Sin dai tempi del College, la carriera di Jimmy Butler è sempre stata avvolta da un’aura di dubbio. Spinto dalla volontà d’animo di una storia personale non semplice, ha saputo utilizzare queste riserve come motivazioni. Fino alla consacrazione.
ATTO PRIMO
“Il nativo del Texas non è certo un atleta mostruoso, o il tipo di giocatore che si può spesso ammirare negli highlights della notte di ESPN.
Non ha il pedigree di una futura All-Star.
Le sue qualità fisiche sono abbastanza nella media, e deve ancora sviluppare alcune parti del suo bagaglio tecnico.
Soprattutto l’incisività del suo tiro da dietro l’arco, per massimizzarne il valore.
Detto questo, quando si guarda ad un giocatore come Butler, che gioca semplicemente per vincere, non si possono sottovalutare le sue notevoli qualità “nascoste”: è in grado di fare tutte quelle piccole cose fondamentali per aiutare la propria squadra, ed è molto importante sottolineare quello che PUO’, prima di condannarlo per quello che NON PUO’”.
Punto. E a capo.
Una manciata di righe, per descrivere un prospetto di relativo conto.
Una scelta da secondo giro. O al massimo ben in fondo al primo.
Uno di quei “Sì” con a seguito diversi – e gravosi – “Ma” di cui un qualsiasi foglio di scouting report pre-Draft NBA riguardante una scelta dopo la 15 è costellato: Jimmy Butler era un buon giocatore di squadra, ma nulla di eccezionale.
Soprattutto se paragonato al fantascientifico sapere cestistico della futura prima scelta: un freshman da Duke di nome Kyrie Irving, che pareva avesse concluso il suo colloquio con il front office dei Cleveland Cavaliers interrogando lui stesso i suoi esaminatori.
201 cm. 99 kg.
Tecnicamente un’ala piccola.
In grado però di portare palla da point guard o aiutare quest’ultima nello sviluppo del gioco.
In sostanza un giocatore capace di coprire tutti i ruoli dall’1 al 3, dotato anche di un discreto gioco spalle a canestro.
Un ibrido che molti allenatori sanno apprezzare.
Eppure non era abbastanza.
Come non erano stati abbastanza i 19.9 punti e gli 8.7 rimbalzi di media nell’anno da Senior a Tomball Highschool, liceo della sua città Natale. Ai quali si aggiunse l’inserimento nell’All-District first team.
Per far sì che i college più importanti drizzassero le antenne.
Servì un anno in purgatorio, nel Tyler Junior College, lontano dai fasti e dai riflettori dell’NCAA, della pallacanestro collegiale che conta.
Lì era un giocatore nettamente fuori quota, un cowboy texano forgiato sull’asfalto dei playground da prestazioni monstre – 34 punti all’esordio. L’unico modo di urlare la propria indignazione era far parlare il suo gioco.
E, letteralmente scosse per le spalle, alcune università fecero pervenire la loro lettera di reclutamento con annessa borsa di studio.
Marquette fu la più convincente. Era il 2008.
“Senta, non voglio essere scortese, ma mi capisca. Il Draft, i colloqui… onestamente non saprei che fare riguardo questa intervista”.
Focused on. One day at a time, un giorno alla volta.
Quando Chad Ford di ESPN lo aveva contattato per rilasciare un’intervista, sapeva già chi si sarebbe trovato di fronte.
Conosceva la sua storia e la ammirava.
Stimava quel ragazzo dai modi timidi e apparentemente titubanti fuori dal campo, ma incredibilmente risoluto sul rettangolo di gioco.
Ford era uno dei giornalisti al seguito del circus che girava attorno al Draft. Il suo compito era quello di tracciare profili interessanti e accattivanti dei ragazzi che sarebbero poi stati protagonisti della notte delle scelte. Ma la sua attenzione era stata rapita da quel 22enne di Tomball: un veterano, se confrontato ad altri prodotti pronti a fare il grande salto tra i pro.
Si era speso per chiedere informazioni sul suo conto ad addetti ai lavori che avevano avuto il piacere di venire in contatto con lui. Un GM gli aveva fatto una confessione:
“Mi stia a sentire: la sua storia è una delle più notevoli che abbia mai sentito in tutti i miei anni di lavoro.
