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Con la quarta sconfitta in doppia cifra rimediata nella serie con Boston, finisce la stagione più pazza degli ultimi anni per i Miami Heat, iniziata a luglio con il tampering sfrenato per cercare di arrivare a Damian Lillard, finita nel peggiore dei modi, con una sconfitta più che pronosticata al primo turno contro una corazzata che, in queste condizioni, è risultata ingiocabile e che ha spento la sofferenza di tutti i tifosi della franchigia di South Beach. Cerchiamo di capire a chi siano imputabili le maggiori colpe e il perché i Miami Heat hanno bisogno di una offseason movimentata.

Proprio dell’inizio non bisogna dimenticarsi: gli Heat scelgono al Draft un rookie già prontissimo come Jaime Jaquez Jr. e dalla free agency arriva solo un minimo salariale destinato a Josh Richardson, nessun altro movimento, le pedine erano tutte salde al loro posto, quiete prima della tempesta. Quest’ultima si sarebbe dovuta chiamare Damian Lillard: l’ormai ex Blazers, che agognava Miami come soluzione preferita, sarebbe andato a inserirsi nella squadra di Erik Spoelstra, che già preparava i suoi set sui “Big Three” che avrebbero avuto il potenziale per poter ribaltare (almeno nei pronostici) quel 4-1 subito da Jokic e compagni alle scorse Finals. Fino al 27 settembre quando, aprendo Twitter, Spoelstra ha dovuto accartocciare i propri foglietti con schemi e appunti, una tifoseria ha provato rabbia e delusione, Pat Riley è rimasto immobile con il cerino e i suoi asset in mano, terminando sostanzialmente la offseason con lo stesso core della stagione precedente, sostituendo ai mattatori Vincent e Strus un rookie e un veterano che conosceva benissimo l’ambiente. Non le migliori premesse, vedendo anche come le altre si erano rinforzate, a partire da una Boston diventata completa sotto tutti gli aspetti, costruendo uno dei migliori supporting cast di sempre, per arrivare a Milwaukee che, per ribellarsi al dominio imposto proprio dalla mano dei Miami Heat, ha avuto la brillante idea di arraffarsi il giocattolo tanto desiderato dalla squadra della Florida, il già citato (e probabilmente non troppo contento) Damian Lillard. Da qui inizia il calvario.

La mentalità non vincente del front office di non voler chiudere a tutti i costi una trade che li avrebbe portati all’apice della lega per non cedere troppi asset – sacrificabili, se sei i Miami Heat – e la spocchia di alcuni giocatori nel voler replicare coi fatti le famose parole di Ja Morant – “We are fine in the (W)est” – hanno avuto come unico risultato quello di far calare tutte le aspettative e tutte le pretese, rispetto soprattutto ai singoli, che una Run Playoffs storica aveva suscitato. Uno dei maggiori colpevoli di ciò non può che essere Jimmy Butler, stella polare di Miami che, vedendo l’andazzo della scorsa stagione, ha deciso tranquillamente di estremizzare il suo riposo in regular season, prendendola come una passeggiata e arrivando a far contare sulle dita di una mano le buone prestazioni reali durante le 60 partite giocate, rendendo difficile, se non addirittura impossibile vista la sua situazione infortuni, arrivare a prendersi un posto tra le prime sei squadre, in una conference che mai come quest’anno è stata tutto fuorché probante per una squadra uscente dalle Finals.

Abbiamo accennato agli infortuni proprio perché hanno rappresentato il protagonista assoluto per i Miami Heat quest’anno: non solo quello pesante dello stesso Jimmy – che ha concluso con la beffa più totale la sua stagione, riposando per giocare in modo serio i 12 minuti del primo turno di Play-In, prima che Kelly Oubre collassasse sul suo ginocchio – ma anche quelli di Herro, Robinson, Josh Richardson, Jaquez, Caleb Martin e, per ultimo, anche il neo arrivato Terry Rozier, su cui gli Heat avevano grosse aspettative ma che non ha mai rispettato fino ad adesso, mostrando solo una condizione fisica discutibile (11 partite out nei soli tre mesi a Miami) e una compatibilità col roster ancor più dubbia, non essendosi mai inserito nel ritmo squadra ed essendo ormai fuori da un mese. E c’è da dire come tutti gli altri siano stati condizionati: Duncan Robinson, quello che più di tutti sembrava star vivendo una nuova versione questa stagione, lotta ancora oggi con un infortunio alla schiena, ha saltato l’ultimo mese di regular season e ha giocato con minuti limitati la serie coi Celtics, che aveva dominato l’anno scorso; l’ascesa di questa stagione di Tyler Herro è stata stoppata da un duplice infortunio, uno al piede che lo ha tenuto fuori due mesi e uno alla mano avuto dopo solo 8 partite dal rientro. Anche lui, nonostante nella prima parte di stagione sembrasse il faro pronto a illuminare ancora le speranze di Miami, ha dimostrato solo di non poter reggere le troppe aspettative e pretese che il Front Office ha posto su di lui con quel contratto e ruolo, facendo capire – con una brutta serie giocata, specie in 3 delle 5 partite – quanto sia necessario un ridimensionamento del suo ruolo e una valutazione sulla sua permanenza, una scommessa che Pat Riley non vuole proprio accettare di aver perso. E il quadro potrebbe andare avanti: Caleb Martin, vittima di un infortunio alla spalla, è ancora disponibile solo se dotato di una vistosa fascia, che ne ha distrutto la dinamica di tiro e abbassato drasticamente la pericolosità perimetrale; Jaquez, che aveva vissuto un mese da stella con Butler e Herro fuori, ha subito un infortunio che ha portato un brusco ridimensionamento nel suo ruolo, tornando a uscire dalla panchina con un impatto più che limitato, almeno fino al secondo turno di Play-In, in cui era tornato a dare sprazzi del gioco avuto in duo con Bam Adebayo.

Proprio quest’ultimo è l’unico del core dell’anno scorso a non aver preso parte alla lunga lista degli infortunati: per quanto i numeri non riescano a testimoniarlo, la sua è stata una stagione che ha confermato tutti i trend della precedente, ritrovatosi primo violino offensivo per tantissimo tempo e addirittura riuscito a mettere in difficoltà la difesa di Boston anche ai Playoffs, con una ottima serie giocata a 22.6 punti per partita in cui non ha mai avuto un vero creator ad assisterlo. Una lode va fatta a lui e al come sia riuscito a distinguersi come punto fermo di una squadra più volte messa alle strette.

Adesso per Miami è ufficialmente offseason, probabilmente la più importante degli ultimi anni per Riley, Spoelstra e Butler, per evitare di ritrovarsi definitivamente in un tremendo limbo fatto di uscite al primo turno e Play-In dovute alla non completezza di questo roster, sprecando gli ultimi anni di prime di Jimmy, le recenti stagioni di un secondo violino eccezionale come Bam Adebayo e soprattutto quelle di uno dei migliori allenatori di sempre come Spoelstra, forse le ultime prima che decida di ricoprire un ruolo non più di campo, seguendo in tutto e per tutto il predecessore Pat. Quest’ultimo, nei prossimi mesi, dovrà perforza trovare una soluzione sostenibile per spendere i propri asset, non trovandosi più a fare affidamento sulla cartella medica e dando una nuova, vera identità ai Miami Heat, quella che dal 2022 lui stesso ha voluto rinnegare.