Thibodeau’s Butler: i Minnesota Timberwolves 2017/18

Forse non il peggior fallimento di cui trattiamo in queste righe, ma certamente uno dei più clamorosi considerando le premesse iniziali.
Nell’estate del 2017, i T-Wolves hanno ormai plasticamente constatato come i Bounce Brothers Zach LaVine ed Andrew Wiggins, a cui si era aggiunto a partire dal 2015/16 anche Karl-Anthony Towns, non siano il core adatto per provare ad arrivare in fondo ed impensierire i Golden State Warriors ormai padroni della Western Conference.
In particolar modo, Tom Thibodeau, allenatore e President of Basketball Operations della franchigia dall’aprile 2017, non vede di buon occhio Zach, reo di essere eccessivamente lassista in difesa e di non stagliarsi come scorer off-ball di primo livello in una squadra che vuole esaltarsi con il pick-and-roll dominicano-canadese tra Towns e Wiggo.
Per ovviare ad entrambe queste lacune tecniche ed aggiungere esperienza, perciò, Thibs – per niente un allenatore fissato sulle proprie convinzioni – decide di portare nella Twin City Jimmy Butler, ancora più di Derrick Rose suo grande favorito ai tempi dei Chicago Bulls.
Insieme al numero 23, acquisito il 22 giugno in uno scambio che vede partire verso l’Illinois Zach LaVine, Kris Dunn e la settima scelta (Lauri Markkanen), il coach punta su altri elementi di usato sicuro come Taj Gibson e lo stesso Rose, il quale vivrà una parziale rinascita dopo il fallimento newyorchese appena raccontato.
Arrivato a Minnie, Butler mostra da subito la sfrontatezza che lo ha sempre contraddistinto in carriera, lanciando più di una frecciata ai Bulls – che lo avevano lasciato andare dopo il fallimento dell’all-in targato Rondo-Wade – e affermando di voler competere il più possibile per arrivare in postseason.
L’ambiente, avvilito da una serie di stagioni negative iniziata nel 2004, accoglie la rivoluzione con grande favore, rivedendo fin da subito in Jimmy la mentalità che aveva contraddistinto i gruppi guidati da Kevin Garnett e rilanciandosi con – forse eccessiva – forza come potenza cestistica in ascesa. La stagione, pur con diversi alti e bassi, si conclude con 47 vittorie in una Western Conference oltremodo competitiva ed il raggiungimento dei Playoffs all’ultima partita di regular season utile ai danni dei Denver Nuggets. Nonostante quello che lo stesso Thibodeau definirà “un successo”, tuttavia, il rapporto tra il leader tecnico e la franchigia inizia ad incrinarsi proprio in seguito all’uscita al primo turno contro gli Houston Rockets.
Butler, infatti, decide fin da subito di non accettare la proposta di estensione fattagli dalla franchigia, desiderosa di assicurarsi i talenti di Jimmy per quattro anni ad oltre 100 milioni di dollari complessivi.
Nonostante il front office, nella persona del proprietario Glen Taylor, lasci trasparire ottimismo, diversi siti e giornali iniziano a riportare di una scarsa soddisfazione della guardia per i modi a suo dire troppo soft delle sue due co-star, Wiggins e Towns. Una voce che i fatti successivi confermeranno come vera.
“Il suo camp ci ha detto: ‘Avete fatto tutto il possibile e siamo molto contenti, ma vogliamo aspettare il prossimo anno e provare a raggiungere un accordo ancora più ricco.’ Abbiamo fatto tutto il possibile ma loro devono fare ciò che è meglio per Jimmy.”
– Glen Taylor
A queste prime dichiarazioni, datate 18 giugno, seguono tre mesi di relativa calma mediatica, fin quando, il 18 settembre, il feed di twitter di tutti gli appassionati NBA si apre con una formula decisamente inflazionata nelle ultime settimane.
“Jimmy Butler has requested a trade.”
Tra i profili social che prontamente rilanciano la notizia, uno si staglia su tutti. Si tratta di quello di Nick Wiggins, fratello di cotanto Andrew, che decide di citare il cinguettio di Shams Charania aggiungendo alla news un eloquente “Hallelujah”, simbolo del sereno rapporto all’interno dello spogliatoio.
Da quel momento, come sempre in queste situazioni, è bagarre: Butler rilancia sulle storie Instagram un video in cui si allena sulla rapidità laterale (non esattamente la miglior qualità del Wiggo dei tempi) urlando a fine esercizio proprio hallelujah.
Stephen Jackson, a cui proprio nessuno aveva chiesto la benchè minima opinione, decide invece di sana pianta di iniziare un dissing social con Andrew in nome della work ethic, mentre Tom Thibodeau, che era probabilmente intento a studiare rotazioni da regular season a sei giocatori anche sotto l’ombrellone, fa sapere ai propri collaboratori del front office che preferirebbe dimettersi piuttosto che cedere Butler entrando in retooling.
Il 5 ottobre, a quasi tre settimane dall’inizio del training camp e delle diatribe online, Jimmy si presenta inaspettatamente all’allenamento, umiliando i titolari in partitella affiancandosi alle riserve e ai giocatori di G-League e urlando a squarciagola davanti a decine di testimoni.
“Senza di me non vincete un c***o.”
Il 10 ottobre, dopo che tutto il mondo cestistico si è espresso sulla questione – ed è stato anche creato un gioco on-line chiamato “Can you win without Jimmy Butler”, l’ex-Bulls chiede scusa per il proprio comportamento in un’intervista con la reporter Rachel Nichols. Il 16 ottobre, la celere dirigenza Wolves fa invece sapere che forse – ma ci sono ancora diverse variabili in gioco – le strade tra Butler e Minnesota si separeranno, come effettivamente avverrà il novembre seguente, con Jimmy spedito a Philadelphia nel disperato tentativo di entrambe le parti di vincere un Titolo
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