L’NBA brucia i suoi protagonisti, e con loro anche lo spettacolo.

I Playoff NBA sono, senza alcun dubbio, lo spettacolo sportivo più avvincente e coinvolgente al mondo. Nessun altro evento coniuga intensità, talento e dramma come una serie al meglio delle sette partite tra due squadre d’élite, costrette a studiarsi, adattarsi, superarsi.

E se qualcuno aveva bisogno di una prova, l’ha ottenuta con il primo posto a Ovest. Lo shot-making e i finali combattuti tra Nuggets e Clippers, le difese estreme di Rockets e Warriors e i Timberwolves che sovvertono ogni pronostico contro i Lakers di LeBron e Doncic.

C’era grandissima attesa per il secondo turno, che avrebbe dovuto rappresentare l’estasi finale di ogni appassionato. E dopo una settimana, ci troviamo con 3 serie su 4 decise o fortemente condizionate dagli infortuni.

I Cleveland Cavaliers hanno dovuto affrontare Gara 2 senza Darius Garland ed Evan Mobley, e sono ora alle prese con un problema alla caviglia per Donovan Mitchell. I Golden State Warriors, ora sotto 1-3, hanno dovuto rinunciare a Stephen Curry fin da Gara 1, con lo stiramento subito in una partita giocata nemmeno 48 ore dopo di Gara 7 contro i Rockets. I Boston Celtics, oltre all’eliminazione, rischiano anche di dover cambiare la programmazione del loro futuro, se l’infortunio al tendine d’Achille di Jayson Tatum dovesse essere confermato.

Sono ancora salve Thunder e Nuggets, che hanno però dato vita ad una Gara 4 orribile per almeno tre quarti, fortemente condizionata da un riposo di appena 35 ore dopo una Gara 3 decisa ai supplementari.

La Regular Season con le sue 82 partite è già, di per sé, una maratona disumana. Ma è nei Playoff che questo logoramento esplode con tutta la sua violenza. Se a febbraio i giocatori possono permettersi di abbassare l’intensità, di evitare un contatto, di rinunciare ad una corsa, ai Playoff questo non accade.

Ogni partita va giocata al 100%, e i minutaggi delle superstar toccano e vanno oltre quota 40. Il fisico viene torturato e, giocando ogni due giorni, cede. A noi spettatori rimane uno spettacolo mozzato, privato di alcuni dei suoi protagonisti migliori.

“È sempre stato così”

So già quali risposte arrivano a questo tipo di accusa. Il solito “È sempre stato così” accompagnato dall’immancabile citazione della resistenza di John Stockton. Ma purtroppo non è vero, non è sempre stato così. Il numero di partite è lo stesso, ma il gioco è cambiato.

Con spaziature più ampie il campo da coprire si è allargato, e i ritmi sono aumentati esponenzialmente rispetto agli anni ’90 e ai primi anni 2000. Si corre molto di più, in attacco e in difesa, e sono necessari più cambi di direzione e di velocità. Muscoli e tendini sono sottoposti a sollecitazioni che non sono neanche lontanamente paragonabili a quelle di 30 anni fa.

Non erano eroi allora, e non sono fannulloni oggi.

L’NBA si sta facendo un clamoroso autogol. Ha tra le mani il prodotto sportivo migliore al mondo. Non c’è bisogno di cambiare le regole. L’unico compito dei piani alti è quello di assicurarsi che le superstar possano essere in campo nella loro migliore forma fisica nei momenti decisivi, quei due o tre mesi che ogni appassionato attende con ansia per tutto il resto dell’anno.

Perché non si possono giocare meno di 82 partite? Si, c’è un contratto, ma perché non si può modificare? E soprattutto, perché non si può concedere qualche giorno di riposo in più durante i Playoff? La stagione finirebbe giusto un paio di settimane dopo.

Se l’NBA vuole davvero proteggere il proprio futuro, deve iniziare col proteggere i suoi protagonisti. Invece li brucia. E con loro, brucia anche lo spettacolo.


Around the Game è adesso anche un podcast, dove potrete approfondire l’NBA tramite le nostre voci 24 secondi alla volta… anzi, ripensandoci, per qualche minuto in più.