Da Shaq ad Howard, fino a Paolo Banchero: una piccola piazza atipica, quella degli Orlando Magic.

Quando puoi contare su un rooftop affacciato su palme e oceano, una vita mondana fondata sullo showbiz, o anche su una certa tradizione notturna e/o cestistica, attirare l’asset da sempre più prezioso nel contesto NBA – un All-Star free agent – è chiaramente più facile. Certo, in questo senso Los Angeles è imbattibile, e la Baia di San Francisco è il suo naturale contraltare, volendo anche intellettualmente: laddove ad Hollywood – che c’era e c’è – si risponde con l’eredità hippie ma non troppo consistente nella Silicon Valley. Può fare concorrenza Miami, posto da vacanza 365 giorni l’anno se ce n’è uno. New York offre vibes in un certo senso opposte, ma comunque impareggiabili per un ventenne con dollari da spendere e la necessità di sentirsi parte di qualcosa di grande: big lights will inspire you, cantava Alicia Keys con l’allora non ancora proprietario dei Brooklyn Nets Jay-Z. Anche Boston, Chicago o Toronto possono avere degli argomenti favorevoli per la loro vita notturna molto attiva nonostante il clima, e perché, almeno per le prime due, mettere quella canotta è oggettivamente qualcosa di speciale.
Eppure, come è diventato molto cliché scrivere, da quando la polarizzazione politica negli States tra costa e interno è diventata quasi un meme, e dunque nota anche da questo lato dell’Oceano, c’è un’altra America. Le cosiddette province dell’impero, se stiamo sui freddi numeri, non si avvicinano minimamente all’apporto di pubblico dei big markets, ma contano per circa la metà delle 30 franchigie. In questa serie parliamo di chi ha battuto le probabilità e soprattutto di come. E di chi invece, tramite un ampio spettro di follie, scelte sbagliate e personalismi, è riuscito a complicarsi ulteriormente la vita. Con le spettro della relocation che su qualcuno ancora incombe.
Nel quinto episodio, dopo aver raccontato Timberwolves, Pacers, Kings e Jazz è il turno degli Orlando Magic, chiamati ad una risposta importante dopo la combattuta uscita al primo turno dello scorso anno in 7 gare contro i Cavaliers.

DisneywORLd: le origini della franchigia
Prima di guardare oltre i Grandi Laghi all’alba degli anni ’90, l’NBA attuò un’altra grande espansione culminata nel 1989, e tra le beneficiarie dell’expansion Draft c’erano anche gli Orlando Magic. Secondo Wikipedia, per la capitale della Orange County a nord della Florida – meno nota ma con panorami simili rispetto a quella californiana – alcuni storici datano il nome di Orlando intorno al 1836, quando un soldato di nome Orlando Reeves morì nella zona durante la guerra contro la tribù indiana Seminoles. Sembra comunque che Reeves gestisse un mulino da zucchero e una piantagione nella zona e dei coloni trovarono semplicemente il suo nome inciso su un albero e pensarono che fosse un segno per il luogo della sua tomba. In seguito essi si riferirono a quest’area come alla “Tomba di Orlando” e più tardi semplicemente “Orlando”.
In seguito, le fortune della città dipesero dalle piantagioni di agrumi, come era intuibile dal nome della contea – per la notoria fantasia americana nella toponomastica, meravigliosa questa serie – e da una base di difesa aerospaziale. Una volta chiusa, contribuì comunque all’economia locale facilitando i lavori per l’aeroporto che convinse i vertici della Walt Disney a stabilire appena fuori dall’area urbana il loro parco più importante, aumentando un turismo già vivace grazie alle agevolazioni fiscali per i pensionati. Questa digressione geografica spiega il nome della franchigia, laddove Magic deve richiamare l’unicità dei parchi del nord della Florida.
Con una scalata record, solo 6 anni dopo la fondazione, gli Orlando Magic si ritrovano alle Finals, approdandovi dopo una semifinale di Conference da antologia contro i Bulls dell’appena rientrato Michael Jordan, ma sconfitti in sole 4 gare dai Rockets di Hakeem Olajuwon. Questo successo quasi immediato era da attribuire a scelte al Draft talmente azzeccate da avere pochi precedenti all’epoca, con Shaquille O’ Neal e Penny Hardaway infilati in due anni. Non fu peraltro un caso isolato, dato che dopo la partenza del #32 verso Los Angeles la canotta biancoblu fu difesa da Tracy McGrady e Grant Hill, nomi che fino a non più tardi di 5 anni fa stonerebbero con la percezione dei Magic attuale. Dopo aver draftato nel 2004 con un’altra prima assoluta Dwight Howard, in 5 stagioni Orlando torna sul palco più importante, mostrando con Stan Van Gundy in cattedra una pallacanestro da cui i santoni attuali hanno pescato molto, con concetti di spacing, scelta di tiro e ritmo davvero – forse troppo – avanti al loro tempo.
