FOTO: NBA.com

“Goodmornin’ LA! KRLA qui con voi in questa mattina del 16 gennaio 1963. Il Sole splende in un cielo sereno sulla città degli angeli, con temperature gradevoli e una leggera brezza che ci accompagnerà durante l’intera giornata. E che giornata speciale! Oggi è il giorno dell’attesissimo All-Star Game della NBA, un evento che ci promette azione, emozioni e talento. Preparatevi, perché si prospetta un’indimenticabile giornata di basket e spettacolo!”

Il piccolo Tyrone si svegliò di soprassalto, come se le parole della piccola radiosveglia si fossero insinuate nei suoi sogni di bambino.
Bill contro Wilt alla Los Angeles Sports Memorial Arena, il batticuore risuonava nel suo petto quasi come un pizzicotto; non era un sogno, Papà Joe gli aveva fatto vedere i biglietti la sera prima, sarebbero andati a vedere la partita delle stelle e avrebbero ammirato non solo quello scontro tra due titani, ma anche Oscar “Big O “ Robertson e Bob Cousy, “l’unico bianco di cui mi fido”

Papà Joe esordiva così ogni volta che “Houdini” veniva nominato, ed erano le uniche parole positive che pronunciava sui visi pallidi da cui bisognava star lontani, non mischiarsi e soprattutto non infastidire in alcun modo. Non era mai riuscito ad ammettere con suo padre quanto amasse veder giocare l’unico playmaker ad aver raggiunto e superato i 6000 assist in carriera; era un uomo buono, un bravo padre, ma se sentiva parlare di bianchi cambiava umore e con gli occhi pieni di paura gli diceva: “Stai attento ai bianchi, Ty. A loro non piacciamo”. Eppure Cousy giocava con Bill, gli faceva arrivare palloni da angolazioni impensabili, con tanta precisione che il Centro di Boston doveva soltanto alzare le braccia e adagiarli nel canestro. Ricordava ancora il sorriso che gli si dipinse in volto quando vide per la prima volta un assist dietro la schiena in contropiede di Houdini proprio a Bill, un bianco, di cui aver paura, che passava ad un nero senza far troppe cerimonie. Bob non poteva essere così male.


Passò quel mercoledì in continuo fremito, con la testa persa nelle immagini registrate nella sua memoria. La setacciò alla ricerca dei suoi diamanti più preziosi, uno ad uno i ricordi dei giocatori più importanti del campionato, come proiettati davanti ai suoi occhi, splendevano e lo rapivano. Il primo ricordo riguardava Wilt Chamberlain: l’anno prima aveva segnato un nuovo record per l’All-Star Game, 42 punti. Insieme a Bill Russell avevano creato una coppia di torri nere insormontabili su una scacchiera quasi completamente bianca. Ricordava con chiarezza quasi tutta la partita, ma c’era un’azione in particolare, provocava una scarica elettrica che attraversava per intero la pelle d’ebano di Ty, The Stilt ricevette il pallone spalle a canestro, due palleggi per testare la difesa e, con il piede perno radicato sul parquet, si girò in un fadeaway che dava la sensazione di poesia. Wilt era troppo grosso per quella eleganza, troppo alto, troppo potente; eppure a mezz’aria accarezzò la palla, spingendola delicatamente con i polpastrelli, che sembrò planare nel canestro con una morbidezza innaturale.

“TYRONE!”

Papà Joe dovette urlare per risvegliare il piccolo dal suo sogno ad occhi aperti.

“Tra un paio d’ore partiamo per l’arena, ricordi cosa ti ho detto?”

“Sì signore. Non parlare con i bianchi, non guardarli per più di un attimo e se dovessero chiamarmi Nigger abbasso gli occhi e accelero il passo”

Che giornata. Ty si guardò intorno prima di salire sulla Oldsmobile Cutlass del padre, le strade di Watts erano un tumulto di impazienza, tutti erano presi dalla febbre della smania per la partita della sera; i biglietti per i neri erano pochi, ma non era importante. L’All-Star Game era uno spettacolo di orgoglio e competitività, uno show che rappresentava anche libertà per la comunità nera, quei negri che ce l’avevano fatta portavano sul campo le speranze e la voglia di rivalsa. Ogni rimbalzo, ogni punto, ogni stoppata era un colpo che sfondava le porte dei salotti bianchi, che strappava il cartello “we wash for white people only” della Imperial Loundry Co., che faceva esplodere le latrine sudicie e maleodoranti per i “Colored” ostracizzati solo perché neri.

Bill per primo aveva subito quel tipo di razzismo, non erano notizie che risuonavano ovunque, ma la comunità sapeva, parlava, faceva viaggiare notizie. Qualche anno prima durante un tour nella offseason, si trovò, nel North Carolina, un muro bianco nella persona del proprietario di hotel. Un muro pallido impenetrabile alla comprensione e alle parole:

“You are a Negro. You are less. It covered every area. A living, smarting, hurting, smelling, greasy substance which covered you. A morass to fight from.”