Ci sono stati così tanti momenti in cui tutto sembrava essere stato perfettamente allestito perché lui fallisse… eppure ogni volta si è superato, è andato oltre. Contro ogni pronostico.
Mi dia retta: quando parlerà con lui – e solitamente esita a parlare del suo passato – avrà come la sensazione che dentro questo ragazzo ci sia qualcosa di più. La Grandezza”.
Ford era rimasto rapito.
Dalla descrizione e dal suo modo di vivere. Focused on. One day at a time.
Lo aveva seguito nei suoi workout: li aveva descritti come “stellari”.
Lo aveva visto vincere il premio di MVP al Portsmouth Invitational.
Aveva osservato ogni suo movimento alla pre-Draft Combine di Chicago.
Non era il primo giocatore dal passato problematico di cui avesse sentito parlare. Alcuni dei più grandi talenti della Lega provenivano da vicissitudini personali tutt’altro che rosee. Eppure aveva apprezzato nei suoi occhi qualcosa di più: una scintilla, una missione.
“La NBA è un successo solo mio. Ma ancora non vi sono arrivato, quindi non posso assolutamente smettere di essere focalizzato su di essa”.
Alla fine Jimmy aveva accettato.
Aveva proposto a Ford di parlare da una camera d’albergo, a Cleveland.
Questa volta un “Ma” lo aveva insindacabilmente posto lui.
“Per favore, so che scriverà un pezzo su di me. Le chiedo solo una cosa: non lo scriva in maniera tale che le persone si sentano tristi per me.
È una cosa che davvero non tollero, né sopporto. Non c’è niente da compatire. Io amo ciò che mi è successo. Capisce?
È ciò che mi ha fatto diventare quello che sono ora. Sono grato per le sfide che ho dovuto fronteggiare. Quindi, per piacere: non mi faccia compatire.”
Il giornalista ascoltò le sue parole in silenzio. Pieno di rispetto. Comprese la loro importanza in maniera profonda.
Non era stata la pietà a portarlo sino alla notte delle scelte.
Era stato il coraggio.
Eppure il primo anno di NCAA fu il secondo girone della montagna del Purgatorio.
19 minuti scarsi di impiego, con 0 apparizioni dall’inizio.
Alcune partite seduto per l’intero quarto periodo.
5.9 punti di media, cui si aggiungevano 3.9 rimbalzi e 0.7 assist.
Di certo non il giocatore su cui coach Buzz Williams puntasse di più. Soprattutto se paragonato al trio Jerel McNeal – Wesley Matthews – Lazar Hayward, che con i rispettivi 20+4+4, 18+6+2 e 16+9+1 garantirono quasi da soli per l’intera stagione dei Golden Eagles.
Era un Sophomore.
Dopo che Coach Williams lo aveva personalmente reclutato, si sarebbe aspettato qualcosa in più.
“Michelle. Voglio tornare a casa”.
La voce mesta attraversò il ricevitore e giunse alla signora Lambert, madre del suo amico fraterno Jordan Leslie.
E non solo.
Michelle Lambert fu colei che, a tredici anni, lo raccolse dalla strada.
Dopo che la sua madre biologica – Londa Butler – decise che la sua “espressione” in volto non le fosse più gradita. Mettendolo letteralmente in mezzo ad una strada. Solo.
“Te ne devi andare”.
Conobbe Leslie ad un playground.
Diventò prima suo amico, poi suo fratello.
“No Jimmy. Resti. Perchè questo è ciò di cui hai bisogno.
Per crescere. Per maturare.”
Michelle aveva avuto Jordan e altri tre bambini da un precedente marito. Era rimasta vedova, sola, con quattro figli a carico. S’era rimboccata le mani, facendo emergere una volontà d’animo prima d’allora persino a lei nascosta. S’era risposata e aveva accolto i tre figli del nuovo marito.
Jimmy fu l’ottavo. Perché come tale iniziò a trattarlo.
E Butler a considerare i suoi consigli come materni.
Rimase.
E dovette lavorare sodo per trovare la chiave di volta, perché non c’era nessuna pietà ad attenderlo.
“Non sono mai stato così tanto duro con un giocatore di quanto lo sia stato con Jimmy. Sono stato spietato, perché sembrava quasi non si rendesse conto di quanto potesse essere forte. Per tutta la sua vita si era sentito dire che non era abbastanza.
Non era bravo abbastanza.
Non era forte abbastanza.
