FOTO: New York Times

È successo. I Boston Celtics a ottobre, durante la cerimonia degli anelli, innalzeranno il tanto atteso banner numero 18. Sembrava una vera e propria maledizione fatta di tante speranze e poca concretezza, ma l’ha sfatata il mago più improbabile che potesse capitare: Joe Mazzulla, che alla sua stagione da “sophomore” come coach ha portato i biancoverdi a un successo storico. Con questo trofeo i Celtics sono diventati la franchigia NBA con più titoli in assoluto: diciotto anelli, nessuno come loro. Il destino, che con Boston ha da sempre un legame diretto, ha voluto che questo trionfo tanto atteso si compisse esattamente sedici anni dopo quel magico 17 giugno 2008, quando i Celtics vinsero il loro ultimo titolo con il famosissimo urlo “Anything is Possibile” di Kevin Garnett. Si è passati da questa celebre frase di The Big Ticket al “We Did It” di Jayson Tatum, ma ciò che li accomuna è che entrambi hanno portato di nuovo Boston a danzare sul tetto del mondo, per la sua diciottesima volta. Tutto ciò che abbiamo visto in Gara 5, come il trofeo di MVP delle Finals per Jaylen Brown, la tanto attesa prima volta di Al Horford, la straordinaria difesa di Jrue Holiday o il dente spezzato di Derrick White, è solo la vetta della piramide. Bisogna ricordarsi delle fondamenta, di tutti i passi che hanno portato i Celtics in questi sedici anni a vincere il titolo, come se fosse un racconto, una storia. Un unico filo narrativo che parte dal 17 giugno 2008 fino ad arrivare al 17 giugno 2024 per due semplici, ma fondamentali, motivi: perché non si può togliere il romanticismo dallo sport e perché questo roster non esisterebbe senza quello composto da Garnett, Pierce e Ray Allen.

Partiamo, quindi, da quel fatidico giorno del 2008, quando tutto cominciò. I Boston Celtics, alla vigilia della stagione, sono reduci da una delle loro annate peggiori, concludendo ultimi la Eastern Conference e con il secondo peggior record della lega. Serve svoltare e rinascere, così durante l’offseason Danny Ainge, all’epoca General Manager, decide tramite trade di portare a Boston due star come Kevin Garnett e Ray Allen per inserirle in un roster che già comprendeva Pierce e Rajon Rondo. I Celtics concludono la Regular Season con il miglior record della lega e ai Playoffs, dopo aver affrontato due Gare 7 consecutive, tornano alle Finals 21 anni dopo l’ultima volta, ma chi sono gli avversari? I Los Angeles Lakers di Kobe Bryant e Pau Gasol. A sbarrare la strada tra Boston e il diciassettesimo anello ci sono i rivali di sempre, coloro che già negli anni Sessanta, ma ancor di più negli anni Ottanta, sono sempre stati gli antagonisti (o protagonisti, a seconda di come si voglia vedere la storia) principali. In Gara 6 un’incredibile prova di forza chiude la serie e i Celtics si laureano campioni NBA 22 anni dopo l’ultima volta, è la serata dell’urlo di Garnett, del bagno di Gatorade che Doc Rivers subìsce da Pierce, ma soprattutto è dove comincia la nostra storia.

Boston si vuole ripetere, non vuole che quel titolo resti un caso isolato e dover aspettare di nuovo 22 anni, ma qui il fato gioca la sua parte. Kevin Garnett, l’anima di quei Celtics, s’infortuna al ginocchio ed è costretto a rimanere ai box per tutta la run Playoffs del 2009. Gli anni successivi non portano maggior fortuna ai biancoverdi, i quali prima cadono alle Finals del 2010 in Gara 7 contro i Lakers e poi sono costretti a cedere lo scettro ad una nuova regina dell’est: i Miami Heat di LeBron, Wade e Bosh. E qui entriamo in un altro capitolo, una parte fondamentale del nostro viaggio, perché se Danny Ainge non avesse preso questa decisione i Boston Celtics non sarebbero quelli che sono oggi.

