La retrospettiva di Mike Sielski, The Philadelphia Inquirer, sul percorso di Kobe Bryant da Lower Marion all’Olimpo del basket.

Questo contenuto è tratto da un articolo di Mike Sielski per The Philadelphia Inquirer, tradotto in italiano da Marco Marchese per Around the Game.
NDR: questo articolo è tratto dal nostro archivio e scritto in un periodo antecedente a quello della lettura.
Basta digitare su YouTube “Kobe Bryants highlights” per venire sommersi da dozzine di video con migliaia, o anche più, di visualizzazioni. Parecchi di questi video sono dei tributi o elogi, altri riportano delle interviste rilasciate dal Mamba, altri ancora, moltissimi, sono delle raccolte delle sue migliori giocate, tante da poter perdere intere giornate: schiacciate spettacolari, circus shot, buzzer-beater per un’incredibie vittoria all’ultimo istante…
Uno di questi video ha raggiunto e superato i 77 milioni di views. La sua durata è di 3 minuti e 8 secondi, e guardandolo si può intuire perché i colleghi abbiano sempre trattato Kobe con massimo rispetto e riverenza, gli stessi con cui verrà trattato al momento della sua introduzione alla NBA Hall of Fame.
Durante una partita tra Los Angeles Lakers e Orlando Magic, Kobe Bryant si è ritrovato a sgomitare, lottare e mettersi più volte le mani addosso con l’ala avversaria, Matt Barnes (uno dei suoi migliori in-your-face moments). Gli arbitri a un certo punto hanno fischiato un fallo tecnico a entrambi. A quel punto, Barnes ha continuato a stuzzicarlo, colpirlo, parlargli e provare in ogni modo a indurlo a reagire, prendere un altro fallo tecnico ed essere espulso.
Di colpo Barnes, sul punto di rimettere in campo il pallone, si trova faccia a faccia con Kobe. Anzi che passare la palla a un compagno, finge di tirare un bolide in faccia a Kobe.
Bryant, osservando fisso il suo avversario, ha reagito con un semplicissimo battito di ciglia. Forse.
Aveva raggiunto un distacco tale da non aver timore di doversi proteggere? No, l’opposto: da tempo aveva costruito una corazza a difesa da queste “tattiche” utilizzate per contrastarlo. In quel momento Kobe era totalmente immerso nel Gioco. Intoccabile, a prova di proiettile.
Un buon punto di partenza per raccontare il lungo viaggio di Kobe Bryant verso la Hall of Fame.
SICUREZZA NEI PROPRI MEZZI
Durante l’estate del 1993 è stata organizzata una serie di incontri e tornei a Philadelphia, città natale di Kobe, per professionisti e giocatori collegiali.
Tim Legler, ex studente di La Salle che aveva appena terminato il suo terzo anno in NBA, poteva facilmente trovare una buona partita da giocare, ovunque. I luoghi variavano spesso: Philadelphia Community College, Philadelphia Textile, Hayman Hall a La Salle, McGonigle Hall al Temple, Sporting Club. Le partite erano così popolari durante l’offseason che lo staff dei Sixers era costretto ad allestire delle postazioni attorno ai campi per i giocatori.
Legler, in procinto di fasciarsi la caviglia col nastro, ha visto “questo ragazzo alto e un po’ gracile, ma atleticamente un cavallo pazzo.”
“Who is this guy?” – chiese Legler, e qualcuno gli rispose prontamente: “Kobe Bryant, il figlio di Joe Bryant. È un freshman alla Lower Marion.”
Legler non poteva credere alle sue orecchie… un freshman!
“Era lì per giocarsela e dimostrare il suo valore. Il suo livello di sicurezza nei propri mezzi era totalmente fuori dal comune per un ragazzo di 15 anni. Voleva assolutamente sfidare gli altri in campo. Non era un raccomandato, messo in campo solo perché figlio di Joe Bryant, per fargli un favore. Anzi.Già si vedeva il primo Kobe, in questo ragazzino che scendeva in campo a testa alta lottando per dimostrare il suo valore. Tutto questo sarebbe stato ampiamente riconosciuto in futuro, ma a quell’età non si poteva ancora saperlo. Tutto ciò che sapevo già quel giorno era che non avevo mai visto nessuno a quell’età possedere una tale consapevolezza dei propri mezzi.”
(Tim Legler)
Ogni weekend di quell’estate Legler è andato a giocare sulla spiaggia, ai campetti tra l’8th e Dune ad Avalon, contro i Big 5 Guys ed altri giocatori del college. E di tanto in tanto, uno o due ragazzini si univano a loro. Ha spesso visto nei loro volti la paura di giocare contro dei professionisti veri, e ha sempre pensato a “quel quindicenne, un po’ gracile”, che non aveva alcun timore…
Durante la stagione da freshman del futuro Black Mamba, Lower Marion ha avuto un record tutt’altro che positivo. 4 vittorie 20 sconfitte.
Guy Stewart, ex amico e compagno di squadra di Bryant, ha raccontato così la sua annata:
“A volte andavamo a guardare dei film, ma Kobe rimaneva sempre ad allenarsi in quel campetto. Era costantemente, COSTANTEMENTE a lavoro, e grazie a questo è migliorato in modo incredibile. Ha avuto un assurdo balzo in avanti dal primo anno al secondo. C’erano evidenti segni di miglioramento già in estate, e durante la stagione successiva la sua crescita era sulla bocca di tutti.Narberth Summer League, Ardmore Summer League, nei campetti per strada: ovunque era possibile osservare il suo duro lavoro per ampliare e migliorare il suo gioco. Tutto gli era più facile, ora. Jump shot, ball-handling. Ogni anno migliorava, e pure vistosamente.”

