Come un uomo, alto come un bambino, sia entrato nella leggenda di questo Gioco, superando infiniti ostacoli solo attraverso il cuore, il lavoro costante e una convinzione unica nei propri mezzi. La storia di Muggsy Bogues.

Non si può insegnare l’altezza, diceva Red Auerbach.

Da più di 30 anni ormai, l’altezza media dei giocatori che militano nella NBA è sostanzialmente stabile, aggirandosi attorno ai 201 cm.


Nel basket più che in ogni altro sport, la massima della leggenda dei Celtics è tanto vera quanto crudele nei suoi riscontri pratici: se si prendono due giocatori con un bagaglio tecnico simile, quello più alto sarà sempre più avvantaggiato.

È la natura, bellezza, e non ci si può fare niente. Oppure sì? In fondo non mancano esempi di giocatori con altezze e fisici più “normali” in grado di fornire prestazioni eccezionali, se non addirittura di dominare il Gioco, che del resto con l’esplosione dello small ball e l’allargamento del campo è venuto maggiormente incontro ai piccoli di tutto il mondo.

Resta da capire quale sia la soglia psicologica per definire “piccolo” un giocatore: diciamo che una buon compromesso, date le statistiche, potrebbe essere il metro e ottanta e attorno a questa misura si sono visti tanti eroi calcare i parquet di tutto il mondo con ottimi risultati, dai Damon Stoudemire ai Nate Robinson, dai Calvin Murphy agli Isaiah Thomas.

Ecco: rispetto ai sopracitati, ora scendete di venti centimetri circa, arrivando a un metro e 60, altezza media solitamente dei ragazzini di 12 o 13 anni.È da questa altezza che Tyrone “Muggsy” Bogues ha osservato il mondo per tutta la sua esistenza, un’esistenza che sarebbe di per sé piuttosto scomoda per un qualunque lavoratore in settori più canonici. Ma che diventa follia pura se il proprio mestiere consiste nello scontrarsi ogni sera con giganti di almeno 40 centimetri e 30 chili in più.

“Ho semplicemente fatto il massimo con quello che Dio mi ha dato, ho imparato a usare il mio corpo al meglio delle mie possibilità. L’approccio al Gioco non dovrebbe mai cambiare, indipendentemente dall’altezza. Per me non è mai stato un problema, non sono un grande fan dei se e dei ma…”

L’infanzia e l’adolescenza di Muggsy Bogues sembrano uscite direttamente dalla prima stagione di The Wire, probabilmente la migliore serie TV mai prodotta.

Chi non ne avesse mai sentito parlare provveda subito, lasciando in sospeso qualunque altro show stesse guardando in questo periodo: a confronto del capolavoro ideato da David Simon risulterà solamente una perdita di tempo.

The Wire racconta, con uno stile asciutto, quasi documentaristico, la crisi della città di Baltimora, uno dei tanti nuclei caldi degli Stati Uniti in cui la lotta tra Stato e malavita ha raggiunto dei picchi da vera e propria guerra civile, mostrando come la diffusione endemica della droga, la povertà, le difficoltà della classe operaia e la corruzione nelle istituzioni stiano distruggendo il sogno americano.

Lo fa senza pietismi e senza offrire facile soluzioni: nella vita vera non c’è nero o bianco, esiste un’infinita gamma di sfumature che vivono nei personaggi della serie, che siano spacciatori di strada o poliziotti, tutti messi a dura prova dalle difficoltà che Baltimora pone davanti a loro.

La capitale de facto del Maryland è ormai da moltissimi anni una delle città più complicate degli States, con un tasso di omicidi e di criminalità generale ben al di sopra della media nazionale – in un paese che non è esattamente la Svizzera…

In un contesto del genere, crescere non è scontato. La famiglia Bogues, ad esempio, vede papà Richard schiavo del crack a tal punto da arrivare a commettere una rapina a mano armata per racimolare qualche soldo a sostegno della sua dipendenza – risultato: una condanna a vent’anni – e mamma Elaine costretta a crescere da sola i 4 figli, di cui il più vecchio, Chuck, è già sulle orme del padre alla tenera età di 14 anni.

Il più giovane dei figli si chiama Tyrone: a 5 anni sta giocando per strada vicino alle case popolari di Lafayette Courts, East Baltimore, quando tra due gentiluomini nelle vicinanze scaturisce uno scontro a fuoco. Il piccolo Ty viene ferito al braccio destro da una pallottola vagante, fortunatamente in modo non grave: questo avvenimento cambia per sempre il corso della sua vita, dandogli una forza interiore già dalla tenera età. Una forza che non lo lascerà mai più.

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Difficile crescere, dicevamo: per Apple, questo il suo primo soprannome, lo è anche fisicamente.

A 10 anni sostanzialmente smette di svilupparsi, rimanendo bloccato per sempre sui 160 cm.