Anche il #12 nativo di Atlanta, tre anni dopo l’apparizione alle Finals, decise di cambiare palme firmando con i Lakers che l’avevano privato del titolo prima di una burrascosa stagione culminata nel trasferimento a Houston. La finestra ad Est era chiusa dal canto del cigno dei Celtics anellati di Pierce e dall’ascesa dei corregionali Heat dei Big-Three. Da qui è iniziata una ricostruzione disastrosa durata un’intera decade, tempo decisamente eccessivo financo per i nostri amati small-market teams. Fu presto chiaro a tutta la Lega come a Orlando ci fosse un serio problema di sviluppo dei giocatori, soprattutto guardando al salto di qualità compiuto da giocatori come Victor Oladipo, Tobias Harris e Aaron Gordon una volta lasciata la Orange County.
Ma chiaramente non era questa l’unica problematica: un ritmo nel cambio di allenatori da fare invidia al miglior Zamparini, culminati con i 5 Head Coach in 6 stagioni prima dell’assunzione di Jahmal Mosley nel 2021, tra cui va detto il solo Frank Vogel ha saputo raddrizzare la propria carriera. Anche la scelta di puntare a livello di salario, minutaggio e lunghezza dei contratti su un trio che ha sempre mostrato ridotti margini di crescita, nello specifico Fournier-Gordon-Vucevic, ha pesato. Il risultato ottenuto è stato di sole due vittorie ai Playoffs, l’ultima in casa dei Raptors di Kawhi Leonard che quell’anno sarebbero arrivati fino in fondo, rubando l’esordio nella post-season in Canada con il career-game di DJ Augustin. Non quello a cui si punta superando il cap.
In una Panic move, alquanto forzata vista la pubblica malavoglia del giocatore, il front office di Orlando riesce nell’impresa di scambiare Oladipo, Sabonis (non un minuto ai Magic ma da loro selezionato al Draft) e Ilyasova in cambio di Serge Ibaka, trovandosi neanche un anno dopo costretti a scambiarlo per una guardia che sì diventerà una bandiera, ma per quanto spettacolare non era quello il valore di Terrence Ross. Si chiude così uno dei cerchi più assurdi e masochisti del mercato NBA, mentre in sede di Draft si aggiungono – sempre in top 10 – le pesche di Mario Hezonja, Jonathan Isaac e in ultimo Mo Bamba. Il penultimo, ci torneremo, sta ora scoprendosi utile alla causa. Per gli altri, solo damnatio memoriae.
Dalla trade di Vucevic in direzione Chicago, si inizia a muovere qualcosa, tra giro di vite e cambio di mentalità. Viene assunto – e soprattutto confermato a fine stagione coach Mosley, il quale partendo proprio da specialista del player development aveva avuto la sua prima occasione da head coach ad interim – già in quel di Dallas.
Banchero: la via d’uscita
Paolo Banchero era – ed è – considerato il salvatore della patria (…) dalle parti di Orlando, ed era effettivamente necessaria una franchise pick del genere per risollevarsi dalla decade appena esaminata, ove spesso si è superato il limite dell’incompetenza, arrivando all’auto-sabotaggio. Anthony Micheal Parker, dopo aver servito come Assistant GM in Florida, ha contribuito a creare gli attuali T-wolves, prima di tornare ai Magic dall’ingresso principale e risultando il primo architetto di una squadra che ha a roster ben 9 giocatori scelti “in casa” al Draft, record di Lega eguagliato solo dai giovanissimi San Antonio Spurs. Cercando di creare una cultura e un ecosistema, chiaramente è stato necessario rifermare molti giocatori, e in considerazione dei Bird Rights e altre amenità dell’intricato regolamento salariale della NBA, i Magic si sono ritrovati ben al di sopra del cap. Eppure, le conclamate attese da Playoffs, unite all’onorevole uscita dell’anno scorso, lasciano ben sperare.
A proposito di ecosistema, si è parlato molto nell’ultima offseason della possibilità di far tornare all’Amway Center una superstar affermata, con i nomi di Paul George e Trae Young tra i più accreditati. Eppure, si è optato per la strada della continuità. Come sottolineato dal President of basketball Operations Jeff Waltman, era fondamentale puntare ancora sullo sviluppo dei talenti già in casa, intenzione suffragata dai numeri: l’87% del minutaggio dell’anno scorso era fino a metà novembre invariato in questa stagione, per un roster che annovera solo 3 tesserati over 30.
La scelta è ricaduta invece su un veterano con grande esperienza di basket primaverile come Kentavious Caldwell-Pope, con accordo da $66 milioni in 3 anni da molti ritenuto una steal. Oltre l’aspetto economico, aggiungere KCP a un back-court formato da Cole Antony, Antony Black e l’All-defensive Jalen Suggs (scelto alla #5 con una delle due first-rounders guadagnate da Vucevic) lasciava intendere – e così è stato – che il defensive rating di squadra sarebbe stato d’élite, ad oggi 3° nella Lega dietro solo a Thunder e Rockets. In questo senso va segnalato l’apporto di Jonathan Isaac. Per il newyorkese prodotto dei Florida State Seminoles, l’inizio nella Lega è stato complesso su più livelli: l’impatto è stato sotto le aspettative a livello tecnico, poi gli infortuni ricorrenti hanno giocato il loro ruolo e anche nella Bubble la sua scelta di non inginocchiarsi durante l’inno qualche problema l’ha creato. Tuttavia, nel 2023/24, Isaac è stato il primo in assoluto per Defensive Expected Plus-Minus (via The Ringer) – tirando tra l’altro con il 68% di True Shooting.
