Questo contenuto è tratto da un articolo di Mike Wise per Andscape, tradotto in italiano da Alessandro Di Marzo per Around the Game.


Dopo la conclusione dell’evento “The Legend and The Prospect: A Conversation between Oscar Robertson and James ‘J-Byrd’ Daniel III”, Oscar Robertson si portò davanti a una parete del National African American Museum. Accompagnato dalla moglie, camminò accanto a immagini di leggende sportive afroamericane: Jesse Owens, Arthur Ashe, Muhammad Ali, Sonny Liston, fino ad ammirare foto di Curry Neal e Goose Tatum, due leggende degli Harlem Globetrotters.

“Bisogna capire che, in quell’epoca, per un ragazzino di colore i Globetrotters erano come stelle del cinema.”

Wilt Chamberlain

Dannazione, Big O era proprio uno di loro durante gli anni ’50. In quel periodo, con la Crispus Attucks High School, vinse il titolo dello stato dell’Indiana con una squadra di soli afroamericani. Era la prima volta che ciò accadeva nello stato, e la reazione delle forze dell’ordine fu dura: ipotizzando disordini, gli ufficiali vietarono ai neo-laureati campioni di andare a festeggiare in centro ad Indianapolis. “Qualcosa che mi ferisce ancora oggi”.

Robertson e la moglie giunsero finalmente all’area dedicata alla pallacanestro, dove a dominare la scena vi sono leggende come LeBron James, Derrick Rose – entrambi con magliette con lo slogan “I Can’t Breathe” – Kareem Abdul-Jabbar alle prese con tematiche sociali, Dave Bing – Hall of Famer nonché sindaco di Detroit – e le Houston Comets con il trofeo WNBA. Infine, proprio un’iconica foto di Robertson a mezz’aria.

Senza una tributo a lui, questa sezione del Museo di Storia Afroamericana non sarebbe stata completa. Anzi, forse non esisterebbe nemmeno: parliamo di un uomo che ha fatto la storia, meritevolmente collocato nei corridoi di un luogo storico come questo.

“Per giocatori come Melo e LeBron non è stato facile fare ciò che compete loro, oggi l’America è cambiata”, ha spiegato Robertson in una conversazione con James Daniel III, l’allora leading scorer a livello universitario che giocava da senior alla Howard University. JA Alande, The Undefeated, ha moderato l’incontro, dove i due hanno parlato di attivismo ieri e oggi. Successivamente, a BigO è stata fatta l’ovvia domanda:

“Credi che saresti ancora in grado di giocare nell’NBA odierna, se fossi nel tuo prime?”“Come on, man…”

Ha poi dichiarato amore alla linea del tiro da tre punti, cosa che ha fatto sorridere lo specialista Daniel, per poi tornare a parlare di temi come l’ingiustizia, il rispetto reciproco e il razzismo, contro il quale ha combattuto durante tutta la sua vita. In ogni caso, non è mancato il tempo per le risate ed i sorrisi: Robertson ha infatti ricordato l’enorme e forse eccessiva euforia di una donna che, ormai 56 anni fa, riuscì ad ottenere un suo autografo.

La verità è che, per diverse decadi, Robertson ha sofferto per come è stato trattato. Si è arrabbiato perché pochi lo considerano uno dei più grandi giocatori di sempre, e perché molti non riconoscono il valore dei suoi aiuti, socialmente ed economicamente parlando, ai giocatori. E infine, è amareggiato, osservando che ragazzi giovani e talentosi vengono lasciati fuori solo perché “they can’t shoot”, quando si sono impegnati anche più di lui in passato.

Nel 2016, il minimo salariale equivaleva a 898.310 dollari. Robertson in carriera non ha mai guadagnato più di 250mila dollari annui, nonostante un meraviglioso percorso in NBA, con addirittura una stagione da 30.8 punti, 12.5 rimbalzi e 11.4 assist a gara. Da qui il legittimo soprannome “Mr. Triple-Double”. Mezzo secolo dopo, solo un giocatore – Russell Westbrook – è riuscito a chiudere una stagione in tripla-doppia di media.

Nel corso della serata trascorsa con Daniel, Big O è apparso ormai tranquillo riguardo alla sua legacy e ottimista riguardo alle possibilità dell’attivismo praticato dagli atleti contemporanei. Ha anche dichiarato di aver apprezzato, in passato, l’impegno di Michael Jordan a supporto della comunità nera: “Forse anni fa non si sarebbe sentito di farlo, ma sono felice che oggi ci sia riuscito”.

Nel teatro in cui è andato in scena l’evento, la maggior parte dei presenti sapeva che Robertson è una delle ragioni principali per la quale esiste la free agency. Nel 1970, infatti, fece causa alla Lega invocando maggiore libertà per i giocatori – meglio dire “lavoratori”, in questo caso – in modo da poter firmare con chi volessero.

Tutti gli spettatori, pur non avendolo mai visto giocare, erano a conoscenza di chi fosse e di cosa avesse compiuto in carriera. Tuttavia, probabilmente non sapevano che, nel 1997, il 12 volte All-Star donò un rene a sua figlia Tia, affetta da lupus eritematoso, e che da quel momento è portavoce onorario della National Kidney Foundation.

Probabilmente non erano nemmeno a conoscenza del fatto che, per quanto possa essere ormai piuttosto anziano (85 anni), la sua mentalità è più contemporanea che mai. Anche se si parla di affari: ha infatti investito molto nelle piantagioni di marijuana in Ohio, addirittura prima che lo stato la dichiarasse legale per uso medico nel maggio del 2016.

Insomma, Robertson non ha più bisogno che la gente sappia chi è davvero. È in pace con se stesso ed è consapevole della grandezza di chi è venuto dopo di lui. E per la parete del National African American Museum, si può indubbiamente confermare che quello, per lui, è il posto giusto.

Chi rivive la storia in quel luogo, fissando le immagini in bianco e nero esposte, non potranno far altro che comprendere che, in quell’epoca, era impossibile trovare qualcuno culturalmente più influente o cestisticamente più forte di Oscar Palmer Robertson.