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C’è una conversazione che avviene tutti i giorni, in tutte le parti d’America.

Da una parte un adulto, dall’altra il figlio, la figlia o il/la nipote, di solito appena adolescenti ma a volte anche più giovani. È una chiacchierata che è sempre la stessa da anni. Da secoli. Cambiano forse le circostanze, cambiano le modalità e il tono in cui avviene, ma il succo è sempre quello.

Le famiglie afroamericane lo chiamano “The Talk”. E no, non si tratta della solita metafora di api e fiori per spiegare come nascono i bambini.

Ogni teenager di colore in America se l’aspetta, prima o poi. E sa che quando è il momento, conviene ascoltare e imprimersi ogni parola a fuoco nella mente. Perché non ci sarà tempo di leggere gli appunti quando ci sarà bisogno di ricordarselo.

“The Talk” è con te ogni volta che vai a scuola o torni a casa da solo. Ogni volta che la mamma ti manda a comprare il latte alla drogheria all’angolo. Ogni volta che ti fermi per strada a fare due chiacchiere con gli amici, facendo un po’ lo sbruffone come tutti coloro che cominciano ad affacciarsi al mondo e vogliono mostrare di non averne paura. E soprattutto, “The Talk” non te lo puoi dimenticare mai quando sali in macchina, che tu sia al volante o un passeggero poco importa.

Non c’è un manuale per “The Talk.” Non c’è una legge o una regola scritta. Sono semplicemente delle istruzioni secche, incontrovertibili, spietate che possono fare la differenza tra la vita e la morte ogni giorno che Dio manda in Terra.

· If you are stopped by the police, always answer ‘yes sir, no sir’. Se vieni fermato dalla polizia, rispondi sempre “Sissignore” o “Nossignore”.

· Pull over your vehicle right away. Accosta con la macchina immediatamente.

· Don’t put your hands in your pockets. Non metterti le mani in tasca.

· Keep your hands visible on the steering wheel and don’t make any sudden moves. Tieni le mani bene in vista sul volante e non fare movimenti bruschi.

· Don’t reach for items in your wallet or glove compartment, without informing the law enforcement officer first. Non prendere nulla nel portafoglio o nel cassettino del cruscotto senza prima dirlo all’agente.

· Obey all commands. Ubbedisci a tutti gli ordini.

· Don’t argue, even if you are right. If you think you are falsely accused, save it for the police station. Non ribattere o rispondere, mai. Neanche quando hai ragione. Se credi di venire accusato ingiustamente, ti difenderai al commissariato.

E poi l’ultima frase, la più raggelante.

· I would rather pick you up at the station than the morgue. Preferisco venirti a prendere al commissariato che all’obitorio.

Non bisogna dimenticarselo mai, “The Talk.” È più sacro dei Dieci Comandamenti. Perché se ti dimentichi i Dieci Comandamenti, il Padreterno ti giudicherà quando vai all’altro mondo. Se ti dimentichi “The Talk”, è possibile che tu ci finisca in fretta, all’altro mondo.

“The Talk” se l’è ricordato bene Stephen A. Smith, commentatore sportivo di ESPN, quando è stato fermato dalla polizia di New York mentre guidava, con la figlia undicenne sul sedile posteriore dell’auto. Smith racconta la sua esperienza qui sotto dal momento 1:11, commentando il caso di Jacob Blake (uno che “The Talk” non l’aveva mandato a memoria, e difatti è finito con sette pallottole nella schiena, rimanendo paralizzato).

A Smith è andata bene: l’hanno lasciato andare quando l’hanno riconosciuto. Ma tutt’oggi una spiegazione razionale del perché l’hanno fermato, non c’è. O meglio, c’è: ma molti non vogliono sentirla.

George Floyd, che “The Talk” non l’aveva scordato, è soffocato con il ginocchio di un altro agente sul collo per quasi 9 minuti, colpevole di aver pagato un pacchetto di sigarette con una banconota falsa. La sua morte, una delle 31 avvenute nel 2020 tra gli afroamericani per mano della polizia secondo la NAACP, ha acceso la miccia della rivolta a Minneapolis e nel resto d’America. Ha costretto la legge a processare la legge dopo che l’opinione pubblica nazionale e mondiale ha chiesto risposte, non ammettendo più sospensioni senza stipendio o cambi d’incarico, invece della galera, per una persona con la divisa che uccide un’altra persona che la divisa non la indossa e ha l’aggravante di troppa melanina.