Nonostante quest’ultimo dato individuale, c’era bisogno – basandosi sui dati della scorsa stagione – di intervenire sul fronte offensivo a livello di squadra, dove il rating era valido solo per il 22o posto, con il tiro da tre come carenza più evidente. Va però computato come i Magic siano stati fissi in top-10 per punti al ferro e tiri liberi guadagnati, mantenendo quindi l’efficienza offensiva ad un livello più che accettabile. Per aumentare la pericolosità dall’arco e il volume offensivo, prima della deadline nel caso in cui la classifica continui a sorridere nonostante la lunga assenza di Banchero, potrebbe esserci un innesto. Il nome più ricorrente è quello di Zach Lavine. Il prodotto di UCLA ha un contratto impegnativo con i Bulls, e i suoi numeri a quest’ultimo rendono giustizia, ma probabilmente lui brama competere per qualcosa di più di un Play-In e a Chicago il GM Karnisovas potrebbe finalmente aver realizzato che è ora di ricostruire, soprattutto con la prossima dichiarazione al Draft di Cooper Flagg. Un’offerta realistica potrebbe includere Cole Anthony, Jonathan Isaac e il tedesco-brasiliano Tristan Da Silva, oltre ad una first-round pick. Discutibile se uno scambio del genere permetterebbe ai Magic di competere con Boston e New York, ma di certo li porrebbe come prima alternativa a queste ultime.

Franz “Scottie” Wagner
Sul finire di novembre, c’è stata la classica signature win per gli Orlando Magic, sul parquet dei Lakers e senza Banchero, sulle spalle possenti di Franz Wagner. Il prodotto di Michigan e fratello piccolo di Moritz è diventato inoltre il più giovane giocatore a mettere a segno una partita da 35 punti e 10 assist da… LeBron James.
Il berlinese sta compiendo una parabola evolutiva importante, e ora in assenza del franchiste player è stato chiamato a quanto di più difficile ci possa essere nella pallacanestro: aumentare il suo volume offensivo senza perdere in efficienza e rimanendo un’ancora sull’altro lato del campo – lo ha fatto per 20 partite, prima dell’infortunio all’obliquo destro. Poi, e questo più difficilmente si insegna, c’è anche da prendere e segnare il tuo della vittoria. Alpha type. Eppure, guardando indietro agli anni di Michigan, poco indicava una star in Wagner: prendeva solo 9 tiri a partita, ma già da spalla di Dennis Schroeder al Mondiale vinto – primo della storia tedesca – due estati fa, si vedeva un certo agio nell’aumentare le responsabilità al tiro. E’ stato il secondo miglior marcatore del torneo, dietro a Nikola Jokic.
Eppure la rarità era sotto gli occhi di tutti: a prescindere da tiro e produzione, un 206cm x 100kg che guarda il ferro dall’arco, muove i piedi continuamente sui cambi e la mette per terra istintivamente, non era da sottovalutare, specialmente per la mentalità difensiva, ma non solo da quanto ha detto al Long Shot Podcast:
“La mentalità americana del gioco, aggiunta al modo in cui ho imparato il basket in Europa, può essere una combinazione ottima. Quella mentalità da killer, quella competitività che le gente vuole che mostri sul campo, se riesco ad interiorizzarla ed impararla in un contesto di college, è qualcosa che in Europa non posso fare. Crescere in NCAA può prepararti meglio quando giochi 30-35 minuti a partita e con molte responsabilità.”
Dall’inizio di novembre, Wagner ha guidato i Magic in punti totali, triple, assist e rubate, tutto ciò da secondo per rimbalzi. Ha uno usage superiore a Jalen Brunson o James Harden. Questo significa che dalla sera alla mattina ha messo insieme numeri da All-NBA, con una versatilità- ancora – rara. Non è successo spesso nella storia della NBA che qualcuno passasse con questa facilità da Robin a Batman, ma un esempio – sacrilego, per carità – c’è: Scottie Pippen.
Ovviamente la materia grezza di Wagner non è quella del #33 dei Bulls, ma ha trovato il modo di risultare efficiente in una maniera simile, in difesa e come creatore primario. Pochi sanno andare in aiuto con i suoi tempi, o rubare palla con questa frequenza e con quell’altezza. Quel che stupisce – e che lo rende letale nel basket odierno – è che risulta il miglior difensore dei Magic a prescindere dall’avversario e dal suo ruolo: Cam Thomas o Nikola Vucevic, Devin Booker o Paul George, financo Evan Mobley, hanno avuto tutti serate storte al tiro quando marcati per più di tre quarti dei possessi offensivi da Wagner.
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