Dalle vette del Montana al glamour di LA, passando per il pragmatismo dell’infanzia e il surrealismo dell’età adulta: Phil e David, due anime affini in grado di raccontarsi attraverso vite e idee molto simili.


Nel 1968 diverse campagne di scavo archeologiche sono giunte alla comune conclusione che alcuni dei più antichi insediamenti indigeni del Nord America siano sorti nell’attuale stato del Montana. Da questi ritrovamenti si può far partire il lungo processo di – parziale – riappacificazione tra lo stato, pragmatico e conservatore, e le sue popolazioni originarie, maltrattate e rinchiuse per quasi un secolo. Un processo complesso, interminato e interminabile, che ha portato uno dei territori più repubblicani d’America a fare i conti con l’accettazione, la convivenza, la fine dell’appropriazione culturale.

In questo ambiente sono cresciuti due dei più grandi ammiratori – e talvolta storpiatori – della cultura nativa del Montana: Phil Jackson e David Lynch. Nei loro lavori si è sempre cercato di unire il progresso occidentale con la sapienza antica, la rigida religiosità WASP con la spiritualità indigena. Un risultato non sempre perfetto, da bravi artisti surrealisti quali sono entrambi, ma sicuramente significativo.

Come già accaduto in passato, quindi, ci serviremo delle parole di un cineasta per raccontare un allenatore.

Infanzia: “People are Frightened by what they don’t understand.” (Elephant Man, 1980)

La peculiarità estrema della vita di Phil Jackson ha radici ben più profonde perfino della sua stessa esistenza, iniziata nel 1945 in una piccola cittadina del Montana. Entrambi i suoi genitori, infatti, sono pastori pentecostali, costretti – per motivi diversi – a lasciare il Canada dove erano nati.

Philip e i suoi fratelli, quindi, crescono in un rigido ambiente religioso, in cui la maggiore paura è quella di deludere tanto Dio quanto le due figure genitoriali, che imperano con i loro sermoni nelle lunghe funzioni domenicali. Intorno ai dodici anni, tuttavia, il giovane Phil capisce di voler vivere la propria spiritualità lontano dal quell’ambiente così oppressivo e totalizzante.

“Ho capito che non faceva per me e ho iniziato a cercare attività scolastiche che mi tenessero dalla mia vita incentrata sulla Chiesa. Recitavo in delle commedie, cantavo nel coro, ero addirittura l’annunciatore sportivo della radio della scuola.”

Sono proprio questi gli anni della scoperta della pallacanestro da parte di Jackson. Pur praticando diversi sport, infatti, ad incuriosirlo particolarmente è la Palla a Spicchi.

La svolta definitiva arriva durante il suo junior year al Liceo. Complice un’inaspettata crescita, infatti, Jackson diventa tra i giocatori più noti dello stato del North Dakota, dove si è trasferito. Un primo passo importante in vista della vittoria del titolo statale nell’anno da senior (1964).

Tra gli spettatori di quella Finale c’è anche Bill Fitch, allenatore dell’Università del North Dakota. Bill si innamora da subito del talento di Phil e fa di tutto per offrirgli una borsa di studio, conscio di non poter perdere in favore di qualche rivale un giocatore così pronto al salto di categoria. Jackson – con qualche remora – accetta, iniziando con stupore il proprio percorso di studi.

“Io sono stato educato con l’interpretazione letterale delle Scritture, quindi immaginate il mio stupore la prima volta che ho sentito parlare di Charles Darwin.”

Sul campo, invece, non sembrano esserci problemi. I Fighting Sioux, infatti, giocano una pallacanestro sistematica e compìta, che Fitch ha mutuato – irrigidendola – da uno sconosciuto allenatore texano: Tex Winter, col suo attacco Triangolo una delle costanti della vita del futuro coach Zen.

Nonostante le scarse soddisfazioni di squadra, Phil viene nominato due volte All-American nelle tre stagioni passate in NCAA, concludendo l’ultima con oltre 27 punti di media.

A incuriosire Jackson, tuttavia, non sono i miglioramenti personali, quanto la possibilità di iniziare una carriera da professionista nella NBA.

