Un mare di speranze, zero risultati: l’era Durant è stata deludente, e ora i Phoenix Suns possono voltare pagina

Kevin Durant, Phoenix Suns

Questo contenuto è tratto da un articolo di John Volta per Bright Side of The Sun, tradotto in italiano da Emil Cambiganu per Around the Game.


L’era è finita. Kevin Durant, arrivato a Phoenix tra fanfare e sogni di titolo, se ne va così come era arrivato: con una trade clamorosa. Lascia dietro di sé uno dei tiri più puri che il basket abbia mai visto e una legacy che sarà per sempre analizzata, discussa e definita in modo diverso a seconda di chi ne parla.

Legacy. È la parola che accende discussioni nei barbershop e infiamma le chat di gruppo. Se guardi la pagina di Durant su Basketball Reference, sembra una formalità per la Hall of Fame: due titoli, due Finals MVP, un MVP della regular season, innumerevoli All-NBA e All-Star.

Ma le eredità si misurano con qualcosa di più dei trofei.

A Phoenix, come già a Brooklyn, Durant non ha soddisfatto le aspettative di una tifoseria che lo aveva accolto a braccia aperte. Il suo talento individuale è stato indiscutibile, ma la domanda più grande — quella che lo accompagna — è se sia riuscito davvero a migliorare chi gli stava attorno. Da quando ha lasciato Steph Curry e i Warriors, non è più tornato in cima.

Così la discussione rimane aperta. Il curriculum è d’élite. I numeri parlano chiaro. Ma la legacy? Quella resta tutta da interpretare.

I Phoenix Suns sono da sempre casa di grandi giocatori, Hall of Famer che hanno illuminato il deserto, anche senza mai vincere un titolo. Charles Barkley. Steve Nash. Walter Davis. Connie Hawkins. Leggende che, pur senza anello, hanno segnato epoche e fatto crescere la franchigia. Barkley portò i Suns alle Finals. Nash guidò tre volte la squadra alle finali di Conference e rivoluzionò il gioco. Davis fu una presenza costante, Hawkins una forza dominante.

E poi c’è Kevin Durant, forse il giocatore più dotato ad aver mai indossato il viola e arancione.

La storia non ricorderà il suo periodo a Phoenix come leggendario. Per tutto il suo talento, per tutta la speranza che aveva portato, il suo passaggio ha prodotto solo una semifinale di Conference, poi uno sweep al primo turno, e infine una stagione senza playoff. Nessuna cavalcata memorabile. Nessun percorso profondo. Solo lampi di genialità mai davvero esplosi.

Così, guardando indietro e cercando di contestualizzare l’era Durant, la sensazione è difficile da ignorare. Delusione. Questa è la parola. C’era all’inizio. Ha segnato il percorso. E ora, alla fine, è ciò che resta di questo capitolo.

Sono sempre stato un fan di Kevin Durant. C’è qualcosa nel suo modo di segnare: senza sforzo, fluido, inevitabile. È uno di quei giocatori che può segnare da qualsiasi posizione, contro chiunque, in qualsiasi momento. Per anni l’ho ammirato da lontano, soprattutto alle Olimpiadi, quando finalmente potevo tifare per lui senza esitazioni. Quando era “uno dei nostri”, anche solo per qualche settimana. E quando è arrivato a Phoenix? Sembrava irreale.

Ricordo benissimo quando la notizia esplose alle 23:05 dell’8 febbraio 2023. Il telefono impazzì, io tremavo. Andai subito in diretta al Suns JAM Session Podcast. Io e Matthew Lissy cercavamo di elaborare tutto in tempo reale, caricati dall’adrenalina. Era emozionante. Era audace. I Suns stavano facendo una delle mosse più importanti della loro storia. Per una tifoseria affamata di titoli, l’arrivo di Durant rappresentava qualcosa di nuovo: la speranza. E per un po’, ci siamo concessi il lusso di sognare.

Pochi giorni dopo che Mat Ishbia divenne ufficialmente proprietario, fece una dichiarazione forte acquisendo il 34enne futuro Hall of Famer in uno scambio che spedì Jae Crowder, Mikal Bridges, Cameron Johnson, quattro prime scelte non protette e uno swap di scelte ai Brooklyn Nets. Il messaggio era chiaro: i Suns volevano puntare tutto sul titolo, affiancando Durant a Devin Booker.