Quello che vedevo io era un giocatore che poteva avere un impatto sulla nostra squadra potenzialmente devastante”.
Ma si trattava di crescere.
E Coach Williams era lì per quello. Per limare quel diamante grezzo e renderlo qualcosa di più di un semplice go-to-guy.
Jimmy non era fatto per quarantelli nell’arida desolazione delle sconfitte.
Era fatto per il passaggio giusto. Per una difesa granitica quando le bizze di una partita dovevano essere domate. Per un rimbalzo offensivo sulle spalle del lungo avversario.
Era fatto per essere una Guida: per essere la luce degli altri quattro in campo.
Ogni parola, ogni sillaba udita lo convinse: Ford capì di essere di fronte a qualcosa di più di un giocatore da 15.7-6.1-2.3 di media.
“Vede signor Ford, sono stato cresciuto dai migliori.
Quei ragazzi mi hanno insegnato come giocare e come diventare un uomo.
Dovevo essere qualcosa di più di un semplice scorer. Sentivo di dover diventare un leader.
Non si tratta semplicemente di segnare, capisce? Si tratta di fare nel momento giusto ciò di cui ha bisogno la squadra.
Ora che mi sto affacciando ai pro, voglio essere quello che sono stato per coach Williams.
Voglio essere il collante.
Voglio diventare colui su cui il mio coach, la mia squadra possono contare. È questo che voglio”.
La conversazione si chiuse con un pensiero proiettato al futuro, sorretto dalla consapevolezza.
“Al liceo mi dissero che ero troppo basso e lento per giocare.
Ma non conoscevano la mia storia. Nessuno.
Perché se avessero saputo, avrebbero capito che tutto è possibile.
D’altronde chi avrebbe mai pensato che quel ragazzetto smagrito sarebbe potuto diventare un dignitoso giocatore collegiale con la chance di entrare nella NBA?
È questa la mia scintilla. Ciò che più mi motiva.
So che posso passare sopra tutto… se l’affronto un giorno alla volta”.
Sperava che gli dessero una chance.
Nessuno gli aveva mai concesso una sola occasione al primo colpo. Aveva lavorato ossessivamente perché l’occasione del Draft rappresentasse l’eccezione. Col sudore. Le ore in palestra, a smussare il palleggio, a lavorare sul tiro. Le sessioni in sala pesi, per rafforzare il suo corpo e potenziare le gambe. Convinto che un giorno un suo rimbalzo, una sua difesa avrebbero fatto la differenza.
La sera del 23 giugno 2011 nè lui nè nessun membro della famiglia Lambert presenziò in ghingheri al Prudential Center di Newmark.
Jimmy raggiunse la sua casa a Tomball, per attendere il suo futuro in famiglia.
La prima chiamata era già stata sentenziata dagli indovini di mezza America.
I Cleveland Cavaliers scelsero Kyrie Irving.
Di lì in poi l’attenzione fu catturata da un inaspettato protagonista: un semisconosciuto giornalista di Yahoo! Sports che spoilerò, scelta per scelta, le successive 20-25 pick. Prima nota d’improvvisazione in una serata ricca di colpi di scena.
I Cavs, per i quali aveva svolto un ottimo workout, avevano anche la quarta chiamata.
Avendo già scelto una G, si buttarono sulla F canadese Tristan Thompson.
Non rimase particolarmente deluso: sapeva di non essere da top 10.
Arrivati alla 11, nella Baia si udirono i pop di alcuni tappi.
Per l’intero Draft il front office degli Warriors aveva tenuto le dita incrociate.
Si erano convinti che, nonostante il solo anno a Washington State, il tiro mortifero di Klay Thompson dovesse essere assolutamente aggiunto al già ben nutrito arsenale offensivo offerto da Stephen Curry.
“With the 15th pick of the 2011 NBA Draft, the San Antonio Spurs select… Kawhi Leonard from San Diego State”.
Leggenda volle che Gregg Popovich fosse giunto nell’ufficio di RC Buford munito di uno straccetto e avesse cancellato dalla lavagna l’intera lista di papabili scelte proposte dalla dirigenza.
Per scrivere poi, in caratteri cubitali, “KAWHI LEONARD” , sottolineato due volte.
Ovviamente col benestare di Duncan.