NBA, Red Holzman e i New York Knicks: “Ideas are like fish. If you want to catch little fish, you can stay in the shallow water. But if you want to catch the big fish, you have to go deeper.” (Introduzione al libro ‘Catching The Big Fish’, 2006)

Nel momento in cui i New York Knicks lo selezionano con la diciassettesima chiamata assoluta al Draft 1967, Phil Jackson non ha mai visto una partita NBA di Regular Season. All’epoca, infatti, solamente le gare di Playoffs erano fruibili in televisione, e l’ala di UND era riuscito unicamente a intercettare qualche duello Russell-Chamberlain nelle interminabili serie tra Philadelphia Warriors e Boston Celtics.

Per ovviare a questo – oggi impossibile – inconveniente, coach Red Holzman, eccentrico allenatore dei newyorchesi, decide di inviare al proprio prospetto il filmato di una gara del 1966 tra i suoi ragazzi ed i Los Angeles Lakers, in quel momento sparuta enclave NBA sperduta nel Far West e poco apprezzata dal pubblico. Non esattamente l’icona glam cestistica e di costume a cui siamo abituati.

“La cosa che mi ha colpito di più era quanto indisciplinati e poco attenti fossero i giocatori di entrambe le squadre. Sembrava che il gioco non avesse alcuna logica. Era un gruppo di giocatori di talento che trotterellava avanti e indietro cercando un tiro. “

A spaventare Phil è anche la distanza da casa, una novità per un ragazzo che non aveva mai lasciato lo stato in cui risiedeva la propria famiglia. Proprio per questo motivo, Jackson pensa di abbandonare tutto per studiare da ministro di culto.

Holzman, però, è ormai innamorato di quell’ala mancina così ordinata e decide di andare personalmente in North Dakota per convincerlo a trasferirsi nella Grande Mela. Un gesto apprezzato dal prodotto di UND, che da quel momento guarderà al proprio coach come un mentore ed un padre cestistico.

All’alba della stagione 1967/1968, la franchigia di New York si trova in una situazione decisamente knicksiana: la squadra è di per sé molto talentuosa, ma non ha ancora trovato le armi giuste per competere ai massimi livelli.

Tutti gli occhi, in quella offseason, sono perciò puntati sulle nuove aggiunte, considerate il sempre invocato ‘pezzo mancante del puzzle’. Ad interessare tra i nuovi è soprattutto l’ala piccola Bill Bradley, prodotto di Princeton University con un passato anche all’Olimpia Milano.

Gli anni con Red a New York, costellati di momenti di formazione per il futuro allenatore Phil, vedono una squadra equilibrata, ben assortita e legata visceralmente al proprio allenatore.

Il primo successo arriva nel 1970, in una emozionante serie di Finale contro i Los Angeles Lakers di Wilt Chamberlain. È la famosa sfida dell’infortunio di Willis Reed e delle remore di Chamberlain a difendere duro sull’avversario convalescente, tanto da permettergli un paio di canestri vitali in Gara 7.

Jackson, però, non sente quel Titolo come proprio. Un bruttissimo infortunio alla schiena occorsogli nella stagione precedente – infatti – ha convinto i New York Knicks a tenerlo per tutta la stagione nella Injury List. Una delusione che, nonostante la volontà di tutti i membri dell’organizzazione di farlo sentire parte di quel trionfo, perseguiterà Phil per tutta la vita.

L’occasione per rifarsi, però, non tarderà ad arrivare: i Knicks si presentano ai nastri di partenza della stagione 1972/73 come una delle favorite al titolo. Jackson, reduce da un corroborante viaggio in moto per i paesaggi del Montana con il fratello Joe, è ormai da tempo il sesto uomo indiscusso della squadra, che ha trovato grazie a lui un nuovo equilibrio difensivo.

Dopo una stagione conclusa con 57 vittorie e la miglior difesa per punti subiti (98.2), Holzman e i suoi affrontano in postseason i Baltimore Bullets, prontamente sconfitti per 4 gare a 1.

Al secondo turno – allora già Finale di Conference – ci sono invece i Boston Celtics della nemesi cestistica di Holzman Red Auerbach, ormai confinato ad un ruolo dirigenziale. La squadra è uno degli attacchi migliori della NBA e – guidata da Jo Jo White e John Havlicek – gioca a dei ritmi per l’epoca forsennati e ben differenti da quelli della paziente e corale pallacanestro dei newyorchesi.