E proprio in quei giorni, mentre gli occhi del mondo erano puntati sul processo a Derek Chauvin (condannato qualche mese dopo a 22 anni e 6 mesi di carcere per omicidio di secondo grado), Daunte Wright veniva freddato per errore da un agente di polizia che voleva fulminarlo con un Taser e invece ha estratto la pistola.

Daunte Wright, che era stato fermato per un’infrazione al codice della strada, aveva una pendenza penale. Quando hanno tentato di arrestarlo, ha cercato di scappare e gli hanno sparato. Non aveva armi addosso.

Non aveva aggredito nessuno.

Daunte si è fatto prendere dal panico. Ha dimenticato “The Talk”. Ed è finito al cimitero.

Sono sicuro che “The Talk” sia avvenuto anche nella cameretta dei nostri idoli della NBA: LeBron James, Allen Iverson, Magic. Perfino di Michael Jordan. Non sono altrettanto sicuro che lo stesso sia accaduto a Gordon Hayward, Larry Bird o Jerry West. E non è colpa loro, intendiamoci. Ma chiediamoci perché.

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Siamo davvero tutti creati uguali, come dice la Dichiarazione d’Indipendenza di questi Stati Uniti d’America?

In un Paese dove, nel 2020, una donna di colore viene pagata il 37% in meno rispetto a un uomo bianco? In un Paese dove, fino a inizio 2020, non era illegale per un datore di lavoro licenziare un dipendente afroamericano che portasse i capelli al naturale (quindi con treccine, “cornrows”, afro o semplicemente non trattati)? In un Paese dove, nonostante l’uguaglianza di trattamento sulla carta, esiste ancora la segregazione scolastica, come dimostrato (tra le altre cose) dal meraviglioso documentario Teach Us All? In un Paese dove per decenni la pratica del “redlining” ha mantenuto in vita i ghetti, e le banche hanno continuato a elargire mutui a condizioni di usura per gli afroamericani?

Viene fatto anche a noi bianchi “The Talk” la prima volta che prendiamo in prestito la macchina di papà o i nostri genitori si rendono conto che non ci possono più tenere in casa, che abbiamo voglia di uscire, di vedere gli amici, di andare a prendere un gelato con la ragazza della classe accanto? Non credo. E perché loro sì, e noi no? Perché si continua ad accettare questo stato di cose come la normalità, o al peggio come una disgrazia inevitabile che però tutto sommato, non è un problema nostro? Perché i neri non sono come noi, forse? Perché è giusto trattarli diversamente?

Perché se lo meritano?

O magari perché c’è qualcosa di più marcio all’origine che non vogliamo scoperchiare per paura di rimettere in discussione tante, troppe cose? Abbiamo davvero tutti gli stessi diritti e le stesse opportunità, come sostiene gran parte dell’opinione pubblica, soprattutto bianca? Non sono domande nuove. Ma sono domande che si evitano da troppo tempo.

Da prima di Joe Biden.

Da prima di Donald Trump.

Da prima di Barack Obama.

L’America nera ce lo sta dicendo da decenni che le cose devono cambiare.

Ce l’ha detto con la letteratura, con James Baldwin e Ta Nehisi-Coates.

Ce l’ha detto con la musica, con Marvin Gaye e Public Enemy.

Ce l’ha detto con il cinema, con Spike Lee e Ava Du Vernay.

Ce l’ha detto con la TV, in programmi come “Otto sotto un tetto” e “Willy il principe di Bel Air.”

Ce l’ha detto con una risata amara, con Dick Gregory e David Chappelle.

Ce l’ha detto con lo sport, con Mohammed Ali e Colin Kaepernick, e con le proteste dei giocatori NBA nello scorso e in questo campionato.

Ce l’ha detto con le buone, con MLK e Jesse Jackson.

Ce l’ha detto con le meno buone, con Malcolm X, i Black Panthers e Black Lives Matter. Ce l’ha detto con le cattive, come successo nelle rivolte di LA, a Ferguson e l’estate scorsa.

E a Minneapolis, nell’aprile del 2021, l’America nera si è ancora una volta trovata a gridare al resto del Paese che è arrivata l’ora di guardarsi allo specchio. Chissà se, prima o poi, verrà ascoltata.

Intanto, “The Talk” continua a risuonare nelle camerette. Intanto, l’America brucia.