(Go Up for Glory)

Bill, con quel suo sorriso enorme e contagioso, era granitico; rimaneva in piedi sempre, che si trovasse sul campo o per strada contro i razzisti bianchi. Infatti era la difesa la sua specialità, rimbalzi, stoppate, era una barriera fisica sul parquet quasi quanto era una barriera morale contro le ingiustizie che ogni giorno doveva affrontare lui e tutti quelli come lui.

Tyrone si smarrì di nuovo, seduto accanto al padre concentrato sulla guida, nelle registrazioni mnemoniche che custodiva gelosamente. Questa volta però non era un ricordo in particolare, ma una serie: vide Russell decollare per agguantare un rimbalzo ad altezze improponibili per un comune mortale, fece uno zoom mentale per osservare in maniera vivida le enormi mani ghermire il pallone come tenaglie e strapparlo dall’aria con un violento movimento nel precipitare al suolo; lo vide innalzarsi verticalmente in un salto armonioso, raggiungere vette stratosferiche per poi con ferocia stoppare un tiro e rispedirlo al mittente, atterrando pesante e pronto a ripartire con uno sguardo infiammato dalla fame di vittoria che solo chi aveva subito infiniti soprusi portava sul volto. Ty si commosse come se fosse testimone di un grido di speranza, e ricordò che la comunità vociferava su alcune parole di Bill, avrebbe vinto l’MVP quella sera; Charlie Russell sarebbe stato all’arena e, davanti al padre, il “piccolo” William Felton Russell avrebbe puntato al trofeo di migliore.

“Shit! Un posto di blocco! Stai tranquillo, Ty. Non tarderemo!”

L’arena era affollata, in un tripudio di pallore ed eccitazione, Tyrone inseguiva il padre che camminava a passo svelto verso i loro posti, con lo sguardo basso e un leggero tremore delle mani. Ty non riusciva a captare alcuna frase nel forte parlottio che li circondava, ma riuscì a percepire il silenzio in alcune persone quando lui e papà Joe gli sfrecciavano accanto. Arrivarono ai loro posti, lontani dal campo, in mezzo a uno stuolo di volti scuri ma felici e frementi. Con una voce rotta Papà Joe si rivolse al figlio

“Siamo distanti, mi dispiace Ty.”

“È bellissimo”, il tono era estasiato, gli occhi luminosi fissi sul rettangolo di legno in mezzo ai due canestri.

La partita iniziò, con Bill e Wilt in salto per la contesa iniziale. L’ovest entrò in campo agguerrito da subito, ma le stelle dell’est erano incontenibili. Quello che i 14mila spettatori si trovarono di fronte fu assolutamente fuori pronostico, con la vittima sacrificale designata che passaggio dopo passaggio macinava punti e non concedeva alcun centimetro agli avversari. Ciò che smuoveva i giocatori della Eastern era la fierezza e l’assoluta volontà di provare ai critici che non avrebbero permesso ai favoriti di vincere in nessun modo.

Bill macinò rimbalzi sulla testa di The Stilt, Tyrone era incantato dal “Davide” che da solo aveva innalzato una muraglia sotto le plance contro i “Golia” dell’ovest. A metà partita i giocatori di Auerbach erano avanti di 6 lunghezze. La pausa sembrò passare in un attimo e al rientro in campo la Western Division non era ancora morta. La partita continuò con un equilibrio furibondo, nessuno avrebbe ceduto di un millimetro. Jerry West si fece avanti ma verso la fine della partita Bill salì in cattedra, segnando un gancio dopo l’altro e chiudendo la partita sul 108 a 115 per la sua squadra. Come promesso, l’MVP lo vinse Russell, che registrò 19 punti e 24 rimbalzi battendo Wilt su entrambe le statistiche (17 punti e 19 rimbalzi). Papà Joe quasi pianse a vedere quel gigante sorridente tenere in mano il trofeo, con Tyrone al suo fianco che non riusciva a trattenere il sorriso e la gioia per lo spettacolo e l’orgoglio che erano stati messi in campo. Aveva nuovi ricordi da chiudere dentro di se e da riportare in vita ogni volta che volesse, per riprovare quelle emozioni, per risentire le urla e gli applausi, per provare ancora quei brividi lungo la schiena, quella fierezza per il colore della propria pelle che non gli era permesso provare in nessun altro luogo o momento.

“Goodmorin’ LA! Qui KRLA, sempre con voi per una mattina che speriamo sia piacevole per tutti i nostri ascoltatori! Anche oggi, 17 Gennaio 1963, la giornata si prospetta soleggiata e calda! Ora una veloce notizia si cronaca: Ieri nella zona di Watts gli agenti di polizia si sono dovuti misurare con una situazione spiacevole; Ad un posto di blocco il Sig. Joseph Johnson è stato fermato per un semplice controllo, le notizie dicono che il Sig. Johnson ha improvvisamente attaccato gli agenti che si sono trovati costretti ad utilizzare la forza per fermare l’uomo. Johnson lascia la moglie Mary e il figlio Tyrone, presente al momento dell’aggressione”