FOTO: NBA.com

Il campo

L’opzione sopracitata riguardante il “senso di colpa” di Connelly è, ovviamente, solo una suggestione, qualcosa di molto parziale che provi a spiegare il tipo di valore attribuito dal front office al lungo francese. Le scelte, infatti, all’interno di un’organizzazione NBA vengono valutate accuratamente e passate al vaglio più e più volte, e sarebbe utopico ridurre il peso di tutto in mano ad una sola persona.

Come detto prima, potrebbero esserci state anche suggestioni interne. Towns vorrà sicuramente ottimizzare il tempo da trascorrere a Minneapolis dopo l’estensione, mentre a livello tattico era già stata espresso in passato – direttamente da Connelly, indirettamente da Finchh – il desiderio di trovare un centro tradizionale che offrisse maggiore taglia sotto i tabelloni; l’opzione del doppio lungo era emersa incessantemente nell’ultimo mese, con le intenzioni confermate anche dalla scelta del fu Walker Kessler al Draft.

“KAT è unico, può essere efficace tanto da quattro quanto da cinque. Molti giocatori della sua stazza ricoprono una sola posizione, mentre lui può fare di tutto offensivamente. Si presenta molto bene di fianco a un lungo tradizionale, che offra una buona dose di rim protection e forza a rimbalzo.
Questo potrebbe togliergli pressioni difensive, punto essenziale visto quello che gli viene chiesto in attacco.
Questa è una domanda che il nostro staff si sta ponendo e sui cui Finch prenderà una decisione, ma credo che con uno come KAT si abbiano sempre molte opzioni a disposizione.”

Tim Connelly a Dane Moore

Partendo delle (potenziali) buone notizie, la versatilità di Towns sarà sicuramente un plus per i Timberwolves, che tenderanno a rialzarne il load offensivo e a diminuirne quello difensivo.

Il sistema difensivo adottato da coach Finch lo scorso anno prevedeva che il lungo salisse spesso all’altezza del livello del blocco – se non sopra – sul pick&roll, forzando il ball handler a indietreggiare o, in caso di slip del rollante, a servire il compagno. Tutto questo garantiva sempre la presenza di uno tra Vanderbilt e McDaniels in aiuto, con il pitturato di Minnesota completamente chiuso e gli angoli più sguarniti, difesi solo grazie a dei rapidi X-out degli esterni. Contro Memphis, una tattica del genere ha limitato molto efficacemente Ja Morant, ma anche elevato le prestazioni dei tiratori dei Grizzlies, su tutti Desmond Bane, e dei rimbalzisti, come Brandon Clarke, capaci di beneficiare dell’inferiorità dei Wolves, spesso costretti a closeout disperati.

Con Gobert l’obiettivo sarà molto probabilmente quello di alternare questo sistema a una drop coverage, sacrificando molto la possibilità di effettuare gli switch nei quintetti con il doppio lungo. La soluzione sui pick&roll sarà o continuare a mandare KAT molto alto, lasciando il francese in aiuto a fare quello di cui è capace, e cioè difendere il pitturato, con gli altri difensori meno costretti ad essere attenti all’area e ai tempi di rotazione; o utilizzare una drop coverage che coinvolga Gobert come Big defender, lasciando Towns in aiuto o in roaming sul perimetro, soluzione che ne garantirebbe un load difensivo molto ridotto.

Offensivamente, invece, le cose cambiano.

Ora incomincian le dolenti note / a farmisi sentire. Se Dante Alighieri avesse provato ad ipotizzare un possibile fit positivo fra KAT e Gobert, queste sarebbero state le sue parole.

Il fatto di avere un lungo tiratore con l’efficienza di Towns non necessiterà di aggiustamenti giganteschi da parte di coach Finch, che potrà decidere se coinvolgere il francese lasciando KAT fuori o se, viceversa, coinvolgere il lungo da Kentucky conservando Gobert nel dunker spot – come spesso capitava con Vanderbilt.