“PASSATEMPO”
Anthony Gilbert era uno studente di Temple a metà degli anni ’90, quando ha incontrato Sharia Bryant, giocatrice di pallavolo in maglia Owls, insieme al suo fratello minore.
Anthony e Kobe hanno subito legato, ma nonostante ciò, ad ogni “Hey amico, andiamo a South Street, magari incontriamo qualche ragazza e usciamo con loro”, Kobe avrebbe sempre risposto di no. Preferiva allenarsi e lavorare su come migliorare il suo gioco. “Ci vedevamo sempre e solo nei campetti o in palestra”, ha scritto Gilbert, autore SLAM Magazine.
Andavano spesso al Tustin Playground, nei pressi della Overbrook High School, al Jewish Community Center, a Wynnewood o ad Ardmore Park. Questo per Bryant era il “passatempo”: jumper, pull-up, tiri da tre, corsa, lavoro sul footwork. Giorno dopo giorno, allenamento dopo allenamento, sempre su quei campetti.
Gilbert ha avuto due grosse responsabilità: raccogliere tutti i rimbalzi e, su istruzione di Kobe, incitarlo o insultarlo a gran voce mentre tirava.
“Sei bravo, ma non giochi in NBA.”
“Vai ad una scuola per bianchi.”
“Non c’è competizione in periferia.”
IL LABORATORIO DI KOBE
Durante le stagioni da junior e senior, gli allenamenti della Lower Marion iniziavano alle 5:30 del pomeriggio. Visto che di solito arrivava alle 6 del mattino (costringendo il custode a dovergli aprire la palestra, e un compagno ad allenarsi con lui), Kobe trascorreva circa 12 ore a scuola, prima delle due ore di allenamento.
Dopo, coach Gregg Downer e uno dei suoi assistenti, Mike Egan, giocavano a H-O-R-S-E o Around the World coi giocatori. Tutti, escluso Kobe.
“Kobe aveva il suo laboratorio. Quella palestra era il suo mondo, dove lavorava sul suo gioco e il suo footwork. Fino a quando noi dicevamo: ‘Ok, dobbiamo andar via.’Nessuno lo ha mai disturbato in quei momenti, neppure andando a chiacchierare con lui. Lavorava su un singolo movimento per 15-20 minuti, una cosa unica per un ragazzo di quell’età. Ogni tanto gli gridavamo: ‘Dai Kobe, vieni qui, non aver paura’, e lui ci rideva su. Non bisogna sorprendersi che abbia meccanizzato perfettamente certi movimenti: ci ha lavorato per anni, dedicandosi ogni giorno e ripetendoli all’infinito. Non era casuale, sapeva cosa stava facendo.”
(Mike Egan)
LA SUA VETRINA
Nel dicembre 1995 Lower Marion ha vinto due delle tre partite al Beach Ball Classic, un torneo prestigioso tenuto al Myrtle Beach Convention Center. Il palazzetto conteneva 7’500-8’000 spettatori, una folla enorme per un torneo collegiale, al quale hanno preso parte cinque futuri giocatori di NBA, inclusi Jermaine O’Neal e Mike Bibby.
Kobe Bryant in quell’occasione ha segnato 117 punti (43 nella prima partita, 31 nella seconda, 43 nella terza): fino a quel momento, la striscia di partite più prolifica di tutta la sua carriera.
“Dovevamo ancora vedere le giocate di Kobe contro i migliori team della nazione”, ha detto Omar Hatcher, allora ala della Lower Marion. “Ma ha mostrato a tutti che il suo sarebbe stato un lungo viaggio…”
COSA HA RESO KOBE DIVERSO DAGLI ALTRI
Kobe Bryant ha vinto il titolo di MVP della Regular Season nel 2008. Ha vinto il suo quarto anello coi Lakers nel 2009, e poi il quinto nel giugno 2010.
Il momento citato a inizio articolo, che vedeva Matt Barnes co-protagonista, è avvenuto in quello che ragionevolmente può essere l’apice della carriera di Kobe, il periodo in cui era considerato il miglior giocatore in circolazione. Ci sono pochi giocatori che possono reclamare questo titolo, e ciò che separa Kobe Bryant dalla maggior parte di essi, se non da tutti, è il modo in cui ha plasmato sé stesso fino ad essere un giocatore di quel calibro. Non ha avuto bisogno di alcuna “madre apprensiva” che lo motivasse, non ha mai battuto ciglio quando gli si parlava di allenamenti e duro lavoro.
Da adolescente non riusciva a tenere bene in mano la palla da basket (e la sua mano è rimasta comunque una mano di “taglia media” per gli standard NBA), perciò ha lavorato duro per affinare i fondamentali e togliere le imperfezioni.
Molti dei video sopracitati mostrano The Black Mamba mentre mette dentro jumper, fadeaway e appoggi a canestro impossibili per tutti, ma non per lui, grazie a quei movimenti, del corpo e soprattutto dei piedi, utili a mantenere sempre uguale la sua shooting form. “Kobe passerà alla storia come il giocatore col miglior footwork che si sia mai visto”, secondo Tim Legler.
“Non è una caratteristica innata. Deve diventare un’abitudine, una reazione istintiva in un determinato momento. Non si può perder tempo a pensarci su, si tratta di memoria motoria, ripetizioni che il corpo ha assimilato e con cui reagisce. Si tratta di una cosa per cui bisogna essere ossessivi, andando in palestra a curando i minimi dettagli.”
(Tim Legler)
Questo weekend Kobe Bryant entrerà nella Hall of Fame. Sarà una cerimonia triste e amara, inevitabilmente, in cui si celebrerà quell’atleta ultra-competitivo che poteva guardare Matt Barnes che lo minacciava di frantumargli il naso… senza muovere un muscolo.