“Io non ho ricordo di essere mai cresciuto…ero 160 cm alle elementari , così come al liceo, incredibile! Pensavo che mia madre mi avesse partorito così…”

La notte di Natale del 1974 è un altro momento chiave della sua vita: la nonna gli regala un pallone da basket, che da quel giorno diventa un prolungamento della sua mano. Sulle strade di Baltimora, i playground sono come delle no fire zone, un tempio dove i ragazzi possono sfogare tutta la rabbia e le frustrazioni accumulate nelle loro giornate così complesse.

“Avevo un solo obiettivo: uscire dal mio quartiere, farcela. Non ho mai perso di vista questo proposito, e il basket mi è sembrato una buona strada”.

Tyrone, nonostante sia sempre il più piccolo in campo, si staglia nettamente sugli altri, quali che siano i suoi avversari. È impossibile togliergli la palla, grazie a un ball-handling celestiale; è impossibile contenerne la straripante velocità e la conseguente imprevedibilità; in difesa è un mastino insopportabile; inoltre dimostra una predisposizione genetica a far segnare i compagni e a guidare le squadre di cui fa parte.

“Era uno spasso, vedevo tutti guardarmi e ridere, pensavano di poter approfittarsi della mia altezza. Ma poi la partita cominciava e la realtà era ben diversa, forse erano addirittura svantaggiati, visto che la palla era quasi sempre più vicina a me che a loro. Sapevo di cosa ero capace e adoravo vedere le loro facce stupite”.

Un vero leader naturale.

Nasce qui il soprannome Muggsy, nome del capofila dei The Bowery Boys, uno show televisivo molto popolare all’epoca che raccontava le vicende di una banda di ragazzi .

Bogues sbarca al liceo Dunbar, dove risulta essere un ottimo studente e un giocatore devastante. La squadra di cui fa parte è un tesoro nazionale, forse la squadra liceale più forte della storia degli USA: oltre a lui, in quintetto ci sono David Wingate e Reggie Williams, campioni NCAA con Georgetown nel 1984 ed entrambi con una carriera decennale in NBA, e il compianto Reggie Lewis, talento mostruoso, All-Star nel 1992 con i Boston Celtics, stroncato a soli 27 anni da una malformazione cardiaca.

I Dunbar Poets chiudono due stagioni consecutive da imbattuti, con due titoli nazionali, exploit mai più raggiunto da nessuna high school. Nonostante i clamorosi successi, agli occhi degli scout Muggsy resta comunque un giocatore di 160 cm, troppo piccolo per avere una carriera professionistica e dunque uno spreco per una scholarship sportiva.

Ma se c’è una cosa che Bogues ha imparato fin da piccolo è che chiunque gli dica che non può farcela non merita la benché minima attenzione. La sua concentrazione, la sua motivazione e la sua competitività sono le uniche cose che contano.

“Mia madre me l’avrà ripetuto milioni di volte, mettendomi una mano sulla spalla – Andrà tutto bene, Ty: non devi mai dubitare del disegno di Dio – . Tutto è possibile nella vita, basta credere in se stessi, essere determinati e avere dei modelli a cui ispirarsi”.

L’unica università a farlo sentire davvero desiderato, nonostante qualche timido interessamento di altre scuole, è Wake Forest, che decide di offrirgli una borsa di studio nell’estate del 1983. Da parte di analisti ed ex-alumni si alza un coro di dubbi sul fatto che una point guard di 160 cm possa essere la guida dei Demon Deacons; ma come ha fatto per tutto il corso della sua vita, a Bogues basta poco per trasformare la diffidenza in stupore: giusto il tempo di una palla a due, un’azione offensiva e una difensiva.

Dopo una prima stagione da comparsa, si fa spazio in quintetto mostrando tutte le sue abilità di PG e assist man. Nell’anno da junior migliora tutte le voci statistiche, con oltre 11 punti, 8 assist e 3 rubate a uscita. Nell’anno da senior i punti diventano quasi 15, gli assist quasi 10, leader della ACC, venendo inserito nel miglior quintetto della stessa conference, notoriamente tra le più competitive dell’intero college basket (Duke, UNC, Syracuse, Notre Dame…), non prima di aver vinto una medaglia d’oro con la nazionale ai Mondiali del 1986.Si dichiara eleggibile al Draft: che i suoi 160 cm possano non essere più un ostacolo così insormontabile, neppure in NBA? La sera del 22 giugno 1987 David Stern pronuncia il suo nome alla dodicesima chiamata assoluta, per volontà dei Washington Bullets.

Dopo i soliti dubbi sul fatto se riuscirà o meno a far parte di un roster NBA, il tenore dei commenti degli analisti sfocia subito in una caciara pittoresca, degna di un talk con Barbara D’Urso. Motivo dell’ilarità: il più basso giocatore della storia affiancherà quello che allora era il più alto giocatore della Lega, il compianto Manute Bol.

“I vostri avversari saranno confusi, non sapranno se guardare in alto o in basso, vero?”

Il basket giocato è messo ben oltre il secondo piano: Muggsy è più simile a un fenomeno da baraccone, la curiosa attrazione di un Draft allora visto come poco denso di talento – idea smentita dal tempo, vista la presenza di David Robinson, Scottie Pippen, Kenny Smith, Kevin Johnson, Horace Grant e Reggie Miller.