In carriera, Towns ha avuto modo di fare coppia con lunghi più “tradizionali” come Taj Gibson e Gorgui Dieng, entrambi però dotati di un minimo raggio di tiro almeno dalla media. I numeri sono buoni, ma l’utilizzo di Gobert sarà limitato al solo dunker spot per quanto riguarda le conclusioni.

Guardando il lato negativo, invece, l’aggettivo “anacronistico” è quello che meglio descrive il fit fra i due. Sia chiaro, Rudy Gobert è un difensore di livello eccelso, probabilmente uno dei miglior rim (e paint) protector degli ultimi anni, vero e proprio deterrente per gli avversari che provano ad attaccare l’area. Ma limita molto le soluzioni a disposizione.

I Jazz se ne servivano principalmente in drop coverage, in un contesto che lo aiutava poco. A Minneapolis, gli esterni saranno sicuramente più reattivi, ma i dubbi derivano dalla tattica in sé. Ci sono sempre più giocatori dotati di uno skillset offensivo difficilmente arginabile, sia nel puro isolamento che nei pull-up dal pick&roll, contro i quali la soluzione migliore si rivela spesso lo switch.

Gobert, per usare un eufemismo, non è il più versatile dei lunghi – seppur nemmeno fra i peggiori – e in una pallacanestro sempre più votata verso la proliferazione di ali dinamiche capaci di cambiare su più ruoli, le “Twin Towers” rischiano di trovare davvero poco diritto di cittadinanza, per quanto atipico l’archetipo di Towns.

Offensivamente, inoltre, l’obiettivo e la tendenza di ogni franchigia è quello di costruire lineup che ottimizzino le spaziature, con 5 giocatori idealmente capaci di impattare in quanto minaccia su più fronti, permettendo agli attacchi di adattarsi continuamente agli aggiustamenti difensivi. La presenza di Gobert limita Minnesota ad un ventaglio di soluzioni poco ampio, andando ad otturare inevitabilmente il ceiling di squadra – e l’area.

Tutto questo – è giusto ripeterlo perché sia chiaro – non è assolutamente una colpa da imputare al giocatore in sé, che è così da anni, ma alla scelta della franchigia. Il francese è un difensore dotato di qualità spropositate, e non è da escludere che possa beneficiare ulteriormente del nuovo contesto (seppur molto indebolito senza Vanderbilt e Beverley), così come non è da escludere che la stagione regolare dei Timberwolves possa concludersi al di sopra delle aspettative in seguito allo scambio.

Semplicemente, quelli di Gobert sono limiti strutturali che male si adattano al tipo di pallacanestro moderna che coach Chris Finch (e gli Executive precedenti come Gersson Rosas e Sachin Gupta) stavano provando a costruire. La soluzione ideale per il francese sarebbe essere inserito in un sistema dove i suoi limiti possano essere “nascosti”, circondandolo di altri 4 difensori sopra la media, ciascuno capace di cambiare su più ruoli. Per fare un esempio, quello che i Celtics sono riusciti a costruire con Robert Williams III e Al Horford.

Si capisce come ci sia troppo poco tempo e margine di manovra adesso a Minnesota per assemblare tutto questo, con la colpa da attribuire solo e soltanto al front office, consapevole di andare a puntare su un giocatore che necessita di numerosi fattori attorno (complessi da reperire) per rendere al meglio.

Nessuno mette in dubbio che la prossima stagione di Minnesota e di Rudy Gobert possa porsi al di sopra delle aspettative: il coaching staff avrà sicuramente modo di lavorare a delle soluzioni, e il margine di miglioramento di profili come McDaniels o Anthony Edwards sembra piuttosto alto, senza considerare che il ruolo offensivo di Towns potrebbe raggiungere ulteriori livelli qualitativi.

Quel che si contesta è che, per questi Timberwolves, non c’era assolutamente alcun bisogno di un All-in per Rudy Gobert. Soprattutto al prezzo del proprio futuro. Soprattutto in una Western Conference che, nel prossimo paio d’anni (minimo), si presenterà incredibilmente competitiva.