Intervista a chi le ha viste veramente tutte.

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Ho iniziato a seguire il Geas a ottobre, in occasione della prima partita di Euro Cup contro il Beşiktaş. Ero andato principalmente per vedere giocare Temi Fagbenle – protagonista nella stagione di WNBA delle Indiana Fever da poco terminata – e Nika Mühl, la rookie proveniente da UConn che però si ruppe il crociato pochi giorni prima. Che sfiga. Per lei, ma un po’ anche per me.
Colpevolmente, sapevo molto poco di questa squadra. Sapevo che era di Sesto San Giovanni, ma l’Euro Cup la giocava a Castellanza e il campionato, di lì a poco, l’avrebbe giocato a Cinisello. Ed ero già confuso. Contro il Beşiktaş persero nettamente. Non giocarono nemmeno male, ma non ci fu molta storia.
Andai anche a quella dopo di campionato, che giocavano ancora a Sesto. Persero contro il Derthona dopo essere state avanti tutta la partita, con un tiro libero a tre secondi dalla fine. Ma non sarò io che porto sfiga? mi chiesi. Andai alla partita successiva di Euro Cup più che altro per capire se fosse davvero colpa mia, ma questa volta vinsero, contro il Benfica. Menomale, pensai.
Cominciai allora a studiare le giocatrici, le loro origini, dove hanno giocato. Che college hanno fatto, se lo hanno fatto. E scoprii un microcosmo di storie molto vario. C’è Anna Makurat, che ha giocato due anni a UConn sotto la guida del leggendario Geno Auriemma, prima di tornare in Polonia, la sua patria, poi Sassari, Venezia, fino al Geas, e adesso ha preso il volo per Phoenix per provare a giocarsi le sue carte con le Mercury in quelle settimane infernali del training camp.
C’è Gina Conti, che dall’Ohio ha girato tra North Carolina, alla Wake Forest, e Los Angeles, a UCLA, prima di prendere il volo per Milano e iniziare una nuova carriera in Europa, e quindi nella nazionale italiana, in virtù delle origini molisane del lato paterno della sua famiglia.
Dopo la Central Michigan University, il college del suo stato natale, Tinara Moore è arrivata in Europa passando per la Spagna, e quest’anno per il GEAS ha dato tutto: leader per minuti giocati, punti, rimbalzi e stoppate.
In mezzo a un folto gruppo di italiane, come le nazionali Valeria Trucco, Anastasia Conte, la veterana Laura Spreafico, le due ex bolognesi Alessandra Orsili e Beatrice Barberis, arrivate a Sesto dopo la chiusura improvvisa della squadra femminile da parte della Virtus, la giocatrice al GEAS da più tempo è Jazmon Gwathmey. Nata in Virginia, ha frequentato la James Madison University, ha giocato per la nazionale portoricana, e ha girato tre continenti prima di arrivare in Europa.
«La chiamata del GEAS è arrivata poco dopo l’inizio della pandemia» racconta Gwathmey. «Era un periodo molto difficile. Le squadre stavano perdendo molti soldi, gli sponsor si stavano ritirando; appena mi hanno contattato, ho accettato subito. Con tutto quello che succedeva, non era facile vivere serenamente e giocare a basket. Ma qui mi hanno aiutato molto ad attraversare quel periodo cupo».
«Fin da subito mi sono sentita bene, e per questo motivo ho deciso di restare, e di accettare ogni offerta di rinnovo che mi veniva proposta. Ero sempre piuttosto sorpresa quando, ogni anno, coach Cinzia [Zanotti] mi chiedeva di restare: non succede praticamente mai in questo ambiente, le giocatrici vanno da una parte all’altra di continuo. E io ogni volta chiedevo, ridendo: “Ma perché mi volete ancora?”. Anch’io, in questi anni, ho avuto altre offerte anche più remunerative, ma non le ho mai prese in considerazione. Per me stare bene è più importante dei soldi, e qui al GEAS mi sono sempre sentita a casa».
L’ultima partita della loro stagione è stata domenica 6 aprile, nella gara 2 dei playoff contro Campobasso. Era una partita da dentro o fuori. In gara 1 il GEAS, come molto spesso è accaduto questa stagione (ovvero da quando ho cominciato ad andare al palazzetto), ha giocato molto bene ed è stato avanti per gran parte della partita, ma ha ceduto allo scadere, subendo una rimonta completata a pochi secondi dalla sirena.
