Dopo aver sentito l’opinione di John Carlos, un gruppo giocatori – guidato da Kyrie Irving – tentò di boicottare la NBA Bubble dell’estate 2020. La ricostruzione di quella conference call.

Questo contenuto è tratto da un articolo di Matt Sullivan per Andscape, tradotto in italiano da Davide Corna per Around the Game.
Kyrie Irving aveva parlato con molti giocatori dell’NBA e della WNBA, che erano perplessi di fronte al ritorno in campo nella bolla di Orlando, mettendo in dubbio la scelta di abbandonare la spinta di un movimento per la giustizia sociale per accasarsi a Disney World. Alcuni fra gli atleti più giovani e meno pagati erano preoccupati di non ricevere lo stipendio, se si fossero rifiutati di entrare nella bubble. Pur avendo votato a favore della ripresa del gioco tre giorni prima, allineandosi ai leader della Players Association, Irving era frustrato dal fatto che i 28 rappresentanti della NBPA stessero parlando a nome di ben 450 giocatori.
Michele Roberts, direttrice esecutiva della Players Association, si era adoperata per convincere le squadre a votare a favore della ripartenza. Ai dissidenti serviva invece trovare un leader per la loro causa. “È risaputo che Kyrie non sia una persona timida”, ha detto Roberts in un’intervista. “Non mi sento minacciata dall’opposizione o da voci discordanti. La democrazia funziona esattamente così”.
L’idea di un boicottaggio di massa della bolla stava prendendo piede, con una coalizione informale che cresceva di numero di giorno in giorno. Rispondendo a un invito di Kyrie, i membri di questa coalizione si ritrovarono ad aprire il link per una conference call su Zoom. Di fronte a loro, un “precursore” con un braccio alzato piuttosto famoso: John Carlos.

Carlos diede ai giocatori un consiglio simile a ciò che aveva detto a Colin Kaepernick qualche anno prima:
“Vi siete tuffati nella piscina dell’umanitarismo, e adesso fate parte di questo movimento. Non è il momento di mettere a tacere le vostre voci, è il momento di alzare il volume e mantenerlo al massimo, perché state parlando per conto di chi non ha voce.”
Carlos disse ai dissidenti che avrebbero dovuto agire uniti, come un’unica entità, che includeva giocatori che puntavano al titolo come, tra gli altri, LeBron James, Dwight Howard e Avery Bradley dei Lakers.
Riguardo all’intervento di Carlos, Avery Bradley ha raccontato:
“Disse che un’opportunità come questa potrebbe non capitare per i prossimi 50 anni. C’era talmente tanta pressione… Altri giocatori NBA dissero che eravamo pazzi. Ma dovevamo trovare un modo per riprogrammare il modo di pensare della gente, senza prendere decisioni affrettate. Perché questo lavoro ti fa muovere in fretta, e a volte te lo fanno fare di proposito, per non darti l’opportunità di pensare, e farti prendere solo decisioni d’impulso. C’è un razzismo sistemico, nel nostro lavoro”.
Spencer Dinwiddie incoraggiò i ribelli a incrementare i loro numeri e a indire uno sciopero nel momento più caldo della protesta. “Ragazzi, so come andrà a finire questa storia”, disse ai suoi compagni di squadra. “Manderanno in giro notizie false per screditarci. E se non saremo determinati, il movimento morirà. Kyrie, ti servono dei sì”.
Kyrie e Avery si adoperarono per trovare i numeri di telefono dei giocatori, e inviarono un invito di massa per una conference call quel venerdì sera: “A causa della nostra natura competitiva, c’è stata una scissione non necessaria fra di noi. Unendoci tutti assieme potremo rafforzarci l’un l’altro. Ti stiamo contattando perché vogliamo che tutte le nostre voci vengano ascoltate.”
Le reazioni di giocatori non allineati con un messaggio del genere non si fecero attendere, come nel caso di Kyle Kuzma che si prese una pausa dall’allenamento e dai suoi tweet riguardo a razzismo e politica, per chiarire ai suoi follower che “alcuni di noi vogliono comunque semplicemente giocare e competere, e questo non va travisato”.