L’offseason del 2013 è senza ombra di dubbio il passo cruciale di questo racconto. I Celtics decidono che è tempo di andare in rebuilding, non si può più contendere per il titolo. L’anno prima avevano già perso Ray Allen per delle frizioni con Doc Rivers, ora è tempo di ringraziare anche gli altri veterani e guardare avanti verso una nuovo percorso e progetto. Lo stesso Rivers si rifiuta di intraprendere un nuovo rebuilding e lascia Boston dopo 9 lunghissimi anni per volare a Los Angeles, sponda Clippers. I Celtics decidono di nominare head coach un 37enne che da tempo allena a Butler University: Brad Stevens. Pochi giorni dopo arriva anche una trade: i Brooklyn Nets acquisiscono Kevin Garnett, Paul Pierce e Jason Terry in cambio di Gerald Wallace, Kris Humphries, MarShon Brooks, Kris Joseph, Keith Bogans e soprattutto le prime scelte non protette ai draft del 2014, 2016 e 2018, ma con uno swap nel 2017. Al draft del 2014 la first-round pick dei Celtics si traduce in Marcus Smart, mentre quella che arriva dai Nets non porta altrettanta fortuna e si chiama James Young. Quello che succede nei tre anni successivi ha costruito i Celtics che conosciamo oggi, il progetto di Brooklyn si rivela un fallimento e in soli due anni perde sia Garnett che Pierce ritrovandosi, quindi, a dover tankare forzatamente senza aver il controllo delle proprie scelte. A beneficiarne sono i Celtics che possono accelerare in questo modo il proprio rebuilding senza essere costretti a perdere. Il draft del 2016 regala Jaylen Brown, nonostante le critiche di chi avrebbe preferito Kris Dunn, e nel 2017 Boston esercita lo swap e si porta a casa il prodotto di Duke Jayson Tatum.

I Celtics cominciano così a sviluppare una doppia timeline, un roster che comprende star già affermate arrivate tramite free agency o trade, ma che al suo interno vede anche la presenza di ottimi prospetti. In due anni, infatti, Boston riesce a costruire una rosa della quale fanno parte, oltre ai già citati Smart, Brown e Tatum, anche giocatori pronti per vincere subito come Al Horford, arrivato da free agent nel 2016, Kyrie Irving e Gordon Hayward, entrambi giunti nel Massachusetts nell’offseason del 2017. I Celtics devono ancora pagare qualche colpa non ben definita o devono togliersi da dosso il malocchio, in quanto quelle stagioni sono caratterizzate da infortuni seri, come quello di Hayward, o altri minori, ma impattanti, come quello di Kyrie. Boston si affida a ciò che ha in casa, come i Jays, o a improbabili eroi quali Scary Terry Rozier. Ci arriva vicino, ma non basta, le Finals continuano a sembrare un miraggio, un palcoscenico lontanissimo. Le vedono, ma non riescono mai a coglierle, come quando nei film ci sono eroi assetati in mezzo al deserto che scorgono l’oasi in lontananza ma, quando giungono lì, scoprono non essere altro che frutto della propria immaginazione, del desiderio. Le Finals e l’anello, per Boston, rappresentano quello.

Ora, sono abbastanza sicuro che Arthur Schopenhauer non conoscesse i Celtics, ma il rapporto con le Finals si sposa bene con il concetto di “desiderio” del filosofo tedesco: “Esso esiste quando manca qualcosa, quando vi è una necessità, ma allo stesso tempo questo ‘qualcosa’ sembra non esistere, l’uomo desidera costantemente un appagamento, che in natura, però, pare non esserci”. Probabilmente è quello che hanno creduto anche i tifosi dei Celtics, più si avvicinavano alle Finals e al titolo, e più le vedevano sfumare sempre e costantemente, più hanno iniziato a credere che non esistessero, che fossero un’invenzione irraggiungibile.