Ovviamente ho pensato a quante partite avrebbe potuto vincere se non avessi portato a Cinisello la mia dose di malasorte, ma preferisco tenere per me la risposta. Nel quarto periodo la direzione era già chiara a tutte, e anche tra il pubblico, ormai, il sentimento principale era la rassegnazione.
A un certo punto, Makurat si accascia a terra, toccandosi il ginocchio. A stagione conclusa, sembrava che stesse per succedere l’unica cosa che poteva ancora andare storta, un infortunio a chi avrebbe dovuto di lì a poco giocarsi una grande chance per la propria carriera. Makurat, per fortuna, si è rialzata poco dopo, e adesso si trova in Arizona per entrare a far parte della nuova era delle Mercury post Diana Taurasi.
La cosa più amara di gara 2 non è stata la netta sconfitta subita dal Geas, ma il ritiro di Gwathmey. Poco prima della partita, la speaker del team Edy Cavallini ha omaggiato la guardia della James Madison University ricordando tutte le sue esperienze, i titoli vinti in carriera, la partecipazione alle Olimpiadi di Tokio con la nazionale, mentre coach Zanotti le consegnava la maglia numero 24. A Nord di Milano, dopo aver girato tre quarti di mondo, Gwathmey ha trovato il suo equilibrio: una moglie (Ashley Ravelli, anche lei ex giocatrice), una casa, e due bulldog francesi.

Dove tutto è iniziato
Il WNBA Draft nella notte di lunedì 14 aprile, che ha visto le Huskies di Geno Auriemma protagoniste a partire da Paige Bueckers, prima scelta assoluta, ha fatto riaffiorare a Gwathmey il ricordo del suo draft, quello del 2016, con le prime tre pick provenienti dal college di East Hartford. E raccontandomi il dietro le quinte mi ha aiutato a capire uno degli eventi più assurdi – visto dalla prospettiva europea – dello sport americano.
«Il mio unico contatto con il basket professionistico prima del draft fu la combine organizzata un paio di settimane prima dalla WNBA, utile per le giocatrici più lontane dai riflettori per mettersi in mostra davanti agli allenatori e ai GM», racconta Gwathmey. «Giocai piuttosto bene, e parlai con alcuni scout e manager, che mostrarono interesse. Ma i contatti finirono lì».
«La sera del draft – continua – ero al mio college per la cena di fine stagione. Alla fine della cena proiettarono la diretta tv sullo schermo. Ero lì che guardavo tranquilla quando, alla 14esima chiamata, fecero il mio nome. E, ancora più sorprendente, si trattava di Minnesota. Erano i tempi di Maya Moore, Seimone Augustus. Pensai: “Non è possibile, dai”. Subito dopo, mi scrisse la mia agente, Ticha Penicheiro, e mi disse: “Non andrai a Minnesota, ti hanno scelto per una trade”».
«In quel momento ero su una montagna russa, le emozioni andavano su e giù, non ci stavo capendo niente. Poi mi disse che sarei andata alle San Antonio Stars. E pensai “okay, ha senso”. Avevo parlato in effetti con il coach delle Stars. E così, una settimana dopo, presi il volo per il Texas».
Dalla sera del draft in poi, il calendario si fa delirante. Giocatrici che hanno terminato la carriera al college poche settimane prima devono fare subito la valigia e andare dall’altra parte del paese, in una città nuova, per provare a entrare in un roster di WNBA. Passando dal «gulag» del training camp.
Il training camp dura circa due settimane a seguito del quale il coach e la dirigenza scelgono le 12 giocatrici – tra le 16-18 convocate – che comporranno la rosa finale della squadra. A Gwathmey il camp andò bene, visto che entrò nel roster, ma fu un’esperienza logorante.
«Iniziai piena di paura, continuavo a sbagliare ogni cosa. Quando iniziarono le amichevoli, il momento più importante, non stavo giocando bene. Finché il coach non mi prese da parte e mi disse di non aver paura, e che mi avevano scelto perché, per loro, ero un investimento. Quelle parole mi tolsero un po’ di peso dalle spalle, mi diedero la motivazione per impegnarmi seriamente».

