimo elemento in una squadra che prova a cavare fuori il meglio da ogni suo componente e che valorizza, come poche altre nella Lega, il concetto di squadra. Buon compagno, non è una pietra preziosa nel panorama NBA ma può aiutare i giocatori più giovani nello spogliatoio e mostrare la strada da seguire per essere professionisti. E’ un lungo efficiente, e dell’efficienza i Brooklyn Nets sanno che farsene.
Marks, anche per completare il roster, allunga contratti annuali a veterani navigati della Lega con doti (indiscusse ma un po’ svanite) funzionali al gioco di coach Atkinson come Scola, Foye e Greivis Vasquez, e prova a cavare il coniglio dal cilindro tentando di resuscitare il mitico Anthony Bennett. Esperimento naturalmente fallito ma il tentativo vale la segnalazione. In altri casi, andrà meglio.

Nel 2016-17 i Nets conducono una stagione onorevole e costellata di sconfitte, ma che riesce a portare i primi effetti sperati: il senso diffuso di disfunzionalità un tempo dominante pare essere finito agli estremi opposti della galassia e i Nets giocano un basket divertente, alcuni elementi del roster si mettono in mostra e confermano di poter essere funzionali al futuro della squadra (Jeremy Lin, Rondae Hollis-Jefferson e Caris LeVert su tutti) o quantomeno di appartenere a questa così esclusiva Lega di Fenomeni.

Rispetto alla sanguinosa estate 2016 (da cui le squadre NBA sembrano comunque avere imparato qualcosa) c’è da dire è che quasi sempre è più pericoloso dare un contratto particolarmente corposo a un giocatore relativamente anziano; perché se i giovani possono arrivare a valere i soldi (magari esagerati inizialmente) che vengono pagati, o in caso contrario ci potrebbe essere qualcuno disposto a dargli una seconda chance, quelli più in là con gli anni diventano, se deludono, molto più difficili da scambiare. E le squadre che hanno malamente investito i propri soldi su di loro saranno disposte (o obbligate) a lasciar andare degli assets (giocatori, scelte), pur di liberarsi di quei contratti e di prezioso spazio salariale.

I Brooklyn Nets questo lo sanno bene, e ne approfittano nell’estate successiva, quella del 2017.

Dopo aver ancora una volta fallito l’assalto a un restiate free agent – Washington infatti pareggia il max contract offerto da Marks a Otto Porter (4 anni, 106 milioni di dollari) – decidono di cambiare strategia e si trovano a fare affari con i Los Angeles Lakers e il loro disperato bisogno di creare spazio salariale in vista dell’estate 2018 (un anno dopo aver allungato contratti quadriennali a Timofey Mozgov e Luol Deng per un totale che supera i 130 milioni di dollari). 

Questo il riassunto delle mosse di Brooklyn nella campagna estiva 2017.

Nella notte del draft i Nets, dopo aver selezionato con la scelta numero 22 (quella ottenuta dai Wizards in cambio di Bojan Bogdanovic) Jarrett Allen e con la 27esima scelta assoluta (Boston swap) Kyle Kuzma, girano quest’ultimo ai Los Angeles Lakers insieme a Brook Lopez in cambio di Timofey Mozgov e D’Angelo Russell.

Justin Hamilton e il suo modesto contratto di cui avevamo parlato in precedenza vengono mandati ai Toronto Raptors, in cambio di DeMarre Carroll, una prima scelta al draft 2018 e una futura seconda scelta.

Allen Crabbe arriva alla fine alla corte di coach Kenny Atkinson in cambio di Andrew Nicholson.

Nel giro di poche settimane i Nets vedono arrivare tre giocatori che diventano i più pagati della franchigia: nell’ordine, Crabbe, Mozgov e Carroll. Oltre a un ragazzo che sarebbe diventato il miglior giocatore della squadra: D’Angelo Russell. Il tutto, in sostanza, in cambio di Brook Lopez (che ai Lakers interessava più che altro per il contratto in scadenza) e di una prima scelta di poco valore – che si è poi però trasformata in un ottimo giocatore.

 

D’Angelo Russell (ex seconda scelta assoluta al draft) rappresenta esattamente il tipo di talento di cui Marks ha bisogno, e il neozelandese trova il modo – per lui non così costoso- di metterci le mani. Brooklyn decide di sobbarcarsi il contratto di Mozgov a tre anni dalla sua scadenza sapendo che graverà sulla franchigia in un periodo in cui grandi successi non sono all’orizzonte per andare a scadere nell’estate 2020, proprio come quello di Crabbe.

 

(Mozgov sarà poi scambiato per Dwight Howard un anno dopo – e l’ex Superman direttamente liberato subito dopo – e Crabbe scambiato prima delle ultime Finals, come abbiamo visto. Brooklyn aveva forse pianificato per una situazione contrattuale come quella che si è venuta a creare in questa free agency per il 2020, ma trovandosi nella condizione di anticipare i tempi, è riuscita a farlo.)

La logica delle trade che portano i Nets ad acquisire Crabbe e Carroll è  la stessa dell’affare-Mozgov. Brooklyn, senza ottenere nulla di paragonabile a Russell – ma senza rinunciare a praticamente niente – si fa onere di due contratti sgraditi alle franchigie che li avevano in un primo momento sottoscritti. Toronto, apparentemente condannata alla permanenza nella terra di mezzo NBA, alla ricerca di una qualche mossa per liberare spazio salariale o compiere il salto di qualità, addolcisce lo scambio inserendovi una futura prima scelta. Portland invece rinuncia volentieri al contratto di Crabbe che Brooklyn l’aveva indotta a sottoscrivere.