All’epoca, la mossa fu accolta con entusiasmo, vista come il tipo di azzardo che fanno le squadre affamate di vittorie quando vedono una finestra di opportunità.

Ma la visione non si è mai realizzata del tutto.

Tutto iniziò quando Durant si slogò la caviglia durante il riscaldamento prima del suo debutto casalingo, ritardando il suo esordio sul parquet. Quando finalmente giocò il 1° marzo contro gli Charlotte Hornets, sembrava proprio la superstar che Phoenix sperava. Pochi giorni dopo, ne segnò 37 e mise il canestro decisivo contro i Mavericks.

Eppure, gli infortuni continuarono a tormentare la squadra. Acquisito con 25 partite rimaste nella regular season 2022-23, Durant ne giocò solo otto, ma i Suns vinsero tutte e otto, lasciando intravedere una dominanza che però non arrivò mai davvero.

I primi playoff di Durant con i Suns arrivarono poche settimane dopo. Phoenix eliminò i Los Angeles Clippers in cinque partite, preparandosi a sfidare i futuri campioni NBA, i Denver Nuggets.

Nonostante gli infortuni di Chris Paul e Deandre Ayton, i Suns riuscirono a portare la serie a gara 6 prima di arrendersi. Durant, in quella sua prima corsa playoff in maglia Suns, fu elettrico: 29 punti di media con percentuali 48/33/92. Un promemoria del suo pedigree da post-season, anche se la squadra attorno a lui faticava a restare in piedi.

Nella sua prima stagione completa nella Valley, 2023–24, Durant è stata la presenza più costante dei Suns. I dubbi sulla sua tenuta fisica lo seguivano, ma lui ha risposto giocando 75 partite, il suo massimo in cinque anni. E’ andato vicino a battere il record di punti stagionali di Tom Chambers per la franchigia, chiudendo a soli 10 punti dal primato e con una media di 27.1 punti a partita e percentuali d’élite: 52–40–86.

Questi numeri gli sono valsi un’altra convocazione all’All-Star Game, un posto nel secondo quintetto All-NBA e il nono posto nella corsa all’MVP. Ma nonostante la brillantezza di Durant, i Suns sono crollati ai playoff, venendo spazzati via dai Minnesota Timberwolves in quattro partite, una fine brusca e inaspettata per una stagione che sembrava promettere molto di più.

Nell’ultima stagione a Phoenix, Durant ha continuato a produrre ad altissimo livello: 26.6 punti a partita con percentuali incredibili, 53/43/84. Ha ottenuto un’altra convocazione all’All-Star Game, prova della sua grandezza anche oltre i 35 anni.

Ma i numeri non bastavano a nascondere ciò che stava accadendo sotto la superficie. I Suns erano al terzo allenatore in tre anni, e l’instabilità pesava. Nonostante la costanza di Durant, la squadra è finita 27ª per difesa e non si è nemmeno qualificata per il Play-In Tournament, chiudendo in modo anonimo una stagione iniziata con ambizioni da titolo.

Ora, mentre Durant parte per la quinta franchigia della sua carriera da Hall of Famer, lascia dietro di sé un’eredità statistica difficile da replicare. In 145 partite con i Suns, ha viaggiato a 26.8 punti di media con percentuali 53/40/85. Sostituire questa produzione non sarà questione di trovare un altro realizzatore: è quasi impossibile. Il periodo di Durant a Phoenix non ha portato il premio massimo, ma il suo impatto, seppur fugace, è stato innegabile.

Solo il tempo dirà cosa abbia significato davvero il passaggio di Durant a Phoenix. Ma per ora, è un capitolo segnato da aspettative non rispettate.

Durant non doveva essere solo un altro tassello. Doveva essere il tassello. Il realizzatore d’élite, il campione affermato, il giocatore che avrebbe dovuto portare i Suns al livello successivo. E mentre il suo curriculum individuale in Arizona brillava di All-Star Game, riconoscimenti All-NBA e numeri d’élite, i risultati di squadra raccontavano un’altra storia.

In tre stagioni, Phoenix ha vinto solo sei partite di playoff con Durant. Mai oltre il secondo turno. Quest’anno, nemmeno i playoff. Tutta la speranza, l’hype, le trade da prima pagina: la fine è arrivata non con un botto, ma con un’alzata di spalle.