Per convincerlo non c’era voluto molto: il ragazzo univa ad un talento notevole un’etica del lavoro ai limiti dell’ossessione – che portò non pochi grattacapi persino al custode della palestra di San Diego State. Una notte la sua attenzione fu colta da una luce proveniente dalla sala macchine. Convinto di incappare in dei malviventi, fece irruzione nella stanza… per trovarsi di fronte Leonard intento a sollevare un bilanciere zavorrato, e non di poco.
Lo stupore invase i suoi occhi. Il luccichio di un brillante futuro sarebbe poi comparso invece in quelli di Pop.
Alla 25 scelsero MarShon Brooks.
Le loro carriere si erano incrociate in duello quell’anno. Nella partita della Big East tra Marquette e Providence.
Brooks era un attaccante spaziale: sapeva segnare in penetrazione, aveva tiro da fuori – pregevole per esecuzione ed efficacia – e un trattamento di palla considerevolmente evidenziato nei vari scouting report. Più agile, più veloce.
Tutte qualità che furono ovattate da una difesa magistrale di Butler, elogiata da uno scout NBA in un’intervista rilasciata ad ESPN dopo il match.
Brooks chiuse la propria a gara a quota 20 punti, conditi da 3 assist e 3 rimbalzi.
Il tabellino di Butler alla sirena finale recitò 19-10-8, con 2 rubate, 5/8 al tiro, 1/1 da 3 e 8/10 ai liberi; contro il 7/18 complessivo di MarShon. Nella vittoria di Marquette per 87 a 66.
Eppure Butler rimase ancora una volta fuori.
Brooks, invece, finì ai Nets.
Prima di trovare il suo nome nella proiezione pre-draft di Bleacher/Report di qualche giorno prima, si doveva arrivare alla 45esima spunta.
“Può fare semplicemente qualunque cosa, che sia penetrare, tirare da tre o difendere in modo solido. Tuttavia si scontra col classico problema di questo tipo di giocatori: quale può essere il suo ruolo in una lega come la NBA?”
Il suo ruolo. Un quesito così intricato da sembrare un enigma.
Sì. Ma.
“Ma” che fecero scorrere le pick, fino quasi ad affievolire la speranza.
Nel salotto di casa, Jimmy si sforzava di non cedere il passo alla rassegnazione. Meritava un posto. Lo aveva dimostrato.
Senza “Ma”. Con molti “Sì”.
Sentiva di meritarlo dall’entrata principale. Ma se anche avesse dovuto usare la porta sul retro, avrebbe comunque utilizzato l’ennesima prova di sfiducia per motivarsi.
Per passarci sopra.
B/R lo aveva dato alla 15esima del secondo giro.
I Chicago Bulls di Derrick Rose decisero di chiamarlo alla 30esima. Del primo, sulla sirena finale.
L’ironia della sorte lo fece entrare nella Lega con l’abito del Clutch Player.
Che, in futuro, avrebbe scoperto essere fatto su misura per lui.
Le lacrime rigarono il volto di Michelle.
“Jimmy parla sempre di quello che abbiamo fatto per lui.
Non credo si renda esattamente conto di quello che ha fatto LUI per noi. Ci ha cambiato la vita. E accogliendolo nella nostra famiglia siamo divenute persone migliori”.
Gli abbracci.
Era l’inizio di una via impervia ma che sentiva di voler affrontare in prima fila. One day at a time. Era risoluto a far parlare di sé come una delle più grandi steal of the Draft degli ultimi anni.
ATTO SECONDO
“Le nostre aspettative sono quelle di vincere. Questo è ciò che mi ha portato qui.
Questi ragazzi hanno moltissimo talento. Sono qui per far sì che essi siano messi nelle condizioni di esprimere al meglio le loro qualità. È il mio obiettivo.
Qualcuno dovrà addossarsi le colpe dei fallimenti, delle sconfitte. Sono qui per questo. Sarò io quel “qualcuno” e non ho assolutamente alcun problema al riguardo. Così come non avrò problemi con le critiche: tutti hanno diritto ad avere la propria opinione.
Ah, a proposito. Chiunque avrà qualcosa da dire riguardo il mio essere leader – riferito alle polemiche sulla sua figura nello spogliatoio dei Bulls (ndr) – qui c’è il mio numero.
Mi chiami pure quando vuole.”
Un biglietto da visita fresco di stampa.
In un giugno 2017 che di fresco aveva poco o nulla.