«E infatti la mia stagione da rookie andò bene, ci detti dentro. Iniziai giocando pochi minuti, com’è normale per un’esordiente. Capitava che dovessi entrare a gara in corso e le indicazioni fossero: “Vai in campo e marca Maya Moore”. Feci del mio meglio. Nel corso della stagione, a causa di alcuni infortuni nella squadra, entrai nel quintetto iniziale».
«Scoprii da Twitter che mi avevano mandato in Indiana»
«A fine campionato ero soddisfatta di me stessa, avevo aspettato con pazienza la mia occasione e l’avevo sfruttata. Mi trovavo bene. Poi, durante un’amichevole di preseason nel mio secondo anno, mentre stavo per entrare sul parquet, mi si avvicinò il general manager che mi disse: “Vai a cambiarti, ti stiamo per scambiare”. Ero senza parole. Tornai a casa e scrissi subito alla mia agente, volevo capire cosa stesse succedendo. Mi rispose che non sapeva niente. Dopodiché aprii Twitter e lessi “Jazmon Gwathmey è una nuova giocatrice delle Indiana Fever”. Ero furiosa. Ma purtroppo è così che funziona».
Indianapolis
«Il mio primo anno alle Fever fu molto bello. Mi trovavo benissimo con la coach, Pokey Chatman». Nello staff c’era anche Tamika Catchings, una delle giocatrici più forti di sempre, e leggenda di Indianapolis. «Era fantastica. Mi prese subito sotto la sua ala. Anche qui partivo dalla panchina, e dovevo lavorare duro per guadagnarmi anche pochi minuti. Ma dopo una serie di infortuni in squadra iniziai a giocare sempre di più, e finii la stagione con buoni numeri. Nella mia seconda stagione lì, però, a un certo punto risolsero il mio contratto. Indiana era nel mezzo di una stagione di rebuilding, e stavano cercando le soluzioni migliori per loro in quel momento».
«Nessun rancore nei loro confronti, è così che vanno le cose, ma dopo quella stagione decisi che non sarei più tornata nella WNBA. La pressione è troppo difficile da gestire. L’impegno richiesto era talmente alto che stava compromettendo il mio rapporto con il basket. Non se ne parla molto, ma se escludiamo le primissime scelte, le sicure star, come Breanna Stewart che fu nel mio stesso draft, le altre devono lottare tutti i giorni per un posto in squadra. Anche perché i posti sono solo 156, e il fatto di poter essere mandate via in qualsiasi momento della stagione rende il tutto troppo stressante. Nel corso degli anni mi sono arrivate diverse proposte per i training camp, ma ho sempre detto no grazie. La W è un campionato incredibile, davvero incredibile, ma bisogna essere sempre concentrate e abbastanza forti mentalmente per reggere una stagione intera».
La Diana Taurasi Experience
I tre anni di Gwathmey nella WNBA le hanno portato molto stress, ma anche alcuni aneddoti da raccontare a giochi conclusi. Come il suo primo incontro con Diana Taurasi, famosa per dare sempre un “comitato di benvenuto” alle rookies, ed essere un pain in the ass per tutte le altre. «Stavamo giocando in casa. Il mio compito era marcare Diana, una cosa semplice insomma. Stavo difendendo su un pick & roll, lei andò a destra. Io stavo uscendo da un blocco e poi, non ho mai capito come, mi tenne il braccio e mi diede un montante prima di andare al tiro. Sentii un fischio e pensai “Bene, fallo in attacco”. Invece vidi il mio numero. Il fallo, non si sa come, era mio. Mi voltai a guardarla, e vidi che stava sogghignando».
«Mi ricordo anche quella volta che dovetti marcare Maya Moore, mentre giocavo in Indiana. Mi intervistarono a fine partita e mi fecero i complimenti, mi dicevano: “Hai difeso davvero bene, come ti sei preparata?”. E io dentro di me pensavo “Ma ha fatto 30 punti!”. Ma loro erano contenti, e va bene così».
