O muori da eroe o… vivi talmente a lungo da essere licenziato dai Raptors

Questo articolo è una traduzione autorizzata. La versione originale è stata scritta da Louis Zatzman e pubblicata su Raptors Republic, tradotto in italiano da Emil Cambiganu per Around the Game.
Masai Ujiri ha conquistato il mondo. Non ha pianto perché non c’erano più mondi da conquistare. Ha pianto perché la sua celebrazione è stata offuscata. Eppure ha preso una squadra, i Toronto Raptors, che prima di lui era un’isola sperduta, un dettaglio trascurabile, e l’ha trasformata nel modello da imitare dell’intera NBA. Stagione dopo stagione, i Raptors vincevano. Fino al Grande Trionfo.
Sarebbe stata una conclusione straordinaria. Invece Ujiri è rimasto a Toronto per altri cinque anni e i risultati sono stati ben più altalenanti. Poi, con il cambio di proprietà lo scorso anno e i suoi più fedeli sostenitori che lasciavano la società, è diventato chiaro che per lui il momento di lasciare era arrivato. “O muori da eroe o vivi abbastanza da diventare un villain.” E Masai se n’è andato.
Due giorni fa, il giorno dopo il draft. Due giorni dopo che Ujiri era stato tra i primi a dare il benvenuto a Collin Murray‑Boyles a Toronto. Anche se la sua uscita non sorprende nel complesso, il tempismo è sorprendente. Aspettiamo aggiornamenti su quello che è davvero successo nelle ultime 48 ore.
Ciò che invece è già certo, è che il suo regno a Toronto si è concluso. Naturalmente si teme che la franchigia possa tornare a vagare nel deserto come prima del suo arrivo. Al momento, Ujiri ha lasciato in carica il suo staff – tra cui Bobby Webster – in attesa che venga nominato un nuovo presidente. Vedremo come si evolveranno le cose.
Ma per ora celebriamo Ujiri.
Nel suo primo anno, 2013‑14, Toronto schizzò a 48 vittorie grazie alla magia inaspettata di Kyle Lowry. Ujiri non si adagiò sui meriti. Mandò Bargnani in cambio di una scelta che divenne Jakob Poeltl. Scambiò Rudy Gay per un giocatore che l’anno successivo sarebbe passato ai Milwaukee Bucks in cambio di Norman Powell e di una pick che divenne OG Anunoby. È quel tipo di trade da cui possono nascere (e nacquero) i titoli.
Da quel momento iniziò un periodo di fuoco. Al draft successivo pescò Pascal Siakam in fondo al primo giro. Prese Fred VanVleet da free agent non draftato. Scambiò Terrence Ross per Serge Ibaka. Tutto questo disegnava i contorni del roster– di un titolo – con la firma di Ujiri. Quell’estate scelse Anunoby, ancora una volta nella parte finale del primo giro.
Nel frattempo la squadra continuava a vincere, macinando vittorie in regular season e accumulando esperienza nei playoff – un bagaglio che si sarebbe poi rivelato cruciale. Ujiri era la mente del roster e della cultura della squadra. Ha resistito alle tempeste e ha costruito barche migliori per affrontare mari più agitati. Ne era sempre la voce pubblica: carismatico, appassionato, affermando che avrebbero vinto a Toronto molto prima che effettivamente lo facessero.
L’anno successivo arrivò Nick Nurse come head coach. Poi, quell’estate, Ujiri riuscì nell’affare epocale: DeMar DeRozan e Poeltl in cambio di Kawhi Leonard. Durante la stagione aggiunse Marc Gasol.
Un vero periodo d’oro.
Ma, come dicono i giocatori d’azzardo, tutte le streak finiscono. Dopo il titolo, la politica mercato dei Raptors ha iniziato a vacillare. Hanno cercato di difendere il titolo senza Leonard, e lo hanno fatto con coraggio e brillantezza nel 2019‑20. Ma il merito andò ai giocatori, non alla base costruita da Ujiri. Da quel momento il roster ha iniziato a perdere succo.
Ibaka e Gasol se ne sono andati. I Raptors furono costretti a trasferirsi a Tampa Bay per giocare, ma intanto avevano pescato Scottie Barnes. Iniziò il corso attorno a VanVleet‑Anunoby‑Siakam, un nucleo impressionante (soprattutto visto quello che questi tre sono diventati), ma mai abbastanza supportato da esterni di qualità. Ujiri aveva delineato una “Vision 6‑9” che però non ha mai portato abbastanza talento nei ruoli di guardia o centro, né di tiratori. Quel trio d’ingegno è appassito, e alla fine Toronto ha dovuto lasciar andare VanVleet (a parametro zero) o scambiare Siakam da posizioni – diciamo – meno vantaggiose.
Così la franchigia ha puntato su Barnes, con risultati altalenanti. Nonostante alcuni fichi di draft, nessuno ha brillato come Powell, Anunoby o Siakam. Ma Ujiri non ha mai smesso di osare.
La scorsa stagione Toronto ha messo sotto contratto Brandon Ingram, mossa azzardata che ha però gettato le basi per una squadra più competitiva nella prossima stagione. I Raptors hanno persino sperimentato nuovi modi per abbassare artificialmente la classifica per puntare a Cooper Flagg.
In molti modi, le stagioni dal titolo in poi hanno contribuito alla fine del suo mandato. Le sue prestazioni dopo il 2019 non sono state all’altezza – forse di standard irrealistici fissati da lui stesso – ma va detto che non sono state neppure disastrose. Ha avuto alti, come la scelta di Barnes (una sorpresa al draft), e bassi. Ma, secondo me, la sua uscita è stata almeno in parte legata a ragioni economiche. Con la proprietà passata interamente ai Rogers e Keith Pelley CEO di MLSE, Toronto ha imposto tagli ai costi nei ranghi dei dirigenti. Ujiri non è stato una delusione, ma si è trovato in mezzo a un riassetto societario.
Già nel 2021, Doug Smith del Toronto Star scriveva: “Edward Rogers ha attivamente contrastato i piani per mantenere Masai Ujiri come head of the Toronto Raptors questa estate – sostenendo che non valesse la cifra offerta – e poi ha cercato di estrarre un beneficio straordinario per la sua stessa azienda” Forse la performance è stata solo un pretesto per puntare su un’opzione più economica.
Tra qualche giorno, qualcun altro porterà a termine il percorso iniziato da Ujiri. A Toronto si sono alternati diversi momenti con lui: l’era del titolo dal 2013 al 2020; poi, dal 2020 al 2022, un tentativo attorno a Siakam. Oggi siamo nella ‘terza era’, quella costruita su Barnes. Adesso il futuro è aperto, con molte scelte da compiere.
Quel che resta, però, è la sua eredità. Ujiri ha realizzato l’impossibile: ha dato speranza, orgoglio e stabilità a una squadra perduta. Ora scopriremo cosa resterà, e come la squadra saprà andare avanti senza di lui.