I tifosi di Boston avranno anche tanti difetti, ma non si può dire che non siano passionali ed emotivi. S’innamorano follemente dei role player, vogliono bene a tutti coloro che vestono la loro casacca del cuore e regalano tantissimo affetto ai propri giocatori, specialmente a chi ricambia. Allo stesso tempo sono rancorosi e vendicativi, non inimicarteli mai o non prenderli in giro. Ecco il motivo dell’astio verso Kyrie Irving, non è quella serie con Milwaukee in cui tutti si aspettavano molto di più da lui, ma è per quel “I plan on resigning here next year”.

In pochissimo tempo i tifosi dei Celtics si sentono traditi e perdono i giocatori di punta di quel core che li aveva portati ad una gara dalle Finals. Al Horford in free agency sceglie Philadelphia, una meta molto “amata” da Boston, e Kyrie Irving vola a Brooklyn. Questo significa una sola cosa: più fiducia e più responsabilità ai Jays, ma serve anche un playmaker. I Celtics nell’offseason del 2019 si affidano via trade a Kemba Walker, proveniente da Charlotte, ma le sue prestazioni non decollano mai. Tanta incertezza e tanti problemi fisici, sembra che i Boston abbia sbagliato un’altra trade e nel 2021 raggiungono uno dei punti più bassi della loro storia recente. Dopo tante Conference Finals, i Celtics vivono una stagione disastrosa, devono passare dal Play-In e al primo turno perdono 4-1 proprio contro i Nets di Irving, e soprattutto di Kevin Durant e James Harden. Serve una rivoluzione, Brad Stevens lascia il suo incarico di capo allenatore per diventare il nuovo President of Basketball Operations dei Boston Celtics: è l’inizio di una nuova era, nella quale si tornerà a ciò che pareva un lontano ricordo misto a una maledizione.

La prima mossa è quella di scaricare il contratto lungo e oneroso di Kemba Walker. Brad bussa alla porta dei Thunder e dopo soli due anni una vecchia conoscenza torna a Boston: si tratta di Al Horford. Il centro dominicano è nelle battute finali della sua carriera e, secondo molti, non può dare più nulla, ma nella sua seconda esperienza ai Celtics vivrà anche una seconda giovinezza. Come head coach viene nominato Ime Udoka, a lungo assistente sotto Gregg Popovich, mentre per il resto viene confermato il core formato da Tatum, Brown e Smart. Boston nella prima parte di stagione vacilla, gioca a sprazzi e dopo 50 partite si ritrova al nono posto della Eastern Conference con un record di 25-25, ma nella seconda parte reagisce e quello che accade ha dell’inspiegabile. Alla trade deadline, innanzitutto, arriva silenziosamente da San Antonio, in cambio di Richardson, Langford e una prima scelta, Derrick White, un giocatore che si rivelerà chiave per il finale della storia. I Celtics inanellano un 26-6 eroico nelle ultime partite e conquistano il secondo posto: al primo turno rifilano uno sweep ai Nets per poi vincere due Gare 7 contro i Bucks campioni in carica e contro i sempre indigesti Miami Heat. Alle Finals ci sono i Golden State Warriors di Stephen Curry: Boston conduce 2-1 e vuole trovare l’allungo decisivo al TD Garden, ma il numero 30 degli Warriors ha altri piani e l’abitudine a certi palcoscenici gioca la sua parte, 4-2 Golden State.

Manteniamo la calma, restano ancora altri due capitoli. Boston è tornata alle Finals, dunque quell’isola misteriosa esiste davvero, non era un’immaginazione insita nella mente dei tifosi. È mancato l’anello, però. Quindi risuonano nella testa le parole di Schopenhauer sul desiderio? Non proprio, ora abbiamo appurato la sua esistenza, quell’appagamento e quella necessità che decantava esiste davvero. Potremmo citare un altro filosofo che è nato ancora più a nord di Danzica: Søren Kierkegaard, che descrisse la speranza come “un frutto che tenta, ma non sazia”. Quella dell’anello è una speranza, ma non è abbastanza, bramarlo e desiderarlo non dà ancora quella sensazione di appagamento. Bisogna vincerlo.