FOTO: NY Daily News

La prima sfida – manifesto delle differenze tra i due gruppi – viene vinta dai biancoverdi per 134-102. A sparigliare le carte, però, non sono tanto i 56 punti combinati delle due stelle di Boston, ma la scelta di Auerbach di provare ad intimidire il rivale destinando uno stanzino delle scope come spogliatoio. I Knicks, feriti, riprenderanno in mano la serie dopo la prima batosta, vincendo la contesa in 7 sfide.

In finale, ancora contro i Los Angeles Lakers, non ci sarà poi storia. Al termine della quinta partita Phil Jackson può finalmente fregiarsi di un anello NBA. Da lì, però, New York vivrà quel lento declino da cui forse non si è ancora risollevata, tanto da arrivare a mancare i Playoffs per la prima volta dopo nove anni nel 1976. Jackson, ormai titolare e veterano indiscusso di quella squadra ridimensionata, pensa di ritirarsi dopo la stagione 1977/78, ma viene convinto da coach Kevin Loughery a tentare una nuova esperienza lontano dal Madison Square Garden; destinazone: New Jersey Nets.

L’anno ad East Rutherford è un ponte tra la carriera da giocatore e quella da allenatore di Jackson. Per comprenderlo basta analizzare i numeri: 14 partite da interim coach dopo le espulsioni dell’irruento Loughery a fronte di 12 da giocatore sul parquet. Un momento di passaggio graduale, ma inevitabile, verso quella che sarebbe diventata la dimensione definitiva del prodotto di UND.

Coaching, prime esperienze e approdo ai Bulls: “It’ll be just like in the movies. Pretending to be somebody else.” (Mulholland Drive, 2001)

Il passaggio da giocatore ad allenatore non è, in realtà, così docile come l’esperienza ai Nets possa far pensare. Phil, infatti, è convinto di aver esaurito il senso della propria vita con la fine della propria carriera da giocatore e passa un’intera estate ad immaginare lunghissime conversazioni con il padre, defunto pochi mesi prima, per decidere cosa fare.

Convintosi della bontà di una carriera in panchina, Jackson inizia quella che all’inizio degli anni Settanta era la comune gavetta di un ex-giocatore di medio livello desideroso di sedersi sul pino. La prima esperienza è sempre nello stato di New York, con gli Albany Patroons, squadra della CBA guidata dal nativo del Montana al primo storico titolo nel 1983.  

Proprio durante questa esperienza, conoscerà quella che diventerà la sua controparte lungo tutta la prima parte della propria esperienza in panchina: Jerry Krause. Il futuro GM dei Bulls, infatti, è all’epoca uno scout della franchigia dell’Illinois alla ricerca di giocatori dalle Leghe Minori. Fan di Philip di tempi di UND, Jerry decide di chiamarlo per avere un report dei migliori giocatori della CBA. Un primo approccio forse poco degno di nota, ma cruciale se si pensa ai risvolti successivi.  

Terminata la propria esperienza ad Albany, Jackson decide, dopo quasi vent’anni vissuti senza interruzioni nello stato di New York, di lasciare gli States. A metà Anni Ottanta, tuttavia, le Leghe Nazionali che possono offrire un contratto ad un allenatore senza esperienza ad alto livello non sono molte e così, come molti altri prima di lui, l’ex-Knick si trasferisce a Porto Rico, dove – in quattro anni – allenerà corazzate come i Gallitos de Isabela e Los Piratas de Quebradilla.

Per un uomo di controcultura come Phil, sono questi anni di apprendimento ed espansione mentale. Coach Zen non si scompone nemmeno quando gli avversari gli fanno trovare i resti di un pollo morto in panchina, oppure i tifosi di casa gli tagliano le gomme dopo una vittoria in trasferta. È talmente permeato dal fascino irresistibile del luogo che comprende compassionevolmente perfino la decisione del sindaco di Quebradilla di sparare alla gamba di un arbitro. Un momento drammatico, fortunatamente contenuto dalla celere giustizia portoricana, che prontamente vieta al sindaco di assistere alle gare della squadra. Solo a quelle in casa ovviamente, per non essere draconiani.

