L’atipico Basketball Journey del guru della meccanica di tiro, dai campetti di Baltimore al Madison Square Garden.

FOTO: The Keene Sentinel

Per gli appassionati di sport statunitensi, il 18 novembre 1985 è una data diversa dalle altre. Proprio quel giorno, infatti, Joe Theismann, quarterback dei Washington Redskins, subì quello che è stato definito “l’infortunio più scioccante della storia della National Football League”. Si tratta di una sliding door con pochi eguali nella storia dello sport professionistico americano, che ha portato a riflettere sulla violenza e sulla letalità di quello che viene chiamato in maniera eloquente “America’s Game” ed è probabilmente il più grande fenomeno sociale dell’Unione

Nessuno al tempo sapeva, tuttavia, che durante la medesima partita si stava verificando una svolta che ha probabilmente determinato, pur in maniera drasticamente minore, un cambio radicale anche in un altro fenomeno socio-sportivo tipicamente americano. Il 18 novembre 1985, infatti, termina definitivamente la – modesta – carriera sportiva di Dave Hopla, mortifero tiratore da tre punti che di lì a poche settimane diventerà uno dei più grandi shooting coach che abbiano mai calcato i palcoscenici NBA.

La sua fama, al giorno d’oggi, trascende i professionisti con cui lavora da ormai tre decenni grazie ai video virali in cui frantuma qualunque Guinness World Record relativo al tiro da lontano (tra cui spicca un fenomenale 455/500 da tre).

Hopla ci ha raccontato il proprio metodo di lavoro in un’intervista esclusiva, che trovate qui.

Questa, invece, è la sua storia.

La formazione: Baltimore, il camp, le correzioni

Dave Hopla trascorre la maggior parte della propria infanzia e adolescenza a Baltimore, Maryland. Centro portuale nevralgico per la Costa Est americana, la città – con i suoi abitanti – presenta tutte le caratteristiche tipiche di un luogo incentrato sulla fatica e sul lavoro: molto spirito di sacrificio, poche parole, pochissimi convenevoli. Dave non è di certo un’eccezione, come dimostrano le sue asciutte e mai banali dichiarazioni.

“Per diventare il più grande tiratore al mondo ti servono due cose: la prima è l’impostazione meccanica corretta, la seconda – quella che oggi manca alla maggior parte degli atleti – è la costanza nel tirare più degli altri”.

(Dave Hopla)

Prima di questa acquisita consapevolezza, tuttavia, il giovane Hopla è un adolescente appassionato principalmente di baseball che vaga per i campetti di Baltimore. Qui incontra per caso un certo Cunningham, sconosciuto giocatore di Division III che lavora d’estate in uno stabilimento locale della General Motors. Il collegiale mostra ad Hopla alcuni esercizi del workout di Pistol Pete Maravich e Dave, affascinato, inizia a lavorare sul proprio tiro e sul proprio ball-handling, decidendo da quel momento di dedicarsi anima e corpo alla pallacanestro.

“Si è interessato a me e mi ha mostrato alcuni esercizi della routine di Pistol. Io li riproducevo e ogni anno non vedevo l’ora di mostrargli i miei miglioramenti. Ho rincontrato questo ragazzo anni fa a Fort Lauderdale, in Florida, dove vive. Siamo ancora in contatto e ad ogni occasione ci vediamo”.

Nonostante la comparsa – avvolta nel mistero – di questo importante primo maestro, Dave continua a notare dei difetti nel proprio gioco, soprattutto per quanto riguarda il fondamentale del tiro. Per questa ragione, a 16 anni, decide di iscriversi ad uno dei primissimi camp volti a migliorare la meccanica.

Arrivato al clinic, rimane impressionato dalla facilità con cui gli istruttori sembrano segnare un canestro dietro l’altro ed inizia a copiarne tecniche e movimenti. È proprio durante questa esperienza fondamentale che apprende due concetti che diverranno un marchio di fabbrica per tutta la sua successiva esperienza cestistica: l’importanza della posizione del gomito durante il movimento di tiro e la necessità di tenere conto di tutti i tiri presi in allenamento e delle relative percentuali, in modo da avere dei dati effettivi su cui basare il proprio programma di allenamento.

Una pratica che Hopla adotta ancora oggi, come dimostrano le pile di registri sulla sua scrivania in cui segna i tiri che ha preso e la sua conoscenza mnemonica delle proprie percentuali annuali.

“Un istruttore è venuto da me e mi ha detto ‘Se veramente ti interessa migliorare al tiro devi segnarti tutti i tiri che prendi e tutti quelli che segni’; pensavo di essere l’unico a NON farlo, invece sembra che sia l’unico che lo fa”.