Dwight Howard inoltrò l’invito a Natasha Cloud, star della WNBA e dei Washington Mystics, chiedendole di far circolare la voce. Anche Natasha durante una discussione sulla logistica relativa alla bolla in conference call lunga più di un’ora ad un certo punto interruppe le negoziazioni sulla ripartenza per pronunciare due nomi: George Floyd, Breonna Taylor. “Diventai sostanzialmente la leader radicale, la Kyrie della WNBA”.
Natasha si unì all’invito e vide, fra i più di 75 box di quella chiamata Zoom, la hall of fame dei leader carismatici dell’NBA attuale. Veterani e stelle come Chris Paul, Russell Westbrook, Carmelo Anthony, Andre Iguodala e Mike Conley; ma anche giovani come Joel Embiid, Donovan Mitchell e Malcom Brogdon; e diversi giocatori dei Brooklyn Nets, fra cui Kevin Durant. Niente LeBron, invece.
L’host era un utente chiamato “Ky Birving”. Le sue frasi di apertura erano meno sconnesse del solito. Se tutti i presenti volevano giustizia, chiese, quale poteva essere il modo migliore per i giocatori di unirsi ed essere presenti, per il movimento e per le loro comunità di afroamericani? La presenza nella bolla, ovviamente, sarebbe stata sostanzialmente un’assenza. Era scosso, e restava scettico rispetto ai pareri degli esperti che avevano in gestione la risposta della Lega al Covid-19. Ma Kyrie credeva che i giocatori neri in particolare dovessero mettere al primo posto la salute e la sicurezza, per mostrare a pieno che le loro vite contano. I casi di coronavirus in Florida erano in salita, e degli intrattenitori come loro non rientravano fra i lavoratori essenziali nel mezzo di una pandemia. Invece che intrattenitori, potevano essere dei rivoluzionari.
Chris Paul, come presidente dell’associazione dei giocatori, avvertì i giocatori di non andare troppo nello specifico in quella call riguardo ai nuovi piani per le negoziazioni, perchè sapeva che tali dettagli sarebbero arrivati alla stampa. Nel frattempo, lui e Michele Roberts stavano già lavorando per garantire contributi finanziari da parte dei proprietari delle franchigie NBA per la giustizia sociale e il diritto di voto, e per il recupero di un paio di miliardi di dollari destinati ai giocatori, persi durante lo stop per la pandemia.
Se questa nuova coalizione stava spingendo per un boicottaggio o per uno sciopero, chiese Carmelo Anthony, “Per cosa ci batteremo?”. Invece di entrare nella bolla, le star NBA avrebbero invece marciato nelle loro città? Avrebbero combattuto per riformare le leggi dei vari stati? “Per l’unità”, rispose Kyrie.
Garrett Temple disse che trovava l’insurrezione del gruppo di Kyrie frettolosa. Ricordò ai giocatori presenti che il mondo sportivo era in stallo: il ritorno in campo del baseball era bloccato, i Dallas Cowboys stavano risultando positivi al Covid-19, e gli atleti a livello di college stavano purtroppo diffondendo il virus nei campus. La bolla avrebbe offerto il tempo utile per discutere ulteriori richieste, e i giocatori avrebbero comunque potuto devolvere gli stipendi alle loro comunità e dare l’esempio. Con la ripresa dell’NBA, aggiunse Temple, avrebbero avuto l’attenzione di moltissimi appassionati di sport, cui avrebbero potuto far ascoltare tutto ciò che volevano, visto che l’NBA sarebbe stata l’unica lega sportiva attiva negli USA.