Krause, diventato nel frattempo General Manager, è tuttavia sempre convinto che quell’allenatore che ad Albany aveva deciso di pagare tutti i giocatori la stessa cifra per insegnare il gioco di squadra sia la persona giusta per motivare un Jordan sempre più lupo solitario all’interno dello spogliatoio. Il primo tentativo di un accordo arriva nel 1986, ma coach Stan Albeck è categorico nel dire che uno come Jackson – che si è presentato al colloquio in bermuda e panama nonostante l’inverno dell’Illinois – non farà mai parte del proprio staff.

FOTO: GQ

La firma arriva però l’anno successivo, con Doug Collins in panchina e alcuni consigli sul dressing code. Phil Jackson è per la prima volta un membro dei Chicago Bulls e con lui c’è anche Tex Winter, l’uomo che lo aveva involontariamente ispirato per gran parte della propria formazione.

I due anni alla corte di Collins sono, come tutta la vita di Phil, un cumulo di alti e bassi. Jackson – cultore del gioco di squadra – suggerisce con sempre più insistenza l’adozione dell’attacco triangolo. Doug, allenatore abituato a chiamare i set offensivi con rigidità dalla panchina, rifiuta categoricamente. Dopo un paio di stagioni, Jerry Krause – che nel frattempo era divenuto amico intimo della famiglia Jackson – decide per il cambio. A guidare la squadra dalla stagione 1989/1990 sarà Phil.

Threepeat, vol. 1: “Am I a good man? Or a bad man?” (The Elephant Man, 1980)

Il cambio Collins-Jackson viene maldigerito da quasi tutta Chicago. Il coach, infatti, era una figura molto amata in quanto nativo nello stato dell’Illinois e artefice delle prime stagioni positive della squadra dopo un decennio di assoluto anonimato.

A non convincere addetti ai lavori e analisti era inoltre la ferrea volontà di Jackson di giocare il sistema offensivo di Winter. Una scelta curiosa, se hai dalla tua parte il tre volte miglior marcatore della NBA in carica.

Micheal Jordan è – se possibile – il maggior detrattore di Jackson in tutta Windy City. Per lui il triangolo è “l’attacco delle pari opportunità”, mentre quell’assistente decisamente poco convenzionale la persona meno adatta per arrivare alla vittoria finale. I due hanno in estate quella che è probabilmente diventata la più famosa conversazione giocatore-allenatore nella storia della NBA, con Jackson che chiede ad MJ di dividere il palcoscenico con i compagni, e Mike che lo fulmina con la prontezza che lo caratterizza in campo e fuori.

“Va bene, allora ne segno 32. Sono otto a quarto.”

Nonostante Micheal dica a mezzo stampa di rispettare e seguire il piano del proprio nuovo allenatore, i primi tempi non sono privi di turbolenze. His Airness e coach Winter litigano quotidianamente a causa delle variazioni sul tema di Mike, mentre Jackson cerca faticosamente un punto di mediazione tra le visioni assolutistiche dei due ingranaggi centrali della propria macchina.

A causare qualche incomprensione sono poi i metodi di insegnamento di Jackson. Phil, infatti, decide di introdurre nella squadra alcuni rituali Lakota, come chiamare i giocatori con un tamburo per convocare una riunione all’interno della neonata “stanza tribale”. La risposta di uno di loro appare come perfetta sintesi delle difficoltà.

“What kind of weed are you smoking there?”

Il primo anno, superati i misunderstanding iniziali, è chiuso dai Bulls con un record di 55-27. In postseason, però, arriva l’ennesima eliminazione per mano dei Detroit Pistons – questa volta nelle Finali di Conference: sono gli anni delle Jordan Rules e i Bad Boys del Michigan sembrano una montagna insormontabile. La reazione di MJ, tuttavia, fa capire come siano state toccate le corde giuste, e la squadra – ormai convinta della bontà della propria guida tecnica – sia pronta a reagire.

“Ho deciso in questo momento che non capiterà mai più.”

– Micheal Jordan

Sarebbe superfluo fare una narrazione dettagliata di uno dei trienni sportivi più noti al mondo. I Bulls diventano tra il 1991 ed il 1993 un vero e proprio fenomeno culturale, e Jackson, in quegli anni di vittorie, inizia a plasmare la squadra secondo il proprio credo.