Un altro momento che Gwathmey ricorda volentieri è il primo incontro-scontro con Seimone Augustus, una delle sue giocatrici di riferimento. «La ammiravo molto. Ho sempre cercato di imitarla, e di modellare il mio stile di gioco sul suo. Eravamo entrambe guardie alte di statura, e con un buon controllo di palla. Nella prima partita contro di lei, avevo il compito di marcarla. Ci mettemmo subito a fare un po’ di trash talking, ci provocavamo, eravamo entrambe molto competitive. A un certo punto l’arbitro ci disse di smetterla, e Seimone, in sostanza, lo mandò a quel paese. Io mi zittii, guardai l’arbitro ma lui non fece nulla. Allora le dissi, intimorita: “Ehi, sono solo una rookie. Non voglio guai”. Lei si mise a ridere».

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L’Australia e la Corea del Sud
Dopo il primo anno in W, per Gwathmey arrivò la chiamata da Canberra, a 16 ore di fuso orario lontano da casa. Giocare anche durante l’offseason (ovvero il periodo in cui in Europa si giocano le stagioni regolari, da settembre a aprile) è una necessità per il 90% delle giocatrici. I soldi, com’è noto, sono un grande problema nello sport femminile. Per Gwathmey lo sono stati soprattutto all’inizio, specie negli Stati Uniti. Durante la sua carriera al college, tra il 2012 e il 2016, non c’era ancora il NIL, il Name, Image & Likeness, ovvero quel set di leggi che hanno permesso ai giocatori e alle giocatrici di college di guadagnare dai propri diritti d’immagine. È stato permesso a livello nazionale soltanto dal 2021, a seguito di una sentenza della Corte Suprema.
È stata una rivoluzione. Da quel momento in poi, sono stati numerosi i casi di atleti e atlete che hanno firmato accordi di sponsorship milionari già nei loro anni da freshman o da sophomore. Ma mentre nel caso degli sport maschili si tratta di un passaggio intermedio prima di approdare nelle leghe principali (non in tutti i casi, ovviamente) e guadagnare ancora più milioni, nel caso degli sport femminili la faccenda non è proprio uguale. I contratti da rookie in WNBA per le prime scelte corrispondono a poco meno di 80mila dollari all’anno, lordi. In NBA le prime quattro scelte prendono più di 10 milioni solo al primo anno.
«Quando entrai in WNBA la questione dei soldi mi fece subito aprire gli occhi. Prendevamo pochissimo, e in più dovevamo pagare le tasse in ogni stato in cui andavamo a giocare. Se andavamo in trasferta a Los Angeles, dovevamo pagare le tasse della California; quando andavamo a Chicago, dovevamo pagare le tasse dell’Illinois».
«So che la questione del pay gap è un argomento di discussione da tanto tempo, e spesso la risposta è che l’NBA fattura milioni a differenza nostra, ma noi non abbiamo mai chiesto milioni. Abbiamo sempre chiesto cifre realistiche, una fetta più equa delle entrate».
«Da quel punto di vista, il trasferimento all’estero fu un sollievo. In Australia, la mia prima esperienza fuori dagli Stati Uniti, le tasse non erano un problema: me le pagavano direttamente loro. Ma poi dovevo comunque riportare al fisco americano quanto guadagnavo e pagare ancora le tasse lì».
«I soldi, comunque, furono l’unico motivo per cui andai in Australia prima e in Corea del Sud poi. Mi pagavano molto bene, ma furono esperienze molto dure. A Canberra, il problema principale erano le 16 ore di fuso da casa, e il fatto che fosse la prima esperienza all’estero. La stagione lì è breve, ma non vedevo l’ora di andarmene».
«Ma in Corea fu anche peggio. Mi sono sempre sentita un’estranea. Vivevo in hotel, il che mi precludeva tutte le attività che ti fanno sentire a casa, come cucinare, fare il bucato, pulire. Nessuno parlava inglese, ed ero costretta a girare ovunque con l’interprete e un’altra compagna. Nella lega coreana c’è una grande domanda di post player americane, dal momento che le giocatrici coreane in media non sono molto alte. Quindi mi trovavo spesso a marcare le lunghe della WNBA».