Dopo un solo anno nella capitale, segnato più dalle tre cover di riviste in cui viene immortalato insieme a Manute Bol che da gesta memorabili sul campo, Bogues viene ceduto ai neonati Charlotte Hornets nell’Expansion Draft.

Per una scelta al primo giro venir ceduti a costo zero, come un pacco indesiderato, non dev’essere la migliore delle sensazioni. Ma come Elaine ricordava a suo figlio in continuazione “mai dubitare del disegno divino”: gli anni in North Carolina saranno quelli della rinascita, delle grandi soddisfazioni e dell’ingresso definitivo nella leggenda del Gioco.

L’arrivo di una franchigia NBA per la prima volta in uno stato cestisticamente così frizzante crea una passione spasmodica nei nuovi tifosi, e dagli Hornets ci si aspetta grandi cose. I primi due anni dal punto di vista sportivo sono piuttosto miseri, ma dai Draft 1991 e ’92 arrivano Larry Johnson e Alonzo Mourning: a quel punto Charlotte ha costruito una squadra di tutto rispetto e i risultati cominciano ad arrivare.

Muggsy nel frattempo ha le chiavi della squadra. Dalla stagione ’89-90, in cui viaggia oltre i 10 assist a gara, è stabilmente nella top 10 dei giocatori della Lega per servizi ai compagni e per palle rubate. Oltre ai già citati Johnson e Mourning, c’è Dell Curry – padre di un certo Steph – uno dei maggiori beneficiari delle scorribande di Bogues in mezzo all’area, facendosi trovare sempre pronto dietro all’arco per lasciar andare quel vizio di famiglia che con tanta regolarità trova il fondo del canestro.

Nel 1993 gli Hornets giocano un basket spettacolare, divertente ed efficace, centrando per la prima volta i Playoffs. Al primo turno li aspettano i Celtics, guidati dai veteranissimi McHale e Parish e da un giovane emergente, Reggie Lewis: esatto, proprio il compagno di liceo di Muggsy con cui tante battaglie ha condiviso in quel di Baltimora.

Nel primo quarto di Gara 1 Lewis, lontano dal gioco, finisce a terra: è un piccolo collasso, ma per lui è l’ultimo momento su un parquet. La sua stagione finisce in quel momento e nella stessa estate arriverà il tragico infarto durante un innocuo allenamento. I Celtics vincono Gara 1, ma Charlotte vincerà le 3 seguenti, con una mitologica Gara 2, chiusa dopo due overtime, e una Gara 4 decisa dal clamoroso canestro di Mourning sulla sirena.

Gli Hornets tornano ai Playoffs nel ’95, venendo eliminati al primo turno dai Chicago Bulls di un redivivo Michael Jordan, rientrato dal temporaneo ritiro. Durante la serie ci sono dei momenti in cui Muggsy è costretto a cambiare su MJ, ma come sempre nel corso della carriera non c’è nulla che lo spaventi, e cerca di rendergli la vita impossibile, a volte anche riuscendoci.

Quella stessa estate i due si ritrovano sul set di Space Jam, segno definitivo di come Muggsy sia entrato nell’Olimpo dei grandi del Gioco, oltre che nelle grazie di sua maestà.

Nel ’97 gli Hornets superano le 50 vittorie stagionali, Bogues registra le migliori statistiche in postseason, con 16 punti a uscita, ma la squadra perde nuovamente al primo turno per mano dei Knicks, subendo un cocente quanto inaspettato 3-0, forse per la prima volta deludendo gli appassionati tifosi di Charlotte.

Dopo due sole partite nella stagione successiva, Bogues viene spedito a Golden State in una trade, e nonostante giocherà per un’altra manciata di stagioni tra la Baia e Toronto, il suo canto del cigno finisce in quel momento.È come se non avesse mai lasciato quella città, a cui aveva dato tanto – record ogni epoca per minuti giocati, assist e palle rubate – e dalla quale a sua volta aveva ricevuto molto.

“I tifosi sono stati incredibili fin dal primo giorno in cui ho messo piede a Charlotte nel 1988. Un amore incondizionato nei confronti miei e della mia famiglia, mi sono sempre sentito a casa”.

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E dove poteva tornare, se non in North Carolina, una volta appese le scarpe al chiodo, dove ancora oggi vive con la sua famiglia – che conta già due nipoti – dedicandosi al volontariato, con la sua associazione Always Believe che aiuta ragazzi in difficoltà e insegnando pallacanestro, come coach di un piccolo liceo. Il cuore che ha messo in ogni singolo istante della sua vita e della sua carriera professionistica sono tesori preziosi anche per la Lega, che ne ha fatto uno dei suoi ambasciatori di punta, sempre in giro per il mondo, passato recentemente anche da Milano in occasione dell’apertura del primo NBA Store europeo.

Perché Bogues più di chiunque altro è un vero esempio di come la testa e il cuore possano sopperire alle limitazioni fisiche. Red Auerbach “converrà” che anche queste sono peculiarità che non si possono insegnare.