Andre Iguodala poteva dialogare con entrambi gli schieramenti coinvolti, come un novello Stokely Carmichael. Andre aveva aumentato il suo ruolo di attivista fra i giocatori nei primi mesi della stagione, prima di andare a Miami, ed era entrato a far parte del comitato esecutivo dell’Associazioni Giocatori, con Chris, Garrett e Kyrie. Nel 2014, si era mosso per convincere i Warriors a scioperare durante la serie Playoffs contro i Clippers, come atto di protesta nei confronti di Donald Sterling. Aveva anche incoraggiato gli stessi Clippers, fra cui Chris Paul, a unirsi al boicottaggio: “Ragazzi, non presentatevi alla partita. Sarebbe un gesto forte, no?”
Durante quella conference call, Iguodala pensò che fosse suo dovere fare ciò che era nei migliori interessi del gruppo, e la priorità doveva essere recuperare i soldi persi. “Non posso essere sempre del tutto militante”, mi ha detto Andre, quando gli ho chiesto un commento sulla sua posizione. “Ma allo stesso tempo, potevo far capire la situazione agli altri, e convincerli poco a poco”.
Dinwiddie fece notare che se un folto gruppo di giocatori si fosse rifiutato di riprendere a giocare in quella stagione, i proprietari avrebbero potuto “bloccarli” dopo la bolla, e addirittura trattenere gli stipendi di quei giocatori anche nella stagione successiva. C’erano in ballo circa 1.2 miliardi di dollari in stipendi dei giocatori. “Sono disposto a rinunciare a tutto ciò che ho”, rispose Kyrie. Una coalizione di giocatori avrebbe potuto risarcire i giocatori che si fossero rifiutati di entrare nella bolla, con gli atleti più pagati ad aiutare quelli con stipendi più bassi.
Temple mi ha detto che non poteva credere a quell’affermazione.
“È facile dire una cosa del genere quando hai guadagnato quello che hai guadagnato, e hai comunque i soldi che arrivano da sponsor come Nike. Se invece sei appena entrato nella Lega, allora è tutto diverso. Ti ritrovi ad aver a che fare con giocatori famosi che iniziano a parlare di giustizia sociale, e pensi che per loro sia fin troppo facile, con milioni di dollari sul conto corrente”.
Anche se Kyrie avesse davvero potuto trovare il modo di supportare finanziariamente chi ne aveva bisogno, i rookie e i giocatori emergenti come Justin Anderson avevano comunque bisogno di lavorare per guadagnarsi il loro posto nella Lega. Meritavano l’occasione di giocare e di unirsi comunque alla protesta. Alla fine della discussione, come riporta Garrett, “non c’era nessun nuovo piano, perchè i giocatori che non volevano riprendere a giocare non avevano alcun piano concreto. Dicevano solo ‘staremo in sciopero, e qualcosa succederà’.”
Verso la fine della conference call, Renee Montgomery prese la parola. Le donne della WNBA avevano già condotto a lungo battaglie simili: lei e le sue Minnesota Lynx avevano indossato T-shirt in memoria di Philando Castile e Alton Sterling già nel 2016, e si erano rifiutate di parlare di qualsiasi altro argomento nelle interviste con i media; nonostante questo, non detevano lo stesso potere mediatico dei giocatori NBA. Renee giocava per le Atlanta Dream, di cui era co-proprietario il senatore repubblicano Kelly Loeffler, che sfruttò a suo vantaggio l’attivismo della sua stessa squadra in campagna elettorale. Anche in quel momento, le donne erano di nuovo in prima linea, con le Dream e l’Associazione Giocatrici che stavano cercando di allontanare Loeffler dalla Lega.
Renee era disposta a interrompere la sua stagione per apparire sulla CNN e su MSNBC per parlare di giustizia sociale, invece di andare nella bolla per riprendere a giocare e venire pagata. E il suo stipendio era solamente di 109.000 dollari all’anno.
Kyrie fu sorpreso nel constatare il gap salariale fra NBA e WNBA, dove lo stipendio massimo era di 215.000 dollari, con le giocatrici che spesso “raddoppiavano” giocando all’estero in offseason, per guadagnare di più. “Dobbiamo proteggere le nostre regine”, disse Kyrie.