Decide, per esempio, di regalare un libro scelto appositamente ad ogni giocatore durante i road trip ad Ovest, fa test sull’autocoscienza dei giocatori, chiedendo loro di posizionarsi in una serie di cerchi concentrici in base al proprio ruolo nel team, organizza incontri per ampliare la visione dei suoi, con visite frequenti all’ufficio del senatore Bill Bradley – sì, proprio lui – e ad altri esperti.

FOTO: NBA.com

Sembra che il locus amoenus dei Bulls sia ormai un intoccabile ed ineluttabile macchina del successo, ma i problemi – notissimi – non tardano ad arrivare. Il 6 ottobre 1993, dopo tre Titoli in altrettante stagioni, Micheal Jordan appende le scarpette al chiodo a causa del brutale assassinio di suo padre di qualche mese prima. Un colpo durissimo per Chicago e i Bulls, ma anche un grandissimo momento di unione tra l’assistente col panama e il campione che sembrava non sopportarlo.

“Ci siamo seduti in una stanza, commossi e abbiamo affrontato tutto quello che c’era da affrontare. Me ne vado con la consapevolezza che Phil sia un grande amico.”

– Micheal Jordan

Threepeat, vol.2: “Some men change. Well, they don’t change, they reveal over time.” (Inland Empire, 2006)

La prima partita della stagione 1993/94 – una sconfitta per mano dei Miami Heat – fa segnare il record negativo nella storia dei Bulls fino a quel momento per punti segnati in un quarto, in un tempo ed in una partita. Micheal Jordan – in prima fila per ricevere l’anello della stagione precedente – è scioccato, e i Bulls si rendono conto in maniera inequivocabile di quanto sia impervia la strada verso la quarta affermazione consecutiva.

Per superare la crisi, Phil come al solito inizia a lavorare con le menti dei giocatori. Viene assunto uno psicologo dello sport per discutere con la squadra del momento di crisi e inizia ad integrarsi nelle sedute di allenamento la pratica della meditazione consapevole. Due ovvietà nello sport professionistico di oggi, due grandi innovazioni alla fine dello scorso millennio.

La squadra reagisce, vincendo 13 delle quattordici partite che precedono l’All-Star Break sotto la guida di Scottie Pippen e dell’indisciplinato Toni Kukoc, odiato per le note questioni contrattuali dal resto della squadra ma in grado – seppur talvolta in maniera confusionaria – di dare nuova linfa agli stanchi Bulls.

I Playoffs, tuttavia, rimarranno sempre le grandi delusioni di queste due stagioni di interregno. Nel 1994 la squadra viene eliminata al secondo turno dai New York Knicks dopo il gran rifiuto di Scottie Pippen di rimanere in campo per i possessi decisivi di Gara 3 senza avere uno schema disegnato per lui. L’anno seguente, invece, i Bulls vengono eliminati dai giovani Orlando Magic di Shaquille O’Neal. Nel frattempo, tuttavia, sono state scritte in un comunicato stampa le tre parole che riporteranno Chicago in vetta alla NBA.

“I’m Back.”

– MIcheal Jordan

Il 1995/96 è probabilmente la Gioconda della carriera di Phil Jackson. Per usare le sue stesse parole, i Bulls sono stati in grado in quell’annata di “rimettere la chiesa al centro del villaggio”, anche attraverso alcune scelte inizialmente osteggiate da parte dell’organizzazione.

Durante la stagione precedente, ad esempio, era stato firmato Ron Harper, scorer di primissimo livello che doveva cercare di sopperire alla – iniziale – assenza di MJ. Viste le sue doti da ball-handler e da passatore, era ovvio che il nuovo numero 9 fosse stato scelto anche per togliere spazio e centralità ad un Pippen non a suo agio nel nuovo ruolo di primo violino. Un rischio calcolato di far innervosire Scottie, visti i benefici difensivi di un giocatore col fisico di Ron.

La novità della seconda Championship Era, infatti, non era nella metà campo offensiva, ma in quella difensiva. Phil ha deciso di sperimentare una lineup di giocatori alti due metri in grado di cambiare su tutto e adottare qualche flebile principio di zona. Proprio per completare questo sistema, viene aggiunto alla squadra il più grande pariah che la NBA potesse offrire in quel momento: Dennis Rodman.