«Gli allenamenti erano estenuanti: due volte al giorno tutti i giorni, a volte anche dopo le partite. Il mio fisico era arrivato al limite, avevo cominciato a perdere i capelli. Era come se il mio corpo stesse rifiutando tutto. Guadagnavo bene, ma faticai per ogni singolo centesimo. Chiamavo spesso mio padre per dirgli: “Non ce la faccio più, voglio tornare a casa”. E lui, ogni volta, mi diceva: “Resisti, guarda il conto in banca”. Ogni mese dicevo che sarebbe stato l’ultimo, e in questo modo riuscii a finire la stagione. Però mi promisi che non sarei più tornata. I soldi erano tanti, ma non valeva la pena compromettere la mia salute mentale e fisica così. È per questo che, ogni volta che parlo con una giocatrice appena uscita dal college, le consiglio sempre di considerare il posto migliore dove poter stare bene, e non solo i soldi».
L’esperienza di Gwathmey è uno squarcio sulla vita che, spesso, si trovano a fare le cestiste una volta uscite dal college. Quello che mi ha sempre incuriosito, tra le altre cose, è come si può costruire una vita lontano da casa e girare il mondo come trottole, senza mai avere la certezza di rimanere nello stesso posto.
«Col tempo sono diventata brava a vivere con la valigia sempre in mano. Ho sempre fatto affidamento sulla mia personalità e quello di cui avevo bisogno. Nella vita sono molto tranquilla e silenziosa, contrariamente a come mi comporto in campo. Mia moglie, contro cui giocai qualche anno fa prima che iniziassimo a frequentarci, dice sempre che all’inizio aveva paura di me».
«Sono il tipo di persona che, quando esce in gruppo, se ne sta serenamente in un angolo in silenzio; mi piace osservare, analizzare quello che succede. Al mio primo anno al Geas c’era Bashaara Graves. Andavamo molto d’accordo perché eravamo un po’ uguali. Potevamo vederci e passare il tempo sul divano senza dire una parola, ed eravamo contente».
«In ogni squadra, e il Geas non fa eccezione, ci sono personalità diverse. Tinara Moore, per esempio, è un po’ tutte due le cose. Le piace stare per conto suo, ma quando è in gruppo si vede che ha bisogno dell’energia delle altre persone. E il nostro, pur essendo composto da persone diverse, ognuna con il suo carattere e con le sue peculiarità, è un bel gruppo. Ci vogliamo tutte bene».

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Giù il sipario
Gwathmey fa ancora un po’ fatica a parlare del GEAS al passato. Quando parla del gruppo, parla ancora del suo gruppo, delle sue compagne. Chiudere una carriera a 32 anni deve essere strano, dopotutto.
Parlando con lei mi sono reso conto di quante cose abbia imparato su di sé e sul mondo che le sta attorno, e di quanta consapevolezza abbia guadagnato. Mi sembra un traguardo tutt’altro che banale. Ma è anche vero che, nell’arco di una carriera professionistica di appena nove anni, Gwathmey ha vissuto diverse vite in una.
«Il giorno del mio ritiro è stato molto duro. Mi sono emozionata. Ma è stato duro perché non volevo davvero farlo, sono stata costretta. Le mie ginocchia non reggevano più. È stata una lunga battaglia interiore per convincermi, per costringermi a farlo. Quello che mi ha logorato è stato giocare per anni senza mai fermarmi. Fino al 2022, ho giocato nella nazionale portoricana: ogni estate prendevo l’aereo per andare dall’altra parte del mondo a giocare almeno due tornei, sempre da titolare».
«Ogni anno, Cinzia mi pregava di non andare in nazionale. Nel 2023, finalmente, la ascoltai, e fu l’anno in cui mi strappai la spalla. Quando lo seppe, Cinzia mi disse: “Jaz, non ti chiederò mai più di non andare in Nazionale”».
Non posso nascondere di aver provato un certo dispiacere nel pensare che non sarebbe più tornata sul parquet, perché penso che possa dare ancora moltissimo allo sport. Ma in fin dei conti, come dice lei stessa, «non sono io a essere vecchia, sono le mie ginocchia».
La sua intenzione, comunque, è quella di rimanere nel basket. «Mi piacerebbe provare qualche esperienza da assistente, anche nelle giovanili, per rompere il ghiaccio e capire il ruolo di coach, e provare, un passo per volta, a ottenere i permessi necessari per allenare».
Non si sa ancora che strada farà Gwathmey in futuro, ma quel che è certo è che tornerà al PalaAllende per sostenere le sue ex compagne, soltanto qualche metro più lontano.
Sperando che porti meno sfortuna di me.

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