Si presentò così alla folta platea di giornalisti accorsi al Mall Of America per la sua presentazione in maglia Wolves, alle porte di Minneapolis.
La Città dei Laghi era stanca.
Quello appena concluso era stato il tredicesimo anno senza apparizioni nella post season.
L’ennesima stagione partita carica di aspettative e hype per un gruppo di ragazzi giovanissimi che sprizzava talento da ogni poro, ma che ancora non era riuscito a trovare la retta via.
L’arrivo – o ritorno – di coach Thibodeau l’anno prima aveva però schiarito l’orizzonte.
Thib era noto per la cultura del lavoro e per il marchio di fabbrica impresso alle sue squadre: la difesa.
Allenatore dell’anno nel 2010-2011, sotto la sua guida Chicago era divenuta una squadra di grande caratura ad Est. E Derrick Rose aveva raggiunto il titolo di MVP.
Un allenatore di qualità forti per dare mentalità vincente all’organizzazione e al progetto.
Fu lui che lo aveva voluto a Chicago.
Fu lui che lo volle ai Wolves.
Da che prese Jimmy sotto la sua ala protettiva ai Bulls sino al suo licenziamento nel 2015 – con non poche polemiche – Thibodeau lo aveva trattato in maniera dura ma paterna.
Allevandolo. Preparandolo. Dandogli un imprinting che non avrebbe mai più dimenticato.
E di fronte s’era trovato una spugna, pronta ad assorbire qualsiasi cosa utile, da lui e dai compagni di squadra.
La sua crescita a Chicago era stata costante.
Per minuti e numeri. Ma soprattutto per incisività.
Complici i gravi infortuni di Rose, la squadra si ritrovò pian piano a pendere dalle sue mani.
Per anni si era preparato a quel momento.
In silenzio.
Leader non si nasce. Lo si diventa.
One day at a time.
Il 2015 fu la sua consacrazione.
Coach Thib ci aveva creduto sin dall’inizio: gli affidò solennemente le chiavi e il cuore emotivo della squadra.
Le prese con l’umiltà che popola l’animo di chi era cresciuto considerato sempre come da meno, non abbastanza.
Arrivò la convocazione all’All Star Game, e da lì in poi non avrebbe più mancato una partita delle stelle.
Oltre che il premio di Most Improved Player a fine stagione.
Iniziarono a non esserci più “Ma”.
Soltanto “Sì”.
Quello stesso anno nella post season toccò i 23 di media, cui accompagnò 5.6 rimbalzi, 3.2 assist e quasi 3 palle rubate a partita.
In una stagione conclusasi alle semifinali di Conference contro gli ingiocabili Cleveland Cavaliers e con il benservito a Thibodeau.
Mai digerito. Né perdonato.
Ma le sue ali erano abbastanza forti per volare da solo: proseguì la sua crescita esponenziale, sino ad arrivare al 2017, anno più prolifico della sua carriera in ogni voce statistica – 23.9 + 6.2 + 5.9 + 1.9.
Dimostrando chi fosse. Facendo ricredere tutti.
Fino a che Coach Thibs non lo contattò dal training center dei Minnesota Timberwolves.
“Avremmo un progetto. Vorremmo fosse vincente. Ho bisogno di te”.
Entrò nella Lega avvolto dal dubbio: “Sarà abbastanza?”
E’ stato protagonista di una delle trade più importanti degli ultimi 5 anni. Perché da dubitato era divenuto rispettato. Necessario per vincere. Necessario per la sua cultura, la sua etica.
Che nell’ultimo anno a Chicago non sempre era stata compresa da un gruppo – a sua stessa detta – “troppo soft”.
Quella stessa estate iniziò immediatamente a lavorare con KAT.
Al training camp si impose come esempio.
Il primo ad arrivare.
L’ultimo ad andarsene.
Affamato.
Come un Lupo.
One day at a time.
Gli occhi al futuro, conscio che le avversità che avrebbe incontrato lo avrebbero rafforzato.
Ancor di più.
“Ciò nonostante, per qualsiasi franchigia che lo sceglierà, Butler sarà una sorpresa. È un giocatore grandioso, e un leader ancor più straordinario.
Vedrete che saprà, pian piano, affermare la propria presenza anche tra i Pro”.
Conclusione dello scouting report di Bleacher/Report su Jimmy Butler.
20 giugno 2011.