La carriera: college, Europa, CBA

Nonostante i decisivi miglioramenti ottenuti durante gli anni dell’high school, Hopla non viene considerato dal mondo collegiale statunitense, tanto da dover iniziare la propria carriera universitaria nello sconosciuto Dundalk Community College, dove gioca a basket e a baseball. Terminati i due anni previsti dal junior college, Dave completa la propria formazione al Chadron State College, università di Division II che gli conferisce un riconoscimento per meriti sportivi al termine della stagione 1979.

Un curriculum del genere sembrerebbe precludere qualunque velleità professionistica, ma Hopla non demorde e – ad un camp tenuto da Pat Knapp nel 1981 – conosce Dan Durkin, responsabile in quel momento del St. Gall’s Basketball Club, squadra di Belfast che militava nella massima Lega irlandese.

FOTO: The42.ie

L’Irlanda, in quel momento, era dilaniata dalla guerra civile – non erano passati nemmeno 9 anni dalla celeberrima Bloody Sunday – e non appariva il posto più sicuro per un ventiduenne che non aveva mai lasciato il Maryland. Nonostante ciò, la voglia di fare il giocatore professionista è troppa e Dave decide di partire.

“Io non avevo voglia di smettere di giocare e lavorare. Conoscevamo Belfast perché leggevamo ogni giorno le storie sui giornali, ma io mi sono sentito più sicuro lì che per le strade di Baltimore”.

Quella che doveva essere una soluzione temporanea per allungare di qualche mese il proprio sogno cestistico diventa una simbiosi triennale con il pubblico dell’Andersonstown Leisure Center, che adotta Hopla come parte della comunità, tanto da fargli imparare perfettamente il dialetto locale – che sfodera ancora oggi ogni qualvolta si presenti un reporter dall’Isola. A cambiare, nel burbero Dave, è anche l’atteggiamento verso il Gioco, che smette di essere ossessione e diventa piacevole compagno di un viaggio che ancora oggi ricorda divertito.

“Viaggiavamo nelle macchine, non avevamo un bus o altro. Sembrava di giocare in una lega semiprofessionistica. La prima sconfitta ero veramente deluso, ma dopo la partita i ragazzi andavano tutti insieme al pub e al club, bevevano delle pinte subito dopo la partita. Io ero incazzato e seduto in macchina. La terza volta mi sono detto ‘perché sono qui seduto come uno stupido’. E allora ho abbracciato la filosofia ‘Win or lose we booze’ “.

Terminato il triennio irlandese, Hopla gioca qualche scampolo di stagione in Sud America per poi iniziare un lungo percorso nella franchigia di Baltimore affiliata alla CBA, la lega di sviluppo dell’epoca. Proprio il trasferimento della squadra da Baltimore all’Illinois causerà la decisione di Hopla di appendere gli scarpini al chiodo nel novembre ’85.

“Mi chiama il mio coach, Henry Bibby e mi dice che ha una buona e una cattiva notizia, gli rispondo ‘Dammi prima la buona’, al che lui dice: ‘Farai ancora parte della squadra, ma andiamo a giocare a Rockford, Illinois’. Io non potevo andare fino in Illinois”.

Il coaching: Gli inizi ed il salto in NBA

Senza squadra per la stagione 1985/86, Dave accetta quindi malvolentieri l’invito di un amico-allenatore a tenere un clinic sul tiro. Quello che era partito come un favore personale diventerà la vocazione di Hopla, da lì in poi allenatore a tempo pieno.

I giocatori, inizialmente delle high schools locali, rimangono estasiati dalla continuità con cui Dave segna da dietro l’arco (il suo record da distanza NBA è di 78 triple consecutive senza errori) e seguono da subito quel coach dai metodi poco ortodossi. Il nativo di Baltimore si ritrova quindi a lavorare con alcuni dei migliori prospetti del paese, tanto che, pur gradualmente, alcune sopracciglia del mondo NBA iniziano ad alzarsi.

“Molti anni fa in un camp in Florida, ad esempio, mi ha avvicinato George Karl, allora ai Sonics. Mi ha detto: ‘Sei il più grande tiratore dell’universo, voglio portarti a Seattle, come faccio a farti ascoltare dai ragazzi?’. Gli ho risposto: ‘Beh, la TUA attenzione l’ho attirata tirando e segnando’.

Arrivato al loro allenamento, dopo un po’ di tiri sento Gary Payton dire: ‘Man, questo non ha ancora sbagliato un tiro’.  E lì ho avuto la loro attenzione”.

Di lì a poco, uno dei liceali più chiacchierati di sempre avvicinerà Hopla per chiedergli di prepararlo al salto diretto nella Lega: Kobe Bryant. Il rapporto tra i due è da subito molto stretto: Hopla apprezza la sfrontatezza e la dedizione di Kobe, mentre il futuro Black Mamba adora lavorare con un coach schietto, ipercritico e perfezionista come Dave. “Ogni tiro, ogni esercizio, ogni allenamento è importante per Kobe. Cerca di sfruttare qualunque opportunità abbia per migliorare. Non è mai soddisfatto del suo gioco. È la fame a renderlo grande. Una volta abbiamo fissato un allenamento alle 5.30 del mattino e quando sono arrivato alle 5.15 lui era già completamente sudato”.