Comunque si scelga di ricordare l’era Durant — che tu abbia ammirato il giocatore, dubitato della sua compatibilità o semplicemente sperato in qualcosa di più — una parola rimarrà sopra tutte. È la parola che lo ha seguito dal primo giorno. Quella che abbiamo cercato di scrollarci di dosso, senza mai riuscirci.

“Deludente”… Ho vissuto in prima persona l’esperienza Durant per più di due stagioni. E se da un lato ho sempre cercato di apprezzare la sua arte — il modo in cui rende il difficile routine — dall’altro sono stato un tifoso spesso frustrato. Partita dopo partita scivolava via, non perché Durant non producesse, ma perché il roster attorno a lui mancava di ciò che serve per vincere: coesione, competitività, grinta, connessione. E profondità. Non era tutta colpa di Durant. Ma era colpa di ciò che rappresentava.

Durant ha rappresentato un cambio di filosofia per i Suns. La franchigia, con la nuova proprietà, ha puntato tutto, sacrificando il futuro per inseguire un titolo subito. E all’epoca, abbiamo applaudito. Eravamo stanchi di giocare in difesa. Abbiamo accolto l’ambizione.

Ma mentre le sconfitte si accumulavano, e il roster si rivelava troppo sbilanciato e poco flessibile per competere, quell’entusiasmo iniziale si è trasformato in qualcos’altro: rimpianto. La trade per Durant non è stato solo un errore; è stato il momento in cui i margini sono scomparsi. E se Durant non è stato la causa principale del crollo dei Suns, ciò che rappresentava — la scommessa sul presente a scapito dell’equilibrio e della sostenibilità — lo è stato eccome.

Così, mentre Durant sale su un aereo diretto a Houston, gli auguro sinceramente il meglio. Porterò sempre rispetto per il suo gioco. La precisione, la calma, il modo in cui vive il basket con la mente di un chirurgo e il tocco di un artista. Ma col passare degli anni, so che ricorderò questo capitolo come un’altra occasione mancata nella lunga storia di una franchigia ancora a caccia del primo anello.

I Suns hanno provato il colpo grosso, uno dei più audaci della loro storia. Per un attimo, sembrava un fuoricampo. Ma la palla è uscita in foul, e alla fine abbiamo mancato il bersaglio. Un’altra voce amara nel libro dei “quasi”.

Mi mancherà il suo jumper? Assolutamente sì. Mi mancherà sapere che, nei momenti caldi, avevamo uno capace di mettere il colpo decisivo in silenzio? Certo. Ma ciò che non mi mancherà — la parte di cui sono sollevato a liberarmi — sono gli idolatri ciechi. I Durant Stans. Quelli che lo veneravano come infallibile, che monopolizzavano le discussioni e intasavano le timeline di deliri. Le critiche non erano ammesse. Le sfumature, nemmeno. Se Durant segnava 30, era un dio. Se la squadra perdeva, non era mai colpa sua. E se osavi suggerire il contrario, diventavi bersaglio di una tastiera furiosa che non voleva vedere il quadro completo.

Ogni stella ha i suoi fedelissimi, certo. Anche Booker. Ma almeno quei tifosi sono cresciuti con lui, tra alti e bassi, sempre con la stessa maglia. Il tifo per Durant? Sembrava preso in affitto. Rumoroso, fugace, e a volte tossico. Quindi addio agli Stans. Buon viaggio a Houston. Portatevi via le vostre opinioni a senso unico.

Noi saremo qui, a cercare di capire cosa fare adesso.

L’era Durant è finita. E, sinceramente, non so come sentirmi. È stata un’esperienza. Complessa, intensa, indimenticabile nel bene e nel male. Ci sono state vere aspettative, vera emozione e momenti davvero grandi. Ma ora che ci rifletto, dopo tutto quello che abbiamo vissuto in queste due stagioni, mi restano solo promesse non mantenute e qualche DM da una star 15 volte All-Star che se l’è presa con me per essere parte di quel sistema mediatico che tanto disprezza.

Così, mentre KD vola verso Houston, provo qualcosa di inaspettato: sollievo. Non gioia. Non rabbia. Solo sollievo. Il peso delle aspettative, il dramma, il rumore? Si alleggerisce un po’. Non sono entusiasta di ciò che aspetta i Suns. C’è incertezza, un salto nel vuoto. Ma c’è anche chiarezza. La sensazione che questo capitolo sia davvero chiuso. E che, forse, si possa finalmente ricominciare.