Rodman era in quel momento reduce da un’esperienza decisamente poco positiva con i San Antonio Spurs. Fonti – Dennis stesso – dicono che Gregg Popovich, allora GM, sia arrivato a definirlo “il diavolo” in una conversazione privata. Le problematiche, inizialmente strettamente tecniche, iniziano a volgersi sul lato socio-comportamentale all’inizio della relazione con Madonna, che sconvolge il pacifico ambiente dell’Alamo, creando non pochi grattacapi alla dirigenza Spurs.

Popovich e soci, ad esempio, scoprono nel 1994 che Rodman ha deciso di partire in piena notte da un casinò di Las Vegas per New York dietro richiesta della partner, la quale riteneva il fidanzato “il miglior esemplare di essere umano possibile” e aveva promesso allo stesso 20 milioni di dollari in caso di gravidanza.

Nell’offseason del 1995, quindi, Jerry Krause è spaventato all’idea di aggiungere ad un gruppo pronto ad essere nuovamente vincente un giocatore dalla provata instabilità. Jackson, però, sembra pronto alla sfida, ed in un incontro privato con The Worm si convince definitivamente.

“Gli ho risposto: ‘Se vuoi questo lavoro io ci sto, ma non devi rovinare tutto. Siamo nella posizione in cui possiamo vincere un campionato e vogliamo tornare a farlo.’ Lui mi ha detto che ci stava e mi ha mostrato un artefatto della tribù Ponca dell’Oklahoma che gli avevano regalato. Dennis era un uomo di poche parole, ma avevamo un legame di cuori.”

La trade per Rodman, va in porto, e i Bulls domineranno la NBA per i tre anni successivi. I problemi dell’ultimo di quei tre Titoli, quello del 1998, sono stati magistralmente raccontati dai protagonisti, ma – per comprendere come il rapporto con il GM della squadra fosse ormai compromesso – ecco alcuni estratti dal pugno di Jackson.

“Nonostante avessimo le nostre differenze, ho sempre rispettato la sua intelligenza cestistica e mi sono divertito per anni a costruire con lui squadre da titolo. Le nostre negoziazioni per il nuovo contratto, però, sono andate malissimo, per colpa di entrambi. Io volevo difendere l’autonomia della squadra, Jerry aveva un bisogno disperato di riprendere il controllo della franchigia. Non era qualcosa di inusuale nello sport, ma i nostri conflitti erano pubblici.”

La mediazione dopo i fallimenti dell’offseason 1997 viene trovata dal proprietario Jerry Reinsdorf: tutte le stelle firmano un one-year deal. Sarà The Last Dance.

LA, Baby, Threepeat vol. 3 “This whole world is wild at heart and weird on top.” (Wild at Heart, 1990)

Nell’estate del 1999 Jackson si sta godendo un viaggio in Alaska con la famiglia. Ha detto al proprio procuratore di voler tornare ad allenare, e i Lakers sono la favorita in questo senso. Non potendo essere raggiunto per telefono, l’agente ha carta bianca per chiudere l’accordo. La notizia della firma viene quindi data a Jackson da un bambino inuit su un lago ghiacciato.

L’ambiente di LA è decisamente diverso rispetto a quello di Chicago. Differentemente da quanto visto in quella vecchia cassetta nel 1966 i Lakers adesso SONO quell’icona glam che tutti conosciamo, e i giocatori si lanciano attacchi reciproci attraverso le miriadi di giornalisti accreditati. Ugualmente a quanto visto in quel filmato di quasi 40 anni prima, però, i gialloviola continuano ad essere un gruppo sconclusionato che trotta per il campo cercando un tiro.

Quando Jackson arriva – contornato di veterani di sua scelta come Ron Harper o John Salley – i due protagonisti che gli si parano davanti sono i seguenti.

Kobe Bean Bryant: ossessionato dalla figura di Micheal Jordan, ha già intimato al medesimo diverse volte – tra cui anche in un incontro organizzato dallo stesso Jackson – di poterlo battere 1vs1. Alla fine della seconda stagione di coach Zen sposerà l’amore del liceo Vanessa. Segni particolari del matrimonio: nessuno dell’organizzazione Lakers è stato avvisato, figurarsi invitato.