 

 

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Il monte salari dei Brooklyn Nets per la stagione 2017-18 e gli anni a venire.

 

 

Brooklyn si trova ad avere un discreto roster garantito per le prossime due stagioni, inevitabilmente di transizione; ma si mantiene in una posizione di invidiabile flessibilità sul lungo periodo, quello che più interessa. 

 

 

Diventare grandi

Dal 2017 Prokhorov non è più unico proprietario della franchigia (Mr. Alibaba ha rilevato il 49% delle quote dei Nets), e dal 2021 potrebbe non esserne più proprietario e punto. Il lavoro di Marks di cui abbiamo parlato e le mosse degli ultimi mesi (Brooklyn ha tra le altre cose deciso di non estendere la qualifying offer a Hollis-Jefferson, un altro giocatore da cui era riuscita a ottenere buone cose) hanno portato i Nets ad avere lo spazio salariale per due max contract nell’estate del 2019.

 

Il fatto di poter contare su uno staff tecnico e dirigenziale di primissimo livello, ormai ampiamente riconosciuti nella Lega, e l’aver dimostrato di saper lavorare sul talento come pochi nell’NBA (basti pensare al lavoro fatto con Spencer Dinwiddie, Joe Harris, Trevor Booker, Jared Dudley per fare solo alcuni nomi) sono state premesse decisive allo sbarco di Kyrie Irving e Kevin Durant, così come la prospettiva offesa loro di poter giocare insieme a giovani di sicuro avvenire come Jarrett Allen e soprattutto Caris LeVert. Essere riusciti a creare un ambiente di lavoro coeso e produttivo, in cui praticamente qualunque giocatore si sia trovato a passare è stato valorizzato e migliorato sono fattori di primaria importanza se si vuole capire come mai i Nets e non altre franchigie siano stati scelti da Durant e Irving. Brooklyn ha dimostrato di poter essere l’organizzazione giusta.

Oltre a essere riusciti a centrare i Playoffs in anticipo sui tempi stabiliti e con un nucleo in cui non in molti avrebbero scommesso, i Nets hanno fatto i compiti a casa, e guadagnatisi la totale credibilità nel mondo degli addetti ai lavori (e soprattutto in quello di agenti e giocatori), si sono fatti trovare finalmente pronti per andare a caccia dei pesci grossi attraverso la unrestricted free agency – ad ulteriore dimostrazione del fatto che lo star power della Lega è un dato di fatto, e che anche chi sa valorizzare il (fosse anche poco) talento come nessuno sa bene che per vincere ci vogliono le superstar, quelle vere. E se le si può ottenere tramite la free agency, tanto meglio.
 

Brooklyn_Nets_Around_the_Game_NBA

E’ lecito chiedersi se i Nets avrebbero voluto Kyrie, ovviamente al massimo salariale, se non avesse portato con sè Durant. La stessa esperienza, ci dovrebbe dire che in caso di mancato committment da parte di KD non sarebbe stato così semplice per Brooklyn rinunciare a D’Angelo Russell e scegliere Irving come propria principale stella. L’esperienza a Boston dovrebbe aver insegnato a tutti che Irving è pericoloso. Difficilmente – a meno di drastici cambiamenti in molti aspetti del suo gioco e della sua personalità – potrà mai essere il miglior giocatore di una squadra vincente, ed è per questo che anche se già si sente aria di trionfalismi intorno ai Nets (più che giustificati se si pensa da dove vengono) a fare la differenza per il futuro della meno gloriosa franchigia neroargento della Storia della NBA saranno le condizioni in cui Kevin Durant tornerà dall’infortunio al tendine d’achille nel 2020.

Per la prossima stagione, i Nets hanno firmato – oltre agli ex giocatori di Boston e Golden State – DeAndre Jordan (40 milioni per i prossimi quattro anni – pur di averlo come compagno Irving e Durant si sono abbassati lo stipendio) e Garrett Temple (due anni per dieci milioni totali). Taurean Prince era arrivato a Brooklyn nella tarde con cui Marks si era liberato del contratto di Crabbe.

 

La presenza nel roster di Allen potrebbe far storcere la bocca ai numerosi detrattori del gioco di DeAndre Jordan (che qualche ragione nell’essere tali ce l’hanno), che si chiedono il perché dell’acquisizione di un giocatore parzialmente superato e in netto calo. L’esperienza dei Nets negli scorsi Playoffs, però, ha reso chiara al front office la necessità di aggiungere peso alla squadra nel tentativo di trovare contromisure allo strapotere di Joel Embiid, con cui chiunque voglia avere ambizioni di titolo nella Eastern Conference dovrà fare i conti negli anni a venire. Garrett Temple è un veterano ammirato dai suoi commilitoni, al di là forse dei suoi meriti sportivi, comunque non irrilevanti; e avere un buon compagno per andare in guerra è sempre una buona cosa. Taurean Prince, oltre ad essere un amico di Kevin Durant, allo staff tecnico piace e può essere una versione migliore di Carroll, che nella prossima stagione tornerà utile.

Leggermente in ritardo, i Brooklyn Nets sono finalmente diventati grandi. Per ora solo sulla carta, domani probabilmente sul campo.

 

Hanno finito mettendo i puntini sulle i, sapendo bene che le decisioni che hanno preso nei momenti più bui sono quelle che li hanno poi portati alla luce. Forse ora sono arrivati in paradiso. Di sicuro, sono passati dall’inferno. Ed è stato un viaggio molto interessante.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questo articolo contiene delle parti di tre precedenti articoli pubblicati su Around the Game: La metamorfosi di Brooklyn – 1/2 La folle visione di Prokhorov2/2 U Turn; Nets e Clippers, diventare grandi.