Nonostante questi primi – importanti – approcci nei confronti della Association, tuttavia, i coaching staff rimangono restii nell’offrire ad Hopla un contratto a tempo pieno. Il tiro da tre punti non è ancora vitale come oggi nella Lega ed assumere un allenatore dalle competenze così specialistiche appare come uno spreco di risorse.

I primi a tentare la sorte, nel 2006, sono i Toronto Raptors di Sam Mitchell. La squadra è in quel momento sul fondo dell’NBA sia per percentuale da tre punti che per percentuale ai liberi, rendendo perciò necessaria la presenza di un esperto. Dave, assunto poco prima del giorno del Ringraziamento, pone ai suoi un obiettivo semplice: migliorare tutti dell’1% per diventare una squadra pericolosa.

“Ero arrivato da poco e non avevo preso parte al training camp, non volevo dare loro obiettivi irrealistici, si sarebbero demoralizzati troppo”.

L’esperimento riesce e Toronto passa dal 44.2 al 47.6% dal campo in soli due mesi, vincendo 19 delle successive 34 partite. Il giovane gruppo dei Raptors chiuderà con 47 vittorie e una sfortunata parentesi in post-season, terminata al primo turno per mano dei Nets. Moltissimi giocatori, su tutti l’allora rookie Andrea Bargnani, torneranno tuttavia ad affidarsi ad Hopla negli anni successivi.

Nonostante gli innegabili risultati, Mitchell decide di non confermare Hopla per la stagione successiva, convinto di aver risolto l’endemico problema del tiro da tre punti.

A gettarsi sul coach di Baltimore sono allora i Washington Wizards, su precisa richiesta di Gilbert Arenas, stella della squadra e attivo partecipante ai clinic di Dave per tutto il decennio precedente.

La situazione dei Wizards è tuttavia – se possibile – ancora più caotica di quella di Toronto. Dopo una prima stagione da consulente, terminata con un record di 43-39 e una sconfitta al Primo Turno di Playoffs contro Cleveland, infatti, Hopla – promosso assistente da Eddie Jordan – è testimone del famosissimo “incidente” tra Javaris Crittenton ed Agent Zero che causa la sospensione dei due per buona parte della stagione 2008/09. Sulla vicenda si esprimerà solamente un anno dopo, commentando in maniera cruda.

“Ringrazio Dio di non essere più coinvolto con quell’organizzazione”.

A seguito di ciò, Dave si allontana per qualche anno dal mondo NBA – pur continuando le proprie sessioni di allenamento individuali – tornando su una panchina della Lega solo nel 2012/13, quando entra a far parte dello staff di Mike Woodson a New York.

Dopo una prima stagione di discreto successo, con 54 vittorie e l’eliminazione al Secondo Turno per mano dei Pacers di Vogel, la proprietà chiede al coaching staff di portare il titolo a New York per la stagione 2013/14. Per “facilitare il compito” il front office assume una società di consulenze, McKinsey & C., in modo da aiutare il rapporto giocatori-allenatori. Ovviamente, in pieno stile Knicks, quella sarà la prima di sette stagioni senza qualificazione ai Playoffs.

“Ad un certo punto ci hanno fatto smettere di guardare i video con i giocatori. I ragazzi venivano e chiedevano ‘Perché non facciamo film session?’ e noi dovevamo rispondergli ‘L’ha detto McKinsley’, poi ci hanno chiesto di scrivere report a mano per valutare l’impatto dell’allenamento di ogni singolo giocatore. Io gli ho detto che se avessimo lavorato per tutto il tempo che abbiamo perso a scrivere queste cose forse avremmo potuto fare i Playoffs […] I giocatori ci chiedevano chi fossero questi tizi che si presentavano agli allenamenti, erano preoccupati dei report, sono diventati paranoici”.

Anche l’esperienza ai Knicks, come prevedibile, verrà conclusa di lì a poco. Da quel momento, forse per la disfunzionalità degli ambienti in cui si è sempre suo malgrado ritrovato, poche franchigie hanno bussato alla porta di Hopla. L’ultima, i Detroit Pistons del 2015/16, ha deciso di rescindere il contratto del trainer di Baltimore dopo pochi mesi.

Nonostante questo apparente ostracismo da parte dei front office, Dave Hopla rimane ancora oggi uno degli allenatori più ricercati dai giocatori NBA e non solo, continuando a segnare triple su triple in clinic affollatissimi. Non male, per un ragazzino che tirava con il gomito storto e sognava di giocare a baseball.