Nel 2022 Stevens aggiunge alla rosa Malcom Brogdon da Indiana e Boston sembra non avere punti deboli ora che ha anche un creator dalla panchina, ma come tutte le storie ci devono essere degli imprevisti. Udoka vìola una legge interna (non entriamo nei dettagli) e viene sospeso per un anno: al suo posto viene promosso head coach Joe Mazzulla, già assistente sotto Brad Stevens. I Celtics arrivano di nuovo a una Gara 7 dal tornare alle Finals e vanno a un passo dall’essere la prima squadra a rimontare e vincere una serie Playoffs da 3-0 sotto. Niente da fare, passa ancora Miami. La speranza continua a lasciar la fame, ma non a riempire la pancia e il cuore dei tifosi Celtics.

Eccoci arrivati, dunque, all’ultimo capitolo del nostro viaggio, quello che consegnerà l’immortalità a questa squadra. È un offseason delicata quella del 2023. Jaylen Brown vuole un’estensione al massimo salariale, ma l’ultima run Playoffs non è stata degna di un contratto del genere. Stevens decide di lasciar andare via Smart, l’anima dello spogliatoio, e al suo posto arriva da Washington Kristaps Porzingis, lungo lettone che fino ad ora aveva lasciato più speranza che concretezza agli occhi degli appassionati. Stevens sceglie di estendere Brown al massimo salariale, ma poco dopo i Milwaukee Bucks, diretti concorrenti, accontentano Portland e arrivano a Damian Lillard. Che cosa c’entra questo con i Celtics? Brad non sta a guardare, impacchetta Brogdon, Rob Williams più due prime scelte e porta a Boston Jrue Holiday, che proprio i Bucks avevano lasciato andare con troppa leggerezza. Ci avviamo al finale, i Celtics hanno costruito un roster praticamente perfetto, fatto di giovani cresciuti in casa come Tatum e Brown, di giocatori dai quali si è riuscito a ricavare il massimo potenziale come Porzingis e White, ma anche di veterani come Holiday e Horford, allo stesso tempo presenze fondamentali nello spogliatoio. La Regular Season viene dominata, record di 64-18 e primo seed confermato. Ai Playoffs Boston vince le 16 gare necessarie all’anello perdendone solamente 3, laureandosi campione il 17 giugno, esattamente sedici anni dopo l’ultima volta. Negli anni i Jays hanno subìto tantissime critiche, ma Stevens non ha mai perso la fiducia in loro, li ha sempre difesi, coccolati e non li ha mai separati o scambiati. Non ha mai voluto smantellare, prendere decisioni drastiche. Li ha visti crescere, prima come coach e poi come dirigente, ma sempre con la convinzione che un giorno avrebbero portato a Boston quel diciottesimo titolo che tutti i tifosi sognavano.

Spesso nello sport si parla dei What-If, per chi non è ferratissimo con gli inglesismi lo spiego in italiano: ci si pone delle domande del tipo “cosa sarebbe successo se..?”. Si prendono dei singoli eventi e si prova a creare un multiverso viaggiando con la fantasia. Spesso, però, questi What-If assumono dei significati negativi, in quanto si va a cercare un universo alternativo migliore, ma oggi no. Che cosa sarebbe successo se Doc Rivers avesse accettato di guidare il rebuilding nel 2013? Sarebbe arrivato comunque Brad Stevens? E se nel 2008 non fosse arrivato Kevin Garnett? I Celtics sarebbero comunque riusciti ad arrivare a Tatum e Brown senza le pick dei Nets nella trade per KG e Paul Pierce? Oggi non parliamo di questo, perché i Boston Celtics si trovano in quello che Leibniz chiamava il migliore dei mondi possibili, quindi non bisogna cercarne altri. Hanno vinto il titolo e sono la franchigia con più anelli della lega, hanno visto che quell’oasi esisteva davvero e si sono saziati concretizzando la loro speranza. I Boston Celtics hanno vinto anche contro Schopenhauer e Kierkegaard.