“Sembrava una riunione dei Black Panther, in senso positivo”, mi ha detto Natasha Cloud, “perchè ci stavamo dando forza l’uno con l’altro, come re e regine. NBA e WNBA sono rimaste completamente separate per troppo tempo. Non volevano che comunicassimo fra di noi”.
La conference call attirò probabilmente troppa attenzione, visto che i giornalisti iniziarono a parlarne già dopo pochi minuti, cavalcando l’onda di quei tifosi che già vedevano Kyrie come un “nemico”. Alcuni giocatori accusarono i giornalisti di ESPN di faziosità, con la rete che aveva ovviamente interesse a riavere lo sport in TV, e di aver ingiustamente etichettato Kyrie come il “cattivo”.
Dopo aver chiuso la call e spento il laptop, Kyrie racconta di aver mangiato un panino ed essersi fatto una gran risata dando un’occhiata a Twitter. Il fatto che il sistema stesse cercando con così tanto impegno di sabotare i suoi propositi era un chiaro segno che fosse sulla strada giusta.
Irving e Bradley restarono delusi, ma non sorpresi, nel vedere fallire la loro insurrezione. In quella call non riuscirono a convincere nessun altro ad unirsi al loro boicottaggio, ed ebbero l’impressione che la loro lista di richieste (un impegno da parte delle franchigie a incrementare la diversità razziale nelle assunzioni per front office e coaching staff, a stringere partnership con arene e imprese locali gestite da afroamericani, e a donare molti più solti) fosse stata largamente ignorata.

John Carlos aveva detto ai dissidenti di aspettarsi che ai media e ai tifosi sarebbero stati necessari decenni prima di realizzare che erano dalla parte del giusto. Tuttavia, i ribelli non lo ricontattarono per informarlo sull’esito della call.
“Sono un po’ imbarazzato per come abbiamo gestito la situazione”, ha detto poi Avery. “Perchè credo che non abbiamo fatto ciò che John Carlos voleva che facessimo. Avevamo l’opportunità di sfruttare la situazione che si era creata, e abbiamo fallito. E so che tutti stanno comunque spingendo per il cambiamento, ma l’NBA aveva una grandissima occasione, perchè tutti gli altri ci avrebbero seguito, tutti gli altri sport, se ci fossimo mossi nel modo giusto”.
Dwight Howard contattò Craig Hodges, il freedom fighter che aveva fatto causa ai Bulls e all’NBA per come era stato trattato 30 anni prima, e gli confessò che si sentiva solo e confuso nel suo impegno per l’attivismo. Craig gli rispose che era il momento di andare a vincere il titolo con i Lakers, e di occuparsi poi della sua comunità di Atlanta nella offseason.
“In questa generazione, il boicotaggio non è necessario”, disse Craig. “Puoi usare i social media per aumentare la pressione sui temi sociali, e intanto puoi continuare a giocare. Il nostro obiettivo, però, deve essere definito da noi stessi, che abbiamo fatto parte in prima persona delle comunità oppresse. L’unico momento in cui l’attuale struttura di potere ‘bianco’ comprende e considera la situazione è quando qualcuno crea problemi a livello economico. Lo schiavismo, la bolla NBA, l’apertura dell’economia… sono tutte questioni di soldi. Quello che conta alla fine è il dollaro, e la struttura attuale non accetta di guardare alla vera forza che sta alla base del potere. La base di potere dell’NBA è costituita dagli atleti afroamericani, ma la Lega non garantisce loro uguaglianza sociale. E mentre si va a giocare nella bolla, gli afroamericani continuano a venire uccisi.”
Qualche ora più tardi rispetto alla conference call indetta da Irving, Rayshard Brooks si era addormentato nella sua auto, parcheggiata di fronte a un Wendy’s di Atlanta, per poi venire svegliato da un gruppo di agenti di polizia che avevano subito iniziato a fargli domande. Dopo un tentativo di arresto da parte degli agenti, Brooks prese uno dei loro taser e tentò di scappare.
Venne colpito da due colpi di pistola alla schiena. Aveva 27 anni.