Shaquille Rashaun O’Neal: ha oscillazioni di peso all’interno della stagione che talvolta superano abbondantemente i dieci chili. È conscio di essere una macchina da pallacanestro come poche e per questo ritiene che la dimostrazione della fallibilità umana sia la sua disastrosa percentuale ai liberi. Tende a voler trattare come fratellini minori tutti i secondi violini – spesso guardie – che i front office gli mettono a disposizione. Penny Hardaway era sereno sulla cosa, Kobe per lo stesso motivo scatena una rissa o una campagna giornalistica all’anno. Per far colpo sul nuovo allenatore – da lui fortemente voluto – decide di presentarsi per la prima volta tirato a lucido al training camp e di fare una scheda libro di stile liceale sul testo consigliatogli da Phil – come d’abitudine – al primo road trip. Rivelerà in seguito di aver cercato la trama su internet senza leggere una riga.

FOTO: CBS

Appare quindi da subito chiaro come non si possa creare una connessione spirituale profonda simile a quella dei Chicago Bulls. I Lakers dei tre Titoli dal 2000 al 2002 sono continuamente precari, vincenti nei rari momenti di pace tra i propri componenti e fragili nei restanti. Nel 2003/04, però, le differenze diventano inconciliabili. Kobe – che deve fare la spola con il Colorado per il proprio processo – si sente tradito da Jackson, che per abbassare gli animi ha evitato forti dichiarazioni a difesa del proprio giocatore e non lo ha supportato in privato.

Il Black Mamba chiede alla dirigenza Lakers di liberarsi del Coach e dell’amico-nemico Shaq, in modo da avere finalmente in mano la squadra. Altrimenti, minaccia, in offseason firmerà per i “cugini” dei Los Angeles Clippers.

Jim Buss, storico proprietario della franchigia, viene convinto dal figlio minore a puntare tutte le proprie fiches sul giovane 24enne, scaricando in questo modo un allenatore sconfitto per due stagioni consecutive – prima dagli Spurs e poi dai Pistons –  ed il cui sistema cestistico e relazionale sembrava ormai superato.

Fine carriera: “I don’t think about technique. The ideas dictate everything. You have to be true or you are dead.” (dall’articolo ‘Dark Lens On America’, 14 gennaio 1990)

La separazione, tuttavia, non dura molto. Dopo un anno di assoluta mediocrità la famiglia Buss richiama Phil, unico allenatore veramente in grado di limitare gli eccessi di Bryant. Vittorioso, Jackson riesce nello stesso colloquio ad ottenere uno dei contratti più ricchi della storia NBA per quanto riguarda un allenatore e ad annunciare a Buss di avere una relazione – fino a quel momento segreta – con la figlia Jeanie, da sempre il membro della famiglia più investita nella gestione quotidiana dei Lakers.  

L’inizio è come al solito turbolento. Kobe non ha apprezzato l’ultimo libro di Phil, in cui Coach Zen raccontava in maniera eloquente le difficoltà avute durante la stagione 2003/04. Dopo un primo periodo di chiarimento la squadra inizia tuttavia a volare, tanto da tornare in tre Finali consecutive – 2008, 2009 e 2010 – vincendone due, di cui l’ultima a danno dei rivali di sempre tanto di Jackson quanto di LA: i Boston Celtics.

Gli ultimi anni della carriera di Phil, dopo il ritiro come allenatore avvenuto al termine della stagione 2010/11, sono costellati di incertezze e fallimenti.

I New York Knicks lo richiamano come presidente della franchigia per completare l’ottima base costruita da coach Mike Woodson. Phil – tuttavia – tenta di ripristinare un triangolo che nella pallacanestro dello small ball e dell’uso massivo del tiro da tre punti è ormai un vetusto esercizio stilistico. Dopo Woodson fallisce anche Derek Fisher, chiamato dal mentore Jackson per avere sul pino un interprete del sistema, e l’idillio con New York, sopravvissuto a decenni di lontananza e turbolenze, termina tristemente nel 2016. I metodi di Jackson – anche relazionali, vista la continua altalena tra critica a mezzo stampa e difesa ostinata – appaiono definitivamente superati. Similmente alle scoperte degli archeologi del Montana, tuttavia, l’avanzamento non sarebbe stato possibile, senza quella che